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martedì 19 luglio 2011

L'impossibile critica (4)



Ma manca davvero un nuovo sito di critica sul fumetto in Italia?
E ammesso che sì, intuitivamente, e d’istinto, e per le buone ragioni, accettiamo questo bisogno, ecco, a chi appartiene veramente?

Ai lettori di fumetti?
Ai lettori generalisti?
Agli autori?
Agli editori?
Ai loro uffici stampa?
Ai distributori?
Ai critici stessi?

Ammettiamo anche che un buon sito di critica serva all’insieme comune di questi interlocutori. E fingiamo anche che esista un punto di equilibrio capace di accontentare i molteplici bisogni di tutti loro.
Allora mi chiedo, quale tipo di critica serve? È un tipo di critica che manca? O il perfezionamento (la fusione, la mediazione, lo sviluppo) di qualcosa che già esiste?

Seguendo il buon senso della concretezza, dovremmo allontanarci dai principi e dai poeti, e ritornare alle persone, ché la critica è anche (e soprattutto) una prassi, realizzata appunto da singole persone sole o associate (aggregate, coagulate, … le metafore potrebbero essere molte). Esistono molteplici motivazioni che spingono le persone a fare critica, e se ne è parlato a dismisura. Ma non si parla mai, o quasi, delle funzioni (umane) cui tale esercizio risponde e che sono, in qualche modo, sottostanti. Le funzioni cui mi riferisco sono eterogenee, e hanno a che fare con: il piacere di condividere interessi e idee; la bellezza di confrontarsi su opere di ingegno umano; più prosaicamente, la voglia di occupare tempo durante lunghe e noiose ore di lavoro al pc; la determinazione ad affermare la propria idea, il proprio io nell’ossario egoico della rete; la convinzione di saper aggiungere qualcosa di nuovo a quanto già è stato detto; la volontà belligerante di attaccare e sconfiggere presunti antagonisti (ideologici o professionali); il desiderio di ottenere più potere, all’interno di un contesto circoscritto e fortemente personalistico; l’amore per l’esercizio della parola scritta; …

Tante, troppe le funzioni sottostanti all’esercizio critico. Costituiscono il non detto di un’attività umana complessa. E allora serve onestà. Prima di pensare a quali obiettivi o finalità un sito di critica sul fumetto debba avere, è fondamentale che il critico per primo comprenda le funzioni che lo guidano e ne riveli i meccanismi. Solo in questo modo, credo, sarebbe possibile per la critica diventare più seria, adulta, credibile.
Altrimenti, ogni espressione critica risulta impossibile, perché strumentale e, in definitiva, irreale.

Harry

mercoledì 2 marzo 2011

Codici e mondi



Mi capita svariate volte, lo so, grazie anche all’approccio sempre più metafumettistico di molti degli autori che amo. Eppure ringrazio John Doe 5 di Recchioni e Genovese per avermi ricordato la questione del “linguaggio”,  dei “codici” o di come diavolo vogliamo chiamarli. A metà racconto, Genovese cambia stile, e ci immerge in sei tavole di puro Diabolik. Un’immersione che avviene dalla prima vignetta di quelle sei tavole, per quanto mi riguarda, e che mi ha colpito per l’efficacia e il cambio emotivo che sottende. Ecco, il fumetto seriale è spesso fatto di queste cose. Pensiamo ai fumetti Disney, per dirne una. Diabolik in questo è forse il più coerente e… rigido. John Doe no, John Doe ha un’eterogeneità talmente ampia che è difficile, per me, ritrovare un sostrato comune ai vari episodi. Scelte artistiche, difficoltà produttive e via dicendo. Punto di forza o punto di debolezza?


È di questo che ha voluto occuparsi Giancarlo Berardi con Julia, di questo codice comune, riconoscibile e trasversale alla serie che accompagna ogni storia e muove precise emozioni e aspettative. Un lavoro che come sai per anni ho sottovalutato e, perché no, poco compreso.
A marzo in edicola trovi Laura Zuccheri ai disegni di Julia. Lei è, per me, il canone di Julia. Ed è bravissima.
Per inciso, ti dico che John Doe 5 è la storia più divertente di Recchioni che mi è capitato di leggere in anni e che Luca Genovese è il complice perfetto. Puro talento.

Harry

lunedì 1 novembre 2010

Ecumenico



Torna John Doe.
Niente di nuovo, purtroppo.
Una storia atea sulle divinità. Niente di male.
Ma niente di nuovo. Prevedibile.
Ecumenico.

