giovedì 30 luglio 2009

It differs depending on the comics


It differs depending on the comic, obviously, but I guess that my default way of reading the average, traditional comic is to first take a quick ’skim’ of the visual composition and art of the entire page (or two-page spread), then to proceed to a slightly longer glance at the art of the first panel. At that point, I usually read the narration and word balloons, and after that, I look more closely and patiently at the art. And then I go back and forth between the art and the words as often as is necessary to understand everything before moving on to the next panel. (And then sometimes I’ll have to go back to the first panel, sometimes I’ll skip ahead to look at the art for the last panel, etc. It wouldn’t be very entertaining to go on.)

Tim Hodler

“Cambia da fumetto a fumetto, ovviamente, però penso che il modo con il quale di solito leggo i fumetti tradizionali è di osservare velocemente la composizione visiva di tutta la pagina (o di due pagine), e successivamente di osservare più a lungo i disegni della prima vignetta. A quel punto, di solito leggo la narrazione e i balloon, e successivamente, guardo più attentamente i disegni. E poi ancora vado avanti e indietro dai disegni alle parole tante volte quanto mi è necessario per comprendere il tutto prima di passare alla vignetta successiva. (E qualche volta devo ritornare alla prima vignetta, qualche volta salto a guardare i disegni dell’ultima, ecc. Non sarebbe molto divertente proseguire.)”

Ho letto questa affermazione di Tim Hodler poco prima di ritrovarmi tra le mani l’ultimo lavoro di David Mazzucchelli, appena uscito negli Stati Uniti per la Pantheon Books, dal titolo Asterios Polyp.
Ho sempre trovato interessante riflette sul modo con il quale i lettori “affrontano” un fumetto, perché leggere un fumetto è una cosa assai semplice e complessa allo stesso tempo.
La decodifica di disegno e parole, il loro accostamento e lo sviluppo di un senso che li lega è un’esperienza intensa e ambivalente. Da un lato, appare più semplice della lettura di un testo di sole parole, perché le immagini lavorano sul piano iconico in modo più diretto e immediato delle parole. Dall’altro, tuttavia, la “lettura” di un’illustrazione per così dire narrativa, inserita in una sequenza di altre illustrazioni narrative, legata, supportata e amalgamata alla parola scritta mette in moto un processo di lettura assai stratificato.


Perché Mazzucchelli? Perché il suo ultimo romanzo, straordinario, ragiona in più parti sul concetto di percezione, attribuzione di senso, e lo fa con un processo di “mimesi”, per così dire, o attraverso tecniche meta-fumettistiche, nel momento in cui, per esempio, rappresenta graficamente i diversi personaggi, ambienti e oggetti con le più disparate tecniche (realismo, cartoon, forme geometriche). Un gioco visivo che ha proprio lo scopo di sottolineare le percezione multiformi, i differenti punti di vista, le diverse interpretazioni della realtà. Vengono in mente i paradossi di senso di Deleuze, nella sua felice analisi di Alice nel paese delle Meraviglie (Logica del senso, Feltrinelli) che, riprendendo Platone, ma spingendosi molto oltre, sottolinea la doppia realtà di tutte le cose: l’esistenza racchiusa nel momento specifico, codificata e rappresentata, carica di un senso definito e definitorio; il continuo divenire che sembra negare il momento presente, nel suo essere sempre nel passato e contemporaneamente nel futuro.

Mi sembra che la lettura di un fumetto, da un punto di vista che potremmo definire costruttivista, è proprio la precisa esemplificazione di questi concetti: nel momento in cui osservo una vignetta, la mia mente è già impegnata costantemente a ricostruire i fatti antecedenti a essa e immaginare i successivi. Come? Attraverso un’attribuzione di senso che si sviluppa per inferenze, riempiendo il bianco che esiste tra una vignetta e l’altra, rimettendo in fila le vignette (disegno e testo). Leggere un fumetto, in questo senso, appare come una continua corsa nel paradosso, dove l’occhio salta di qua e di là, avanti e indietro, da codici predefiniti come le parole a segni meno definiti come i disegni. Nel leggere, siamo tutti novelle Alice che si chiedono sempre se stanno diventando grandi e piccole allo stesso tempo.

Ognuno potrebbe raccontare il proprio approccio alla tavola. Ma, come conclude Hodler, sarebbe assai noioso dissezionare questo aspetto in modo schematico.
La complessità della lettura di un fumetto e, al contempo, la sua semplicità, proprio come il prima e il dopo di Deleuze, sono il paradosso per eccellenza di questo medium. Da qui, l’esigenza stringente di normalizzarlo, da un lato, attraverso standard produttivi e realizzativi consolidati (Bonelli, Disney, ecc.) e dall’altra la continua volontà di rivoluzionare e ribaltare quel che si dava per scontato del fumetto stesso. I paradossi si moltiplicano, perché non è raro sentire lettori occasionali di Bonelli dire di provare troppa fatica nel leggere i fumetti (categoria a sé stante distinta dai Bonelli che, a questo punto, nella loro mente sono altro rispetto ai fumetti). Così come capita più spesso di un tempo di conoscere persone che amano graphic novel complesse come Città di Vetro (per rimanere vicini a Mazzucchelli) ma di annoiarsi tremendamente di fronte a un qualunque Bonelli (di nuovo, specularmente, ai loro occhi due medium totalmente diversi).



Se esiste un’esigenza di educazione al fumetto, credo passa passare almeno attraverso due punti: sviluppare la consapevolezza che il fumetto è un medium con le sue caratteristiche distintive all’interno del quale esistono molteplici forme anche molto distanti tra loro; creare i presupposti per una vicinanza precoce, in età evolutiva, alle diverse forme del fumetto per, come dire, oliare e rafforzare la flessibilità percettiva e cognitiva che la lettura di un fumetto, qualunque fumetto, potenzialmente possiede.

Harry.

tutte le illustrazioni (c) David Mazzucchelli

mercoledì 29 luglio 2009

Fumetto post-moderno e 2.0


A parlare di ricalchi, copie, e quant'altro, anche sollecitato da alcuni interventi, mi torna in mente un piccolo esperimento a cui ho accennato in un precedente intervento e che richiamo ora: si tratta di Persepolis 2.0.