Harry

giovedì 28 gennaio 2010

Mater Morbi 2, invettiva

foto di recchioni dal blog di paola barbato


Nel difetto genetico del fumetto c’è l’invisibilità mediatica.
Migliaia di pagine all’anno passano inosservate e sottotraccia rispetto al gioco delle parti dell’informazione e della cultura nazionale. In Italia, il fumetto non ha distinzioni di genere, di cittadinanza, di umori, di gusto, di politica, di colore. È invisibile.

Come sappiamo, non c’è ingegneria genetica che possa porvi rimedio.
Il populismo finto-informativo non sa come cogliere, strumentalizzare, sodomizzare e metabolizzare l’immaginario a fumetti. Disney è l’oppio dei bimbi, Bonelli è l’avventura reazionaria di sinistra, Diabolik una necessaria evasione antieroica e antierotica, Winx è indotto, e tutto il resto, manga, supereroi, graphic novel, art comics, ecc. sono derive inutili(zzabili).
Il fumetto è corresponsabile. Spesso troppo vecchio rispetto alla giovane età anagrafica, nei meccanismi commerciali, nel modo di pensarlo e concepirlo in relazione al quotidiano. Distante.

Alcune eccezioni riguardano gli amori. Se un autore piace, provoca emozioni forti a qualcuno che ha uno spazio mediatico, può avere una luce, un occhio di bue sulla nuca per qualche minuto. Come Gipi con Bignardi.

Altre eccezioni riguardano le vendite. Se un fumetto diventa di successo, evidentemente inatteso, può diventare costume. Ed ecco che può spuntare nei giornali, da dietro le pieghe delle frasi. Come Dylan Dog.
Ma negli ultimi anni, difficilmente il giornalismo si è occupato di Dylan (nemmeno quello specializzato ne ha più molta voglia), se non in occasione di una nuova campagna animalista. Perché Dylan è ormai parte delle abitudini italiane, come un difetto sociale. E come la cultura italiana, negli anni peggiora. E non ha più nulla da smuovere o comunicare.

Poi accade che Roberto Recchioni scriva Mater Morbi, che tocchi un tema come la malattia, che lo faccia in modo diretto, intelligente, per quanto solo parzialmente efficace, e che faccia esprimere al suo John Dog alcuni pensieri. Pensare è lecito?
Pensare è creare mondi che possono essere usati in vari modi.
Ed ecco che John Dog può essere strumentalizzato.
La distrofia critica dei giornalisti che vivono in trincea la vita delle notizie li costringe, loro malgrado o no, a cercare come accattoni pensieri, idee, mondi che rafforzino il loro ruolo, le loro ideologie, il loro mandato socialmente futile che è, sempre più, quello di lanciare la palla nell’arena politica che tutto sodomizza.
La domanda all’ordine del giorno è se John Dog sia o no un ideologo dell’eutanasia. Persona(ggio) di cartapesta, il suo punto di vista è più importante di quello di Recchioni (burattinaio ingenuo o fomentatore in erbe?) e soprattutto di quello che la vita vera suggerisce.
A onor del vero, la vicenda si chiude anche bene, nel momento in cui un ministro che ministra senza stronza ammette di non aver letto il fumetto, prima di commentare, ci ripensa, lo legge e ne tesse le lodi. Una correttezza che fa il paio con il partito dell’Amore del nuovo millennio.

Tutto questo mi suggerisce:
- che gli autori di fumetti sono inutili, soggettivamente parlando
- che i personaggi di fumetti hanno valore iconografico quando vengono strumentalizzati e sodomizzati
- che Bonelli avrà un picco di vendite eccezionale, e lo avrà per le ragioni sbagliate, ma che importa
- che l'invisibilità del fumetto è utile e necessaria a tutti (altrimenti non avremmo potuto leggere serenamente Preacher di Garth Ennis)
- che Recchioni ha colto nel segno, forse al di là delle sue previsioni, quando ha compreso alcuni semplici ma efficaci meccanismi di rimbalzo mediatico e mimetico e ha deciso, anni addietro, di offrirsi al gioco della rock star kiss-anal, e nella querelle in questione si muove da maestro
- che non c’è distinzione tra cultura di massa ed elite, tra popolare e autoriale inteso come valore di merito, tra cultura alta e cultura bassa, perché l’inutile e l’utile si abbracciano suadenti come John Dog con Mater Morbi
- che la grande livella, prima della morte, è l’informazione coatta dell’a-morale politica

Di questo, si dovrebbe essere consapevoli per ripensare a una funzione sociale del fumetto. Nelle idee e nelle azioni.
L’intelligenza e la buona fede non bastano, per quanto rare.

Harry

venerdì 25 dicembre 2009

Mater Morbi


Bello questo nuovo numero di John Dog.
Belli, espressivi, feroci, sexy i disegni di Carnevale.

La genesi di Mater Morbi è raccontata da Recchioni nel suo blog.
La storia è costruita su un equivoco: di malattia si è parlato dall'alba dei tempi, e alla madre di tutte le malattie sono state tirate, più che dedicate, numerose poesie e numerosi scritti. Esistono moltissimi libri esoterici che affrontano il rapporto dell'uomo con la malattia. Ci sono infinite espressioni poetiche. Ma ci torno sotto.

La storia funziona su alcuni livelli, soprattutto quello “autoriale”. La fatica autobiografica che tanto viene messa in evidenza, in primis dall’editor di Dylan Dog (ancora Marcheselli?), che tanto pizzica di questa storia, come un graffio sul viso, segna un passaggio per Recchioni. Perché lo sceneggiatore romano, alla sua seconda prova lunga con John Dog, si cimenta per la prima volta nella (non)fiction, con inquietanti parallelismi con la propria vita personale. In epoca di onnipresenza visiva, il tutto si colora di reality, e lo specchio tele-mediatico via blog della (non)fiction amplifica in un cortocircuito quello che in Mater Morbi appare appena. E la storia tocca più di quel che potrebbe, isolata, a sé. È intelligenza fine, questa. A partire dall’intuizione di Carnevale e Marcheselli che hanno proposto a Recchioni l’idea in prima battuta.
Ma ci siamo. Scatta un meccanismo nuovo. Recchioni mette un po' di realtà in quello che racconta. Un po' della realtà che conosce e tocca con le sue mani. Non solo fiction della fiction, non solo videogiochi, sesso o fumetti di fumetti. Insomma, un passo avanti per rendere i suoi racconti a fumetti più tangibili, meno inconsistenti, meno divertiti e facili.

Ciò non confonda, ché sul piano strettamente narrativo, Mater Morbi risente di troppe parole in didascalia, di meccaniche prevedibilità da John Dog audience, a compiacere (meglio, a rassicurare) i tanti lettori di Dylan Dog, da un lato, e di John Doe dall’altro.
Insomma, qui si legge una (discreta) storia di John Doe che rassicura i fan di Dylan Dog, per quanto Recchioni vorrebbe convincerci del contrario. Certo, è vero, Dylan Dog parla come Dylan Dog, reagisce come Dylan Dog, pensa come Dylan Dog, ha i riferimenti di Dylan Dog. Ma è John Doe.
E a meno che Recchioni non voglia fare come Gaiman, dovrà decidere di cambiare tematiche e trucchi, prima o poi, altrimenti sarà già vecchio prima ancora di crescere.


Torniamo al tema della malattia. Recchioni lo reifica, lo incarna (banalmente nella solita, bellissima donna), gli dà voce per … terrorizzare il lettore o per normalizzarne l’inquietudine? John Dog dice che Malattia è sola, disprezzata e mai cantata. Eppure il tema della malattia accompagna il percorso dell’uomo da sempre, come dicevo. Aggiungo che malattia e morte sono sempre state strettamente correlate, al punto da confondersi l’una con l’altra.
C’è un fumetto, un piccolo gioiello, che della malattia più terrificante del vecchio secolo, il tumore, racconta senza mediazione e con ironia. Si tratta de Il cancro mi ha reso più frivola di Miriam Engelberg . Per il lettore, l’incontro con una persona malata e il suo percorso (ahimé) definitivo è ben più terrificante dell’incarnazione in un’entità astratta.

Uno dei maggior poeti italiani del Novecento, Guido Gozzano, scrive la poesia Alle soglie, quando si scopre malato di tisi. Ascolta come risuonano la splendida ironia a proposito del rapporto con i dottori e i versi finali, con quella strana devozione da novizio per la nuova sposa.

Alle soglie

I.
Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d'esistere al mondo,
pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori
sovente qualcuno che picchia, che picchia... Sono i dottori.
Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,
m'auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.
E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.
"Appena un lieve sussulto all'apice... qui... la clavicola..."
E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.
"Nutrirsi... non fare più versi... nessuna notte più insonne...
non più sigarette... non donne... tentare bei cieli più tersi:
Nervi... Rapallo... San Remo... cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia..."

II.
O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,
la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?
Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,
trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace
e l'ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco
disegna il profilo d'un bosco, coi minimi intrichi dei rami.
E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.