Ricordate che cos'è? Di una storia tutta nuova, di stringente attualità, che riutilizza i disegni originali di Persepolis di Satrapi.
Non è esplicitato, ma sono convinto che gli autori (due studenti iraniani) abbiano avuto il consenso dell'autrice.
Ora, poniamo il caso assurdo che Ferrario avesse giocato a carte scoperte e avesse convinto Panini a chiedere la disponibilità degli autori copiati (Miyazaki e gli altri) a utilizzare parte delle loro opere. Facciamo finta che abbiano ottenuto il consenso. E perché mai?
Perché Ferrario, Recchioni e Panini convincono gli autori che il progetto è un vero lavoro di omaggio e nuova sintesi (europea) della cultura visiva giapponese.
A questo punto, Cronache dal mondo emerso sarebbe diventato qualcos'altro.

Ma c'è un vizio di fondo, che mi piace evidenziare ragionando per assurdo. Persepolis 2.0 ha un intento e un obiettivo giornalistico, documentaristico, una rilevanza culturale, sociale e politica. Si tratta come minimo di un lavoro di testimonianza, come massimo di denuncia. E non ha fini di lucro.
Cronache del mondo emerso è puro marketing, non ha alcuna rilevanza sociale, ha un obiettivo esclusivamente economico.

Collegare il lavoro di Satrapi alla stringente attualità dell'Iran crea un corto circuito emotivo molto efficace, che dona ulteriore forza a Persepolis, anche alla luce delle sue ultime dichiarazioni in merito al suo paese, che ho avuto l'occasione di leggere recentemente (le trovate su Internazionale).
L'assemblaggio di Ferrario su Cronache del mondo emerso invece, mi appare, lo ripeto, come l'ennesima triste riprova dell'appiattimento culturale di cui siamo circondati.

Harry.

martedì 28 luglio 2009

Piccoli editori italiani (2)

non confondetevi, questo è Miyazaki


Proseguendo da qui...

E Panini Comics? A parte aver rinunciato a un gioiello, Hanzo la via dell’assassino, della coppia Kazuo Koike e Goseki Kojima (gli stessi autori di Lone Wolf and Cub, pubblicato proprio da Panini e a mio avviso una delle opere di ingegno più belle di tutti i tempi - qui) che è in corso di pubblicazione dalla rivale numero uno, Planeta De Agostini, la casa editrice modenese non rinuncia a confermare la sua difficoltà a sviluppare progetti editoriali autoctoni efficaci.
Dopo i clamorosi errori in Murphy 911 di Recchioni e Cremona (proprio a livello di progettazione editoriale), di cui ho parlato e che ha quanto meno mostrato superficialità nella definizione dei tempi di realizzazione, si imbarca in un altro episodio imbarazzante con Cronache dal Mondo Emerso. L’intenzione, interessante in termini di marketing, era di dare forma fumettistica ai best seller Mondadori di Licia Troisi. Di nuovo Recchioni alla sceneggiatura, viene scelto per i disegni Giuseppe Ferrario, che aveva già dato interessanti prove di sé altrove (per esempio su Milano Criminale).
Il disegnatore spiazza tutti con una virata nello stile che, per quanto sorprendente a confronto con le prove precedenti, appare coerente con il progetto e con la moda che vuole tutto, o quasi, “sporcato di manga”. Peccato che per ottimizzare questa evoluzione (?) del proprio tratto abbia letteralmente copiato, ricalcato disegni di Hayao Miyazaki. L’ingenuità del disegnatore è evidente. Scegliere uno dei più celebri autori giapponesi nel mondo da ricalcare, tra l’altro ampiamente pubblicato proprio da Panini Comics, appare pura follia. Si poteva prevedere che la stessa Panini Comics, nel lavoro di supervisione, avrebbe notato tale scelta e interpellato gli autori in merito. La cosa non avviene se non ex-post, dopo le segnalazioni di alcuni fan italiani dell’autore giapponese. Questa la storia a grandi linee (e spero che il riassunto non vi abbia annoiato). Ecco alcune considerazioni personali.

Innanzitutto Panini Comics dimostra di non saper fare l’editore di un progetto inedito. La leggerezza è tale da essere imperdonabile. E questo, anche alla luce delle sue scelte a posteriori. Senza minimizzare o ingigantire l’accaduto, decide di sospendere la pubblicazione per approfondimenti. Una scelta che indica senza giri di parole che il fatto è anche per la casa editrice piuttosto grave.
Recchioni dichiara di essere all’oscuro delle scelte del disegnatore e ne difende la buonafede. Ma mi chiedo, possibile che non abbiano discusso in alcun modo della caratterizzazione grafica del lavoro? Al di là della sceneggiatura consegnata, possibile che per un progetto simile non sia stato ragionato a priori quale sviluppo stilistico dare, quale impostazione, a quali lettori strizzare l’occhio? Un dubbio non poteva nascere?
Ferrario si dichiara colpevole, per ingenuità. Vero. Malafede o ingenuità poco contano, in questo ambito.
Ma una riflessione in merito trovo sia necessaria e la sviluppo volutamente a partire da un mondo diverso da quello italiano e giapponese. Chi ricorda gli X-Men di Jim Lee di inizio anni ’90?

non confondetevi, questo è Jim Lee


Tutti, e sapete perché? Perché ancora oggi la Marvel produce gli X-Men “clonando” Lee senza posa. Organico alla casa editrice Lee non lo è mai stato, semplicemente per ragioni economiche. Da lì la scelta di fondare la Image Comics. E Lee aveva ragione. Sulla forza del suo stile, sulle sue caratterizzazioni, sulle sue pose la Marvel guadagna e capitalizza, ahimé, ancora oggi. Solo Grant Morrison, forte della sua credibilità e personalità, ha saputo allontanarsi totalmente e in modo efficace da questo modello, grazie anche all’apporto di autori eccellenti (primo tra tutti Frank Quitly). Il punto è che Jim Lee e gli X-Men sono diventati essi stessi uno stile. E non si contano davvero gli autori che per tutti gli anni ’90 e dopo hanno ricalcato (letteralmente) pose e impostazioni grafiche.
Certo, lo stesso Lee, per capitalizzare a sua volta tale successo, ha dato vita a una “scuola” di talenti in seno al progetto Image, di cui vale la pena ricordare quanto meno il talentuoso e poco professionale Travis Charest, che più ha saputo personalizzare e allontanarsi dal modello. Ma alcuni dei cloni creati dallo stesso Lee negli anni hanno lavorato proprio agli X-Men della Marvel, con un circolo vizioso che, per lo meno sul piano creativo, ha avvilito e ancora avvilisce quella che è stata per alcuni anni una delle famiglie di personaggi più in fermento del fumetto popolare americano.
Non mi voglio allontanare. Citazione, stile, ricalco, copiatura, omaggio… la linea è sottile e quello che, al solito, marca davvero la differenza sono i soldi e la trasparenza.
Ferrario, facendo propria la lezione di Miyazaki in questo modo, oltre all’ingenuità con la quale ha macchiato la sua serietà professionale, ha tuttavia commesso altri due errori che reputo ancora più importanti e dolenti per il mercato fumettistico italiano: non ha saputo far propria tale lezione, spersonalizzandosi e banalizzandosi invece di svilupparsi ed evolvere; ha rinnovato l’idea della (presunta) necessità della copia, della ripetizione anonima di modelli per dare forma a successi editoriali. Un concetto che mi sembra essere uno dei mali peggiori dell’attuale cultura mediatica e popolare mondiale, e che, forse, è ancora più rilevante del problema del diritto di autore.

Harry.

Piccoli editori italiani (1)


Il piccolo mondo del fumetto italiano in questa estate inesperta mostra crepe e fratture che, se non mi sbaglio, potrebbero generare frane. Non svelerò nulla di nuovo, poiché sono temi all’ordine del giorno in internet.
Le questioni sono tre, due riguardano la casa editrice Star Comics, una la Panini Comics (ne parlo nel prossimo post) e hanno a che fare con un tema di cui ho già parlato qua e là e che è uno dei mali maggiori dell’editoria a fumetti italiana: la progettazione e la cura editoriale (ovvero la mancanza di esse).
Iniziamo da Star Comics.

È recentissima la notizia della chiusura anticipata di Trigger di Ade Capone. Del fumetto ho già parlato, evidenziando alcuni difetti strutturali della miniserie (di sei numeri) che sono alla base del suo insuccesso. Trigger chiude con il numero quattro, ovvero due numeri in anticipo rispetto alla previsione. Ridicolo? Direi di sì.
Il primo a lamentarsene è Ade Capone, che comunica il suo dispiacere con una malcelata amarezza nei confronti della casa editrice.
Qui i problemi sono due. Il primo è talmente evidente da rischiare di nascondersi all’ombra delle critiche: Trigger è una brutta miniserie. L’impianto, interessante, è banalizzato da una sceneggiatura e un concept anonimi e piatti. Per cui, il primo a dover fare mea culpa per l’insuccesso è Ade Capone. Quanti lettori hanno abbandonato la miniserie dopo la lettura dei primi due numeri? Sarebbe interessante sapere la curva delle vendite per sviluppare un ragionamento completo. Capone, nella sua comunicazione, tende a ridicolizzare la scelta Star Comics. Che io sappia, è la prima volta che accade per un’operazione del genere (produzione italiana) che l’editore perugino non mantenga i suoi impegni. I risultati sono così peggiori rispetto alle attese?
Quali che siano le vendite, tuttavia, è assurdo che una casa editrice non improvvisata non riesca a budgettizzare una produzione di sei uscite per portare a termine il lavoro. Non vi è nulla di peggio per intaccare la credibilità di un editore di chiudere una miniserie a più della metà del suo (breve) percorso. Qualcosa nella progettazione non ha funzionato. Credo che i punti siano quindi quattro: scarsa qualità del fumetto; poca fiducia di partenza nel progetto; difficoltà economiche complessive della casa editrice; vendite davvero risibili.
Aggiungo che non mi dispiaccio in assoluto della chiusura della miniserie. Progetti così deludenti non meritano altra sorte. Ma i segnali che si possono trarre non sono incoraggianti, da nessun punto di vista: del lettore, dell’editore, degli autori.

Star Comics è stata anche recentemente protagonista del più importante divorzio editoriale degli ultimi anni. Una faccenda che non è stata finora considerata in modo serio da nessuno (a eccezione del buon articolo di Ettore Gabrielli su LoSpazioBianco.it): i Kappa Boys hanno firmato un contratto con Giochi Preziosi per la pubblicazione di manga, interrompendo il sodalizio con la Star che ebbe inizio decenni fa. Sembra che sia stata proprio la Star a scaricare i Kappa. Perché?
La prima risposta potrebbe essere perché i Kappa Boys sono diventati troppo onerosi. La conoscenza, l’esperienza, la lunga collaborazione sono tutti elementi che fanno alzare il prezzo. Ma il gioco vale la candela? A prima vista il trattamento sembra macchiare la Star di un altro comportamento incomprensibile, se non scorretto. Ma anche qui, essere a conoscenza dei fatti è oltre le mie capacità.
Non prevedo acque tranquille per la Star Comics, e ancor meno per la sua credibilità, già intaccata anni addietro da assurde imprese editoriali nel campo della pubblicazione italiana di fumetti statunitensi.

Harry.

(continua)

Hanzo, la via del fumetto

More about Hanzo: La via dell'assassino vol. 01

Leggete Hanzo, La via dell’assassino
(Planeta De Agostini) di Koike e Kojima.
Gli autori del già osannato e straordinario Lone Wolf and Cub (Panini Comics) hanno proseguito il loro sodalizio creativo con questo nuovo lavoro. Il primo volume mostra la stessa intelligenza dell’opera precedente, la stessa densità narrativa, la stessa cura nell’evoluzione psicologica, la stessa sensibilità e poesia, la stessa attenzione alla verosimiglianza storica e culturale del Giappone feudale. È presto per dire se, nel complesso, tale lavoro possa avere la stessa grandezza di respiro di Lone Wolf and Cub, ma è certo che qui siamo di fronte, di nuovo, a un’opera rara per intelligenza e originalità del punto di vista espressivo. Due caratteristiche che sono gemme rare e inestimabili.
Si può cogliere la cifra stilistica di Hanzo a pagina 284 del primo volume, laddove, nel cuore di un duello che non terminerà, come prevedibile, nel sangue, si legge il seguente dialogo:
Dimmi, cosè un suppa? È come un’ombra. E cos’è un’ombra? È custodire nascosta nel cuore una lama affilata. Proprio così!