III.
Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d'esistere al mondo,
mio cuore dubito forte - ma per te solo m'accora -
che venga quella Signora dall'uomo detta la Morte.
(Dall'uomo: ché l'acqua la pietra l'erba l'insetto l'aedo
le danno un nome, che, credo, esprima un cosa non tetra.)
È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.
Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.
Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;
ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.
Ti svegli dagl'incubi innocui, diverso ti senti, lontano;
né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.
Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,
sereno come uno sposo e placido come un novizio.


Leggi poi questa breve intervista ad Alda Merini, recentemente scomparsa, lungamente in lotta con la malattia psichica.

La malattia è come un periodo di transito, ma anche di blocco, a volte quasi di paralisi [...] Ricordo di una violenta cefalea, insopportabile, incoercibile. Pregavo, ma intanto allattavo e contemporaneamente deperivo. Ho avuto un dimagramento importante. Di sicuro uno stato del genere non ti porta alla poesia, se non in una rielaborazione molto successiva.[…] La malattia può porre in una situazione di «grazia» cosmica, quasi di comunione cosmica, di sintonia con l'universo: però nessuno la va a cercare per fare opere d'arte. Meglio essere felici. […] E qualche volta la malattia diventa un canto catartico e liberatorio di disperazione. Per fortuna ci sono i meccanismi compensativi: la natura risponde così ad apparenti deficit: c'è una restituzione in altri ambiti.


E non dimenticarti di Emily Dickinson, che alla malattia è sempre stata vicina.
La malattia modifica la propria consapevolezza, il rapporto con il proprio corpo, il rapporto di sé con il mondo.

The first Day's Night had come -
And grateful that a thing
So terrible - had been endured -
I told my Soul to sing -
She said her strings were snapt -
Her Bow - to atoms blown -
And so to mend her - gave me work
Until another Morn -
And then - a Day as huge
As Yesterdays in pairs,
Unrolled it's horror in my face -
Until it blocked my eyes -
My Brain - begun to laugh -
I mumbled - like a fool -
And tho' 'tis Years ago - that Day -
My Brain keeps giggling - still.
And Something's odd - within -
That person that I was -
And this One - do not feel the same -
Could it be Madness - this?

(trad.)
La Notte del primo Giorno era arrivata -
E grata che una cosa
Così terribile - fosse stata sopportata -
Chiesi alla mia Anima di cantare -
Rispose che le sue corde si erano spezzate -
L'Archetto - in atomi dissolto -
E così aggiustarla - mi diede da fare
Fino ad un nuovo Mattino -
E poi - un Giorno tanto immenso
Quanto una coppia di Ieri,
Mi srotolò in faccia il suo orrore -
Fino a bloccarmi gli occhi -
Il mio Cervello - cominciò a ridere -
Balbettavo - come un idiota -
E nonostante sia Anni fa - quel Giorno -
Il mio Cervello ha quel riso ebete - ancora.
E Qualcosa di strano - dentro -
La persona che ero -
E questa - non sembrano la stessa -
Potrebbe essere Follia - questa?

Infine, una poesia di Giacomo Bergamini.

Dei luoghi del sole

scrivo del sole
come scrivo del vento o del
vuoto
e del nido
umido
parlo del sangue che gratta
i ricordi
del morbo che morde
e non imita mai
il sonno dei cerchi
perché il sole più non incanta
anche se sale le salme
nidificando

per la regia dei re magi
cauta e memore
al telefono
doppi viaggi e comete
e non ricordi le cadute
e i rovinosi inciampi
infernali
non rievochi nemmeno
la nausea
mentre raccogli
l’utero dal fango
si confermano così
malintesi
e si ritagliano
ritagli

è passato
un mattino
sui legami
della lingua
e le parole
già raccontano
un libro
imitando
il calpestio
costante
di noi annoiati
testimoni

la peste ramifica
la penna
e viene a cancellare
i nostri fastosi
luoghi
con verbo
lascivo

scrivo del sole
e del suo gusto a sconfinare
dalle distanze e del suo
quieto miniare
dei suoi versi infantili
e del suo riso
delle sue moine e dei suoi
mille natali
parlo del suo saluto augurale
della menzogna
di questi versi
e di questa recita
abituale



Harry.

giovedì 27 agosto 2009

Diabolik anonimo (inedito)