Harry.

Il piccolo, splendido blues di Tardi

More about Il piccolo blues della costa ovest

La Fantagraphics Books, sull’ultimo numero di Previews, propone la versione inglese di Il piccolo blues della costa ovest di Jacques Tardi (e Manchette).
Ho avuto il piacere di leggerne l’edizione italiana (BD) qualche giorno fa. Si tratta di un fumetto di genere (noir) assolutamente riuscito. Quello che arriva è l’intelligenza dell’idea di base e la naturalezza con la quale sono raccontati gli accadimenti. Non c’è grande spazio per l’approfondimento e la riflessione semplicemente perché non interessano a Tardi. L’autore francese vuole lavorare sul meccanismo narrativo e psicologico che fa del protagonista la vittima di un’esistenza di cui non è mai padrone, nemmeno nelle sue fasi più tragiche e radicali. Una necessità all’omeostasi esistenziale che il finale amaro ci sbatte in faccia senza mezzi termini. Difficile non riconoscersi. Difficile non applaudire a un tale lavoro narrativo, dove testi e disegno procedono in completa armonia e dove tutto sembra facile facile, a nascondere una complessità esecutiva da vero maestro.

Harry.

martedì 14 luglio 2009

(La mia) Crisi Finale?



Mi arriva il cartonato di Final Crisis (Dc Comics) sceneggiata da Grant Morrison.
Lo sfoglio e provo una sorta di vertigine, mi accorgo di quanto la moderna estetica dei supereroi di casa mia (USA) sia saturante. Saturazione visiva, tematica, dinamica, espressiva. Questa caratterizzazione (grafica e narrativa) costantemente sopra le righe mi provoca, nel momento in cui osservo (da fuori) le pagine di Final Crisis, senza entrare davvero nella lettura, un rifiuto che è innanzitutto emotivo.
Le storie di supereroi procedono sempre per contrapposizioni estreme, l'epica è estetica del dramma estremo. I sensi, per primo quello visivo, ma non solo, sono aggrediti attraverso un effetto massivo di ridondanza espressiva.


Ma è un inganno. Perché dietro a un tale approccio estremo, si nascondono profonde semplificazioni. Se si ritorna alla lettura della dinamica dei simboli, dei rapporti tra i simboli, si scopre che il fumetto popolare statunitense per antonomasia altro non è che il conflitto tra bene e male, tra vita e morte. Questa esigenza a estremizzare, a polarizzare le posizioni, a schematizzare per eccessi, caratterizza in modo genetico la cultura statunitense.
Ne riconosco l'origine e il fascino per i lettori. Ma anche i limiti. Soprattutto, in questa vertigine sensoriale dovuta a Final Crisis, mi accorgo della facilità con la quale, a un certo punto, si rischia l'intossicazione e, in definitiva, il rifiuto.
Non so come tutto ciò sia percepito dal lettore italiano.

Riposto il volume sulla libreria, mi riservo di tornarci dopo un periodo di disintossicazione. Grant Morrison merita sempre una possibilità.

Eura (non)Editoriale


Per l’Eura Editoriale nutro un profondo sentimento ambivalente di odio/amore.
Amo molte delle produzioni che realizza, ha nel suo catalogo alcuni dei fumetti più interessanti usciti negli ultimi 30 e più anni (con autori straordinari quali Robin Wood e Carlos Trillo, con pubblicazioni francesi degne di nota, con esperimenti coraggiosi quali John Doe, ecc.); ma non apprezzo molta parte della loro impostazione editoriale.
Attraverso meccanismi di produzione ormai assenti in altre realtà italiane, realizza prodotti davvero particolari. E ripensando a pubblicazioni come Cybersix (è appena uscito il volume Coniglio Editore con la ristampa delle prime storie) è innegabile la creatività e lo sforzo editoriale che sono state messe in campo. Eppure, sotto molti aspetti, Eura Editoriale è una casa editrice che non vuole evolvere, soprattutto sul piano della cura editoriale.

Credo abbia un concetto di fumetto popolare ancorato agli anni … sessanta? È il concetto del prodotto usa e getta, che valorizza poco o nulla gli autori, che non è interessata a un rapporto di fiducia con il lettore, che non ha apparentemente interesse a collaborare allo sviluppo di una diversa consapevolezza del fumetto come forma di comunicazione.
Altrimenti non si spiegherebbe la cura editoriale che dire sciatta è dire poco. Un esempio.
Esiste da anni in edicola la collana di ristampe I Giganti dell’Avventura, che è al top delle mie preferenze da molto tempo. Recentemente è stato fatto un restyling editoriale che è quasi ridicolo. Per la testata della collana è stato usato il più banale e brutto effetto di photoshop che possa esserci, la carta utilizzata è di scarsissima qualità, tanto che si mangia l’inchiostro come un dinosauro, perdendo la resa dei neri in modo umiliante per i disegnatori. Non ci sono note di copertina sugli autori, sugli anni di pubblicazione originale delle storie, non si sa di quanti volumi è composta l’intera ristampa, e le diverse serie vengono pubblicate a scacchiera, a singhiozzo, senza alcuna logica apparente.

L’esempio più recente è la pubblicazione del primo volume di Detective Abbeyard, di Viviana Centol e dell’immenso Carlos Enrique Vogt (del quale amo particolarmente i primi cicli di storie di Mojado con Robin Wood, reperibili anch’essi in questa collana, ma che ha realizzato altre opere assolutamente uniche).
La prima cosa che mi sono chiesto è stata, chi è Viviana Centol?
Poi, Detective Abbeyard quando è stato pubblicato in origine?
Quante storie sono state realizzate finora?
Quanti volumi occuperà?
Quando uscirà il prossimo volume (sottolineo che il volume non è autoconclusivo e che la storia rimane sospesa)?