Diabolik è lavoro di equipe. La sua impostazione seriale, sulla serie regolare inedita, che prosegue da decine e decine di anni, si è sviluppata a fasi alterne all’insegna del più coerente (e restrittivo) immobilismo.
Constatare che nell’ultimo numero, il 750°, che uso a puro titolo di esempio, una semplice e insignificante storiella è stata realizzata attraverso il contributo di ben sei professionisti mi colpisce e al contempo non sorprende. Ci sono due soggettisti (Gomboli e Faraci), uno sceneggiatore (Recchioni) e ben tre disegnatori (lo storico Zaniboni coadiuvato da Montorio e Merati). Il risultato è proprio quello che si potrebbe intuire: nascondino. In Diabolik, la regola dell’immobilismo si sposa con l’anonimato, e gli autori si mimetizzano tra loro, con i personaggi e le vicende. La cifra stilistica degli autori non deve apparire, tutt’altro. Il professionista è talmente al servizio del personaggio da perdersi in esso. Quello che vorrei sottolineare è che è proprio l’impostazione editoriale, la strategia produttiva, a favorire questo risultato.
E così, la sceneggiatura di Recchioni, in questa storia di nemici/amici prigioni e insoddisfacenti giravolte, risulta piatta, prevedibile tanto quanto i disegni sono “automatici”. E Recchioni è irriconoscibile. A dirla tutta, sembra il bigino di una sceneggiatura. Immaginate di dover raccontare una storia che avete letto a un amico: vi interesserebbe lo svolgimento del soggetto, ma senza soffermarvi sulle pieghe e senza “intrattenere” e coinvolgere l’ascoltatore più di tanto. Ecco, spesso Diabolik mi sembra questo, il racconto di un’altra storia, un prodotto derivativo, nel quale tutto, a partire dalla sceneggiatura, passando per il disegno “tradizionale”, deve risultare neutro o, per meglio dire, anonimo.

Harry

lunedì 3 agosto 2009

Eura (non)Editoriale (2) - si taglia!

la copertina del numero (inaspettatamente) conclusivo di John Doe.


Ho recentemente parlato del mio amore/odio per la politica di Eura Editoriale.
Tra le considerazioni di alcune persone che sono intervenute, c’era quella che se Eura ha per anni portato avanti quel tipo di approccio è perché, in fondo, di lettori in più non ne avevano poi così bisogno. Che forse, i “distratti” lettori italiani sono poco interessati a vedere un fumetto stampato bene, a vedere copertine più moderne, a sapere quali sono gli autori del fumetto che stanno apprezzando (e magari cercarne altri dello stesso autore per lo stesso editore), che i fumetti li avrebbero comunque comprati, sempre e senza discussioni. Insomma, sembrava che per Eura fosse sufficiente stampare fumetti, come si produce carta igienica, e le cose sarebbero andate bene.
Un ragionamento che reputo suicida. Perché tutti, anche Eura, hanno bisogno di sinergie interne per valorizzare i propri prodotti, per far conoscere il valore (anche culturale) delle proprie pubblicazioni. Perché i lettori oggi sono gli stessi consumatori che hanno sviluppato (spesso loro malgrado) uno sguardo, una sensibilità cool, pop, patinata, o come diavolo vogliamo chiamarla.
Quanti lettori allontana quella testata Dago Ristampa, scritta così come si faceva anni e anni fa, all’interno di una cornice e di una copertina da dinosauro? Quanti ne scarta a priori, per “(anti)gusto”, per snobismo quello stupido effetto grafico di photoshop su I giganti dell’avventura?
Vengo al punto. È notizia che apprendo dalla rete che John Doe e Martin Hel chiudono a breve, brevissimo, quasi senza preavviso, salvo smentite dell’editore. Sembra, all’interno di un progetto editoriale nuovo, che mette da parte storia e persone – Filippo Ciolfi, storico e anziano patron Eura, si ritira? – per non si sa ancora bene che cosa.
Intanto, nascono alcuni timori in merito al futuro di un patrimonio fumettistico inestimabile. Non voglio essere pessimista, è possibile che la fase di transizione porti a quei miglioramenti di cui accennavo e che sono convinto farebbero molto bene a Eura. Eppure, la velocità del cambiamento in atto lascia perplessi. Perché, di nuovo, si mina alla base la fiducia di migliaia di lettori.
A proposito della chiusura di Trigger, più di una persona ha detto che i conti in tasca a un editore è impossibile farli. Solo chi ci mette i soldi può decidere e valutare. Come se di un numero e di un risultato commerciale fosse possibile dare un’unica lettura.
È naturale, le scelte ultime spettano sempre a chi guida all’interno di una casa editrice. Ma al pubblico e alla critica spetta altrettanto legittimamente la libertà di valutare tali scelte e metterle in discussione. Soprattutto laddove appare (quasi) evidente che certe scelte, oltre ai numeri, nascondano ben altro. Insomma, il punto di vista è importante.
Anche in questo caso. Sembra infatti che i numeri che hanno tenuto in vita John Doe per ben 75 numeri non siano più adeguati a proseguire, malgrado i risultati non siano mutati affatto (a detta di Recchioni). O per 75 mesi Eura ha realizzato un prodotto costantemente in perdita, oppure qualcosa davvero non torna. Soprattutto alla luce della velocità con la quale si procede al taglio della serie (che si aggiunge, lo ricordo, a Martin Hel e a Unità Speciale).
Harry.

martedì 28 luglio 2009

Piccoli editori italiani (2)

non confondetevi, questo è Miyazaki


Proseguendo da qui...

E Panini Comics? A parte aver rinunciato a un gioiello, Hanzo la via dell’assassino, della coppia Kazuo Koike e Goseki Kojima (gli stessi autori di Lone Wolf and Cub, pubblicato proprio da Panini e a mio avviso una delle opere di ingegno più belle di tutti i tempi - qui) che è in corso di pubblicazione dalla rivale numero uno, Planeta De Agostini, la casa editrice modenese non rinuncia a confermare la sua difficoltà a sviluppare progetti editoriali autoctoni efficaci.
Dopo i clamorosi errori in Murphy 911 di Recchioni e Cremona (proprio a livello di progettazione editoriale), di cui ho parlato e che ha quanto meno mostrato superficialità nella definizione dei tempi di realizzazione, si imbarca in un altro episodio imbarazzante con Cronache dal Mondo Emerso. L’intenzione, interessante in termini di marketing, era di dare forma fumettistica ai best seller Mondadori di Licia Troisi. Di nuovo Recchioni alla sceneggiatura, viene scelto per i disegni Giuseppe Ferrario, che aveva già dato interessanti prove di sé altrove (per esempio su Milano Criminale).
Il disegnatore spiazza tutti con una virata nello stile che, per quanto sorprendente a confronto con le prove precedenti, appare coerente con il progetto e con la moda che vuole tutto, o quasi, “sporcato di manga”. Peccato che per ottimizzare questa evoluzione (?) del proprio tratto abbia letteralmente copiato, ricalcato disegni di Hayao Miyazaki. L’ingenuità del disegnatore è evidente. Scegliere uno dei più celebri autori giapponesi nel mondo da ricalcare, tra l’altro ampiamente pubblicato proprio da Panini Comics, appare pura follia. Si poteva prevedere che la stessa Panini Comics, nel lavoro di supervisione, avrebbe notato tale scelta e interpellato gli autori in merito. La cosa non avviene se non ex-post, dopo le segnalazioni di alcuni fan italiani dell’autore giapponese. Questa la storia a grandi linee (e spero che il riassunto non vi abbia annoiato). Ecco alcune considerazioni personali.

Innanzitutto Panini Comics dimostra di non saper fare l’editore di un progetto inedito. La leggerezza è tale da essere imperdonabile. E questo, anche alla luce delle sue scelte a posteriori. Senza minimizzare o ingigantire l’accaduto, decide di sospendere la pubblicazione per approfondimenti. Una scelta che indica senza giri di parole che il fatto è anche per la casa editrice piuttosto grave.
Recchioni dichiara di essere all’oscuro delle scelte del disegnatore e ne difende la buonafede. Ma mi chiedo, possibile che non abbiano discusso in alcun modo della caratterizzazione grafica del lavoro? Al di là della sceneggiatura consegnata, possibile che per un progetto simile non sia stato ragionato a priori quale sviluppo stilistico dare, quale impostazione, a quali lettori strizzare l’occhio? Un dubbio non poteva nascere?
Ferrario si dichiara colpevole, per ingenuità. Vero. Malafede o ingenuità poco contano, in questo ambito.
Ma una riflessione in merito trovo sia necessaria e la sviluppo volutamente a partire da un mondo diverso da quello italiano e giapponese. Chi ricorda gli X-Men di Jim Lee di inizio anni ’90?