Potrei andare avanti.
Io non amo particolarmente la rete, anche se Guglielmo Nigro mi ha convinto ad aprire questo blog (che mi aiuta a gestire). Però so effettuare una ricerca con google. Ci provo, prima con “Detective Abbeyard”, poi con “Viviana Centol”. Trovo poco o nulla. O meglio, non trovo nulla di più di quanto possa sapere dal volume che ho in mano. Il sito dell’Eura Editoriale a cui accedo quasi per caso è altrettanto povero (provate, partendo da qui).

Mi rassegno. E mi chiedo, di nuovo, che servizio ha reso Eura Editoriale ai suoi autori e ai suoi lettori? Oggi il fumetto popolare è cambiato. Diamo visibilità agli autori, ai contenuti.
E soprattutto, che politica è quella di una casa editrice che non fa sapere quando uscirà il prossimo volume di un’opera non conclusa, che non comunica se esistono nel suo catalogo e quali sono altri volumi realizzati dagli stessi autori, che non favorisce, per quanto possibile, con brevi introduzioni o note alle pubblicazioni, la consapevolezza del lettore rispetto all’opera che ha in mano?
Tanto più che Detective Abbeyard è un lavoro assolutamente originale, fuori dagli schemi, divertente, ricco di idee, coinvolgente. Come molte, moltissime altre produzioni di Eura Editoriale (soprattutto sudamericane).
Si tratta come minimo di un’enorme occasione persa, perché non favorisce il dialogo e l’attaccamento del lettore verso la casa editrice, perché non fidelizza e non aiuta; ma dal punto di vista del mezzo di comunicazione, si tratta di una vera manifestazione di superficialità e di scarsa professionalità.

Ciò detto, reperite e leggetevi l’ottimo Detective Abbeyard, I Giganti dell’Avventura n. 74.

giovedì 9 luglio 2009

Letture recenti (1)



Julia 130, Myrna sono io, (Sergio Bonelli Editore) di Berardi, Montero e Zuccheri è un piccolo gioiello di efficacia narrativa. Giocare con le aspettative dei lettori è l’arte più complessa e nobile della fiction. E ha grossi, enormi rischi. Perché al lettore piace sentirsi “ingannato” quando ci legge dietro intelligenza e passione, e quando genera vivo coinvolgimento. Tutto questo, in Myrna sono io, accade, a conferma di un team di lavoro ormai collaudato e per molti versi raro nel fumetto italiano. Da avere.




Gravel, TP1, di Warren Ellis è un fumetto edito in USA dalla Avatar Press. Un fumetto horror incentrato sul protagonista omonimo, un britannico che per mestiere fa il mago combattente. Il soggetto non brilla per originalità, ma la freschezza della sceneggiatura e la cura per le pieghe psicologiche del personaggio rendono Gravel una lettura coinvolgente. Un punto di vista originale sull’horror, che richiama le migliori sequenze narrative di Hellblazer della Vertigo. Soprattutto se paragonato a…




Rourke 2, di Memola (Star Comics) che si conferma superficiale, poco convincente. La vaga somiglianza fisica di Gravel con Rourke, le origini anglosassoni, la passione comune per gli alcolici e il fatto che ho letto le due storie in parallelo, mi hanno creato una leggera vertigine e sovrapposizione. E il paragone è stato immediato. Troppe le somiglianze superficiali, troppe le differenze nel trattamento narrativo. Tanto è disturbante e caratterizzato Gravel, tanto è anonimo e scialbo Rourke. Peccato, perché la matrice generica sarebbe buona. Ma i temi trattati sembrano lontanissimi dalle corde di Memola. Momento meno felice: la filippica dell’assistente sociale belloccia, che non si può leggere per qualunquismo e scarso realismo. Per me, ultimo appello.

Caravan 2, di Medda e Raffaele (Sergio Bonelli Editore) prosegue da dove si era concluso il precedente. Il movimento resta efficace. La tensione cala. Succede troppo poco forse in questo numero per colpire davvero il lettore. Ma la cura nella sceneggiatura e gli ottimi disegni di un Raffaele che sembra trovare buona ispirazione in De Angelis sono la conferma per una miniserie da seguire.






Wimbledon Green di Seth (Draw & Quaterly) è un esplorazione meta-fumettistica sulla psicologia del collezionista di fumetti. È un gioco sofisticato nelle intenzioni, denso sul piano concettuale, ma poco significativo sul piano del risultato narrativo. Nella sua genesi, da improvvisazione espressiva, è un’opera comunque molto interessante per comprendere a che punto sia l’arte di Seth, ottimo cartoonist canadese. Speriamo in una prossima opera più “seria” e meno auto-compiacente.

giovedì 2 luglio 2009

Fumetterie - cosa fare (2) - Economia


Spero si sia capito dalla prima parte di questa analisi sulle fumetterie, che vendere fumetti richiede professionalità e attenzione. Non è sufficiente avere dei muri con dello spazio all’interno, una vetrina e degli espositori per farne una fumetteria (che funziona). La regola d’oro della distribuzione (grande o piccola, settoriale o generalista) ci dice che ogni cm2 del vostro negozio ha un costo e dovrebbe avere una resa. Si deve quindi riflettere, sperimentare e verificare i risultati. Nel momento in cui giustificate i vostri fallimenti commerciali con frasi tipo “è colpa del mercato, i fumetti non vendono, c’è la crisi, …” avete già fallito, vi resta solo di chiudere. Ragionate in chiave positiva: se faccio questo a quale risultato può portarmi? Se provo quest’altro quanto riesco a vendere in più?