non confondetevi, questo è Jim Lee


Tutti, e sapete perché? Perché ancora oggi la Marvel produce gli X-Men “clonando” Lee senza posa. Organico alla casa editrice Lee non lo è mai stato, semplicemente per ragioni economiche. Da lì la scelta di fondare la Image Comics. E Lee aveva ragione. Sulla forza del suo stile, sulle sue caratterizzazioni, sulle sue pose la Marvel guadagna e capitalizza, ahimé, ancora oggi. Solo Grant Morrison, forte della sua credibilità e personalità, ha saputo allontanarsi totalmente e in modo efficace da questo modello, grazie anche all’apporto di autori eccellenti (primo tra tutti Frank Quitly). Il punto è che Jim Lee e gli X-Men sono diventati essi stessi uno stile. E non si contano davvero gli autori che per tutti gli anni ’90 e dopo hanno ricalcato (letteralmente) pose e impostazioni grafiche.
Certo, lo stesso Lee, per capitalizzare a sua volta tale successo, ha dato vita a una “scuola” di talenti in seno al progetto Image, di cui vale la pena ricordare quanto meno il talentuoso e poco professionale Travis Charest, che più ha saputo personalizzare e allontanarsi dal modello. Ma alcuni dei cloni creati dallo stesso Lee negli anni hanno lavorato proprio agli X-Men della Marvel, con un circolo vizioso che, per lo meno sul piano creativo, ha avvilito e ancora avvilisce quella che è stata per alcuni anni una delle famiglie di personaggi più in fermento del fumetto popolare americano.
Non mi voglio allontanare. Citazione, stile, ricalco, copiatura, omaggio… la linea è sottile e quello che, al solito, marca davvero la differenza sono i soldi e la trasparenza.
Ferrario, facendo propria la lezione di Miyazaki in questo modo, oltre all’ingenuità con la quale ha macchiato la sua serietà professionale, ha tuttavia commesso altri due errori che reputo ancora più importanti e dolenti per il mercato fumettistico italiano: non ha saputo far propria tale lezione, spersonalizzandosi e banalizzandosi invece di svilupparsi ed evolvere; ha rinnovato l’idea della (presunta) necessità della copia, della ripetizione anonima di modelli per dare forma a successi editoriali. Un concetto che mi sembra essere uno dei mali peggiori dell’attuale cultura mediatica e popolare mondiale, e che, forse, è ancora più rilevante del problema del diritto di autore.

Harry.

lunedì 1 giugno 2009

Difetti d'identità

David Murphy 911, disegno di Gabriele dell'Otto


Diciamo la verità, in un mercato editoriale mondiale straordinario per varietà delle proposte e, in molti casi, per qualità delle stesse, il fumetto popolare italiano non dà buona prova di sé. Negli ultimi anni abbiamo visto parecchie nuove proposte che, mi spiace dirlo, languono miseramente. E questo soprattutto al di fuori della casa editrice principe, ovvero la Bonelli.
Per una volta, quindi, togliamo il dito da casa Bonelli e vediamo cosa succede altrove.

Il gioco è sempre lo stesso, con alcune variazioni sul tema: produrre un fumetto di 96 pagine in bianco e nero di tipo avventuroso con segno realistico (o quasi). Le variazioni sono la formula in miniserie; le modalità produttive (invece di un unico disegnatore per albo, o di una sola storia per albo, più disegnatori e più storie per albo, o una delle possibili varianti di tale meccanismo); l'idea di base o il concept (il riferimento ai telefilm di nuova generazione, il richiamo dello scrittore famoso, il pretesto narrativo delle forze dell’ordine, ecc.).
In questo scenario, le novità che funzionano si contano sulle dita di una mano. O meglio, non si contano. Mi soffermerò solo su alcune.

L’ultima nata è Rourke (Star Comics), di Federico Memola, che esordisce poco dopo la chiusura della sua serie “storica”, Jonathan Steele (che per dovere di cronaca prosegue in albi extra con cadenza più dilatata). Rourke è un fumetto horror. Il primo numero è disegnato maluccio (tempi di realizzazione inadeguati?) ma è soprattutto deludente sul piano del soggetto e della sceneggiatura. La conduzione è prevedibile, meccanica. Le fasi decisive del racconto non colpiscono. I personaggi non graffiano, non escono dall’anonimato, malgrado le parolacce. È forse presto per dirlo, ma Rourke più che un horror sembra essere un fumetto noioso. Lontano dalle inquietudini dell’oggi, all’inseguimento di clichè ormai superati, attaccato a una new wave horror che ha generato più mostri che non.



Cornelio (ancora Star Comics) è la serie di e con Carlo Lucarelli. L’idea di base è interessante, e fare del celebre autore anche un’icona a fumetti poteva essere un colpo di grande efficacia narrativa, nonché commerciale, nelle mani di abili autori. Cosa che non avviene. Qui ci troviamo nel pieno del qualunquismo narrativo. Superficialità, mancanza di identità (che sceneggiatura voglio? Che sviluppi voglio? Più molte altre domande a caso di questo tenore), nessuno spunto che valorizzi il medium per il quale è realizzato il progetto. Sembra un fumetto/redazionale, ovvero un prodotto pubblicitario senza anima. È il perfetto esempio del fumetto/non fumetto, realizzato senza la minima consapevolezza delle potenzialità del fumetto stesso, dove le 96 pagine non sono sfruttare per quello che potrebbero essere, ma sembrano spazi vuoti da riempire fino alla parola fine. Uno strazio.


Panini Comics non è famosa per le sue produzioni italiane. L’unica eccezione finora da elevare a capolavoro è Rat-Man di Leo Ortolani. Ma qui il coraggio di Lupoi e compagni è stato quello (non da poco, lo ammetto) di voler puntare sull’autore e di saperlo valorizzare come merita. Sul piano progettuale e produttivo, tuttavia, i meriti della casa editrice sono pressoché nulli. Hanno preso il “prodotto” fatto e finito, un fumetto già efficace, già rodato, già vincente.

Recentemente, Panini ha però dato la luce a David Murphy 911 di Roberto Recchioni e Matteo Cremona. La miniserie di 4 numeri pesca nell’immaginario dei telefilm di azione e di certi comics mainstream statunitensi (a metà tra l’autoriale Vertigo e la new wave supereroistica). Il risultato non convince appieno. La miniserie è solida, sceneggiata con discreta consapevolezza e buon mestiere. I disegni peggiorano col progredire della miniserie, perché laddove il giovane Cremona migliorava con l’esperienza andava peggiorando con le scadenze troppo ravvicinate. Anche qui, un errore grossolano di progettazione dell’impianto produttivo della serie. Si paga l’inesperienza Panini. Si paga l’eccessivo entusiasmo degli autori.
Detto questo, quel che funziona sul piano della narrazione complessiva, purtroppo crolla miseramente sul piano della definizione del soggetto e del concept della miniserie. Murphy 911 è vuoto narrativo. Puro pretesto per un presunto virtuosismo visivo e dialogico. Siamo di fronte al prodotto ben realizzato senza alcun tema da narrare. È questo l’intrattenimento del nuovo millennio? È possibile pensare che la fruibilità, la leggerezza, il divertimento siano associati anche alla possibilità di offrire un punto di vista su quel che ci succede intorno? Al contrario, qual è il senso di leggere 4 albi di 96 tavole ognuno al termine dei quali non resta nulla, se non la sensazione di essere stati ammansiti?

Concludo con un altro albo Star Comics, Trigger di Ade Capone. Anch’esso una miniserie, ha una struttura particolare perché ruota intorno a più personaggi che si muovo ognuno in uno scenario diverso, legati da un filo comune. Ogni personaggio ha un suo disegnatore/copertinista dedicato ed è legato a un genere narrativo differente. Questo l’impianto. Dopodichè Ade Capone lavora per ritagli e ricomposizioni, come un clochard che rovista nella spazzatura. L’autore rovista tra i telefilm, come Lost, che viene citato più e più volte, e rovistando costruisce. Non ci sarebbe nulla di male, molta della “pop-art” di cui il fumetto fa parte lavora in questo modo, spesso con risultati sorprendenti. Ma non in Trigger. Cambiare registro narrativo richiede una grande abilità, innanzitutto per non perdere omogeneità e compattezza, in secondo luogo per riuscire ad essere efficace in ognuno dei generi affrontati. Trigger fallisce in entrambi gli aspetti. E ciò malgrado la buona prova dei disegnatori che, tuttavia, sembrano essere i primi ad affrontare il lavoro con scetticismo e, di conseguenza, senza cuore.
Quel che meno piace è ritrovare, per l’ennesima volta in un prodotto seriale, l’esigenza di dover esplicitare tutto, di spiegare il superfluo, generando noia e insofferenza nel lettore. Ritengo sia davvero avvilente e fuori tempo massimo vedere personaggi che si comportano, “parlano” e agiscono in un certo modo solo per esplicitare al lettore certi temi o accadimenti. Perché si desume che il lettore a cui è destinato il lavoro non avrebbe la capacità di comprendere da solo, per intuizione; perché si capisce che nello sceneggiatore manca l’abilità per arrivare allo stesso risultato narrativo con modalità diverse, più efficaci, meno banalizzanti.

C’è un filo rosso dietro a tutte queste pubblicazioni. Da un lato lo sforzo di voler essere attuali, di rielaborare temi o concetti efficaci e di successo in altri ambiti (che sia la televisione, o i comics, o la new wave horror statunitense, …); dall’altro il fallimento di questo stesso tentativo. Gli autori del fumetto popolare italiano non sembrano in grado di personalizzare e restituire