Ma andiamo avanti e concentriamoci proprio sull’aspetto economico:


4. Avere un chiaro obiettivo economico e sapere come raggiungerlo

Per avviare e guidate un’attività commerciale, dovete sapere quanto vi costano i muri (acquisto o affitto dell’immobile), quanto margine netto avete sui prodotti che vendete, quante tasse dovete pagare, quanto costa il vostro tempo che spendete in negozio, quanto volete investire sulla comunicazione e sulla pubblicità (locale, quanto meno). Dovete ipotizzare i guadagni del primo anno di attività, gli incrementi che vi attendete almeno per i successivi due anni, e dopo quanto tempo ritenete un successo rientrare nelle spese (pareggio) e iniziare a guadagnare veramente.
I costi di inizio esercizio sono un investimento. Non archiviateli come non importanti ma non aspettatevi di ripagarli in un anno di lavoro. Se non avete un budget che vi permette di misurarvi almeno su tre anni di attività (due?), non provateci neppure.
Dopodichè, fate i vostri conteggi settimanalmente e mensilmente. Il controllo di gestione è fondamentale. Dovete sapere alla perfezione cosa si muove nel vostro negozio e quanto rende. Le decisioni del punto 3, cosa valorizzare e come, dipendono anche da quanto questo vi fa guadagnare.
Se puntate su Absolute Watchmen (se non sapete cos'è, non aprite una fumetteria!) della Planeta De Agostani perché è in uscita il film, cercate di valutare adeguatamente il costo di un’eventuale invenduto (ogni volume costa 35 euro!), il margine di ogni pezzo venduto, i tempi di consegna in caso di riordino, il potenziale di long seller che ha il libro (ovvero, se mi restano quindici copie di Watchmen invendute, dopo sei mesi dall’uscita del film, ho buone speranze di venderle, perché si tratta di uno dei long seller più importanti del fumetto; ma se lo stesso numero di copie riguarda, non so, uno speciale di Elektra realizzato per il film, passati sei mesi, temo che dovrete accollarvi la spesa senza molte speranze e in questo modo vi siete totalmente bruciati i guadagni delle copie di Elektra che avete venduto).

Se siete totalmente all’oscuro di conti, non basta un buon commercialista. Partecipate a un corso di base sul controllo di gestione. Investire vuol dire anche spendere per accrescere le competenze personali utili al successo della vostra attività commerciale. Sembra assurdo, ma la cosa vale anche per la conoscenza del fumetto. Se non siete grandi esperti di fumetto (non dovete essere dei critici del fumetto per vendere fumetti!), consultate un amico o qualcuno che lo sia, e fornitevi di una bibliografia essenziale per conoscerlo. Stabilite un budget per l’acquisto del materiale di base per conoscere quello che dovete vendere (e mi riferisco anche a saggi sul tema. In Italia non sono molti ma ci sono. In lingua inglese ce ne sono parecchi).
Rispetto alle librerie di varia, avete un vantaggio capitale che dovete gestire: chi entra nella vostra fumetteria si aspetta competenza e di poter trovare prodotti fondamentali del fumetto che non si trovano nelle librerie. Per capire come non si gestiscono i fumetti, sul piano commerciale, potete osservare molto attentamente il caos della sezione fumetti della maggior parte delle librerie di varia (dove esiste): buchi importanti nelle collane (c’è esposto il numero 2, manca il numero 1, non è mai stato ordinato il 3, …), assenza dei long seller e delle opere fondamentali, abbinamenti impropri con libri di umoristica o di illustrazione, molte copie sullo scaffale di uno stesso libro, uscito magari tre anni addietro, presenza di una sola copia dell’ultimo Gipi (se non sapete chi è, dovete documentarvi), lentezza nel riordino di prodotti che vendono con regolarità, una scelta del tutto insensata delle novità (probabilmente decisa in base a eventuali indicazioni dei distributori più intraprendenti), ecc.
Le librerie di varia sono in parte giustificate perché da loro manca la competenza di settore. Questo è il vostro valore aggiunto.
Per cui, decidete quanto spazio e quale costo vi volete accollare per mantenere in fumetteria una sezione di fumetti imprescindibili. Decidete inoltre per quanto tempo volete esporre sugli scaffali un fumetto prima di ritirarlo perché invenduto. Non lasciate per troppi mesi lo stesso prodotto nella stessa posizione, perché non state facendo nulla per venderlo e perché state occupando uno spazio costoso che potrebbe ospitare un prodotto di maggiore vendibilità.
Mi dilungo, ma la questione economica è fondamentale. Dovete essere piccoli imprenditori. Non siate snob, non siate superficiali, non siate approssimativi.

Se vendete prodotti in lingua inglese, fate attenzione al cambio. Non cercate di guadagnare troppo sul cambio, perché sareste totalmente fuori mercato rispetto a fumetterie concorrenti e soprattutto rispetto alle vendite on-line, ma mantenete un margine di guadagno. Pretendete che il vostro distributore aggiorni il costo del dollaro in tempo quasi reale, per non rischiare perdite quando sale o non essere concorrenziali quando scende. Non sempre vendere materiale originale porta guadagno, ma è un ottimo servizio per i clienti, che permette fidelizzazione e acquisti ricorrenti (perché? Perché gli acquisti di materiale estero funzionano esclusivamente su prenotazione, e si prenotano con almeno due mesi di anticipo).

Se decidete di fare pubblicità, stabilite quale limite di investimento volete dedicare e dopo quanto tempo vi aspettate dei ritorni. Fate pubblicità mirata in funzione del vicinato e del bacino di potenziali clienti. Tenete conto che raramente avrete il problema della concorrenza diretta: le fumetterie in Italia sono poche. Certo, anche i clienti reali sono pochi. Ma sono moltissimi i potenziali lettori. Osservate il mercato (e ne riparleremo). Il fumetto, certo fumetto, sta diventando una piccola moda. Per cui è possibile che la vostra pubblicità raggiunga persone che hanno scoperto il valore del fumetto con Internazionale, con qualche libro Becco Giallo o con l’ultimo successo cinematografico, e che sarebbero ben felici di entrare nel vostro negozio per approfondire.
La vostra pubblicità deve quindi avere due target almeno: gli appassionati di fumetti che scoprono di avere un nuovo negozio vicino; i “lettori generalisti” potenziali clienti che possono essere incuriositi dal mondo del fumetto. Ai primi dovete comunicare quasi esclusivamente che siete arrivati in città. Ai secondi dovete comunicare esperienza, vicinanza, accoglienza. È il secondo bacino, quello dei “generalisti”, quello che può marcare la differenza e sul quale vale la pena cercare di investire nel tempo. Ma è anche quello più impermeabile, difficile. Ricordate la responsabilità di questi passaggi: a patto che riusciate a far entrare un “generalista” nel vostro negozio (prima impresa), dovete accoglierlo in un ambiente che non lo faccia scappare dopo un minuto (seconda impresa), dovete invogliarlo all’acquisto di un prodotto (terza impresa), dovete fare in modo che torni (quarta impresa).
Cosa dovete fare per ottenere tutto ciò? Quali costi effettivi ha? Quanto tempo vi porta via? Che bacino potenziale di clienti di questo tipo avete? Fate le vostre valutazioni e tirate le somme, senza barare con voi stessi solo perché un insuccesso metterebbe in discussione il sogno di una vita.

Harry.

(continua)

mercoledì 1 luglio 2009

Fumetterie - cosa fare (1)

L'interno della Borsa del Fumetto di Milano


La Borsa del Fumetto di Milano è un’istituzione nazionale italiana, essendo una delle fumetterie più antiche nonché una delle più fornite. Come la maggior parte delle “istituzioni italiane” è puro caos.
I gestori di tale antro del nano devono avere una memoria mastodontica per ricordare dove assiepano i fumetti, all’interno del negozio e all’interno dei loro magazzini. Anche se alcuni fatti mi portano a dubitarne. Fino a quando ne ho avuto conferma, infatti, era praticamente impossibile per loro recuperare materiale arretrato (soprattutto in lingua inglese) di cui erano in possesso. Non so se le cose sono cambiate. Ma il loro stock in giacenza, enorme e costoso (costi di gestione, costo economico di ogni referenza) era pressoché irraggiungibile.
Nel complesso, quel caos e quella gestione scomposta mi ricordano terribilmente la modalità con la quale molti appassionati di fumetti conservano i propri “tesori” in casa, tra librerie, scatoloni e quant’altro. Senza una catalogazione ordinata, ogni appassionato fa la fine del bibliotecario di Babele di borgesiana memoria. Provate a chiedere un qualunque fumetto che abbia più di tre anni a un amico appassionato che non ha catalogato i propri fumetti, vi odierà profondamente.
Quel che è peggio è che tutta quell’ansia derivante dalla faticosa, nevrotica gestione, si riflette chiaramente nel modo in cui trattano i clienti: poca o nulla attenzione alle singole richieste, relazione brusca e insofferente, chiusura. Il contrario dell’orientamento alla vendita. Mi è stato riferito di più di una persona che, delusa e indispettita, ha evitato di ricorrere ai servizi della Borsa del Fumetto per la propria passione. Quante mancate vendite ha la Borsa del Fumetto ogni giorno?
Con la Borsa le cose funzionano così: entraci, guarda, cerca, scova e acquista quel che trovi (spesso, molto più e un po’ prima che nelle normali fumetterie). Ma non osare chiedere arretrati né tanto meno fare abbonamenti, ne rimarresti frustrato.

Questa premessa è per iniziare a rispondere a un tema già anticipato: quali compiti deve svolgere un negozio specializzato in fumetti?

Non credo di avere le idee chiare, ma mi piace rifletterci per discuterne. Andiamo per ordine:

1. Far entrare i clienti nel negozio

Il primo compito di un negoziante è far entrare potenziali clienti in fumetteria. Non è una banalità. Richiede riconoscibilità e “apertura”. Troppo spesso le vetrine e le insegne dei negozi in Italia sono poco invitanti: o non si capisce cosa vi venga venduto all’interno; o sembra un piccolo mondo impazzito, fatto di pupazzetti (action figure), carte da gioco, manga e supertizi in calzamaglia, estremamente settoriale, caotico e quindi difficilmente accogliente.
Le vetrine e l’insegna devono invitare i possibili clienti a entrare. Devono promettere qualcosa, che sia riconoscibile, che sia coerente con quanto si troverà all’interno.
Lo sappiamo, la cultura fumettistica è rara (lo è tra i cosiddetti appassionati di fumetti, figuriamoci tra gli altri!), ed è ancor più raro, per la gente comune, sapere che esistono negozi (seri) specializzati nella distribuzione di opere a fumetti.
Un modo per favorire questa conoscenza è organizzare eventi con autori e case editrici. Ma ci torno.

2. Vendere fumetti

Understatement: se si decide di aprire una fumetteria, si devono vendere fumetti. Si deve decidere quali fumetti vendere, come esporli, con quali logiche di display, quali valorizzare di più mese per mese, dare loro spazio e valore. Non soffocate i fumetti l’uno con l’altro, penalizzandoli rispetto a statue, pupazzetti, spade laser, set di carte, … Se si decide che il merchandising è più redditizio dei fumetti, fate una scelta chiara. Ma poiché, evidentemente, un elemento commerciale è funzionale all’altro, create abbinamenti, pensate a come esporre i prodotti. Ci sono molteplici criteri, dalla vicinanza tematica (che preferisco, ma richiede competenza), al paese di origine, al formato, ecc. L’importante è che un criterio ci sia e che il cliente lo percepisca.
Soprattutto, movimentate i prodotti sugli scaffali. Creare movimento permette di far vedere al cliente cose nuove, di offrire varietà e curiosità, di valorizzare i prodotti in modo mirato.
Avete un sacco di tempo, per movimentare. Durante le giornate morte della settimana, non perdete tempo nel stare dietro ai 5, 6 avventori che regolarmente vengono a giocare a carte nel vostro negozio, a dire cazzate sull’ultimo manga di successo, a parlare di fighe. Rimboccatevi le maniche e movimentate i vostri prodotti. Valorizzate quello che vendete. Il vostro compito è pressoché solo questo.

3. Decidere su quali fumetti puntare

Vendete fumetti. Ma quali? Il mercato italiano è molto variegato e stratificato. Ai negozianti è chiesto di scegliere. Le case editrici stesse lo pretendono (spesso a sproposito). Ma è una necessità importante, e può fare la differenza. Valutate la vostra clientela o ragionate su quale tipo di clientela vorreste intercettare (a seconda che apriate l’attività da zero o rileviate un negozio già esistente). Proponete i prodotti in cui credete, per qualità, vendibilità, mode. Cercate accordi con le case editrici, alfine di investire insieme (possibilità di resi? Sconti maggiori?) su alcuni prodotti.
Offrite ai potenziali clienti una proposta commerciale chiara. Caratterizzatevi.
E ogni tanto, rischiate.
Provate a vendere fumetti diversi dal solito. Verificate cosa succede. Se vi fermate, fermate tutto. Ma budgettizzate il vosto rischio, non muovetevi alla cieca.
E soprattutto, ricordatevi di ordinare di nuovo i fumetti che avete venduto! Sembra assurdo, ma spesso, dopo l’ordine “di impianto”, non si pone abbastanza attenzione a quanto viene venduto, per distrazione, perché pressati dalle uscite del mese successivo. Se un prodotto non seriale vende, magari al di sopra delle aspettative, fate cura di averlo regolarmente in negozio.
Per dare forza alle proposte editoriali, trovo bello, per esempio, utilizzare la proposta del mese; un fumetto in bella vista che voi proponete perché lo ritenete sopra alla media, per qualunque ragione: attualità, vendibilità, cura editoriale, valore culturale, ecc. Mettetelo in bella vista e proponetelo per quello che è. Non barate, perché ne va della fiducia dei clienti.
O ancora, ai clienti più stabili, dei quali iniziate a conoscere i gusti, prestate loro qualche fumetto, con il patto di acquistarlo se gli è piaciuto. Cercate di ampliare il loro sguardo con prodotti nuovi che per qualche ragione sono sfuggiti. Ma a un appassionato di Gipi non proponete Dragon Ball, e viceversa. Ne va della vostra credibilità.
Ricordatevi che siete venditori e non gestite una biblioteca. Per voi conta soprattutto vendere, prima che fare cultura o quant’altro. Le due cose possono procedere di pari passo, i lettori si possono “educare”, ma deve essere tutto funzionale alla vendita.

Harry.

(continua)

Patagonia non è un capolavoro

Consiglio a tutti di leggere Patagonia, il nuovo albo gigante di Tex, a firma Mauro Boselli e Pasquale Frisenda.
Da quando Claudio Nizzi ha abbandonato Tex, il personaggio simbolo della Sergio Bonelli Editore, si sono succedute una serie di buone notizie e di buone storie: Boselli è diventato lo sceneggiatore principale, affiancato da Tito Faraci che, come ammesso da lui stesso, con Tex ha l’ambizione di trovare una casa (spero non si riferisca alla sicurezza economica) e a breve da Gianfranco Manfredi (che dice di divertirsi con Tex come non gli capitava da tempo); il parco disegnatori, già ricco, è diventato il più significativo del fumetto italiano e Pasquale Frisenda è solo uno degli ultimi degli importanti innesti.
Le storie, come detto, sono cresciute notevolmente. Sempre all’insegna dell’avventura più classica, gli autori stanno riscoprendo e restituendo al lettore il divertimento che nasce dall’invenzione narrativa dentro a regole e canoni prevedibili e molto chiari. A dire il vero, al momento, l’esordio di Manfredi sulla testata regolare deve ancora avvenire, e sono soprattutto Boselli (il miglior autore di Tex dopo Bonelli) e Faraci a motivare il nuovo entusiasmo per la testata.
Per gusti personali e sensibilità, non credo che Tex sia oggi la migliore serie Bonelli, ma certamente lo sforzo editoriale degli ultimi mesi si muove in questa direzione.

Patagonia può essere il simbolo di quanto detto. Il cosiddetto Texone è da sempre un esempio positivo di progettazione editoriale, per lo meno per due ragioni: l’intenzione reale di Sergio Bonelli di rendere questi albi davvero speciali; il prezzo disarmante.
Il Texone costa poco, pochissimo per l’impegno che gli autori e la casa editrice investono ogni anno. È un costo che è assolutamente fuori mercato rispetto a qualunque altra pubblicazione prodotta in Italia. La motivazione risiede nelle vendite, senza dubbio. È un albo dalla produzione costosa che si ripaga completamente. E lo fa, come detto, grazie al pieno rispetto del concetto di “evento speciale” che dal primo numero lo caratterizza.
In Patagonia l’evento sono gli straordinari disegni di Pasquale Frisenda. Il disegnatore, già collaboratore di Ken Parker e di Magico Vento, ha un talento visivo raro che nelle tavole di grandi dimensioni del Texone letteralmente esplode. È romantico, crepuscolare, dinamico, evocativo, …
Ogni disegno è formalmente equilibrato nella composizione, mai automatico, pensato nei particolari. La caratterizzazione del protagonista non sempre è perfettamente fuoco, forse, ma è la coralità della storia imbastita da Boselli a dare forza all’impostazione grafica di Frisenda. E gli sconfinati ed esistenziali territori della Pampa argentina.

Detto ciò, Patagonia resta solo un buon fumetto, ricco di talento ma nulla più.
Il soggetto è trattato da Boselli in modo poco equilibrato. Più di metà storia è fatta di chiacchiere, di pesanti ritorni e riflessioni sugli eventi. Il meccanismo narrativo è poco fluido, macchinoso. Quando si precipita al finale, è troppo tardi. A ciò va aggiunto che Frisenda, con la sua cura e la sua attenzione, con il suo amore visivo, risulta a volte autocompiacente, altre volte eccessivamente retorico. È come se la sovraesposizione dello speciale avesse amplificato i latenti e potenziali difetti dei due autori, trasformando un possibile capolavoro in una sua versione grottesca.
Il termine grottesco non inganni. Nulla in questa storia ha i toni dell’ironia o del poco serio. Ma è il risultato finale ad apparire talmente consapevole (sul piano dei mezzi, delle capacità, degli obiettivi da voler raggiungere, ecc.) da risultare macchinoso, inutilmente bello, in definitiva sterile.

Forse il difetto è genetico. Tex, dopo anni e anni di storie popolari, non può che essere una parodia di se stesso, una figura retorica del fumetto italiano, dove lo spazio per raccontare una vera storia è pressoché inesistente. All’interno di Tex è solo possibile essere dei bravi, freddi professionisti, o non esserlo affatto (l’ultimo Nizzi, ormai stanco e anonimo, ne è un esempio). Ma la tecnica non è sufficiente per emozionare il lettore, o per dare forma a un’opera davvero significativa. Realizzare Tex è quindi un atto di professionale dedizione, per lo meno quanto leggerne le storie. Si possono fare bene o male entrambe le attività. È un patto tra autore, editore e lettore in auge da decenni, che funziona, ma che non può più riservare vere sorprese. E che ha molto a che fare con la fiducia. Una fiducia che Sergio Bonelli sta cercando di confermare con tutte le sue forze.


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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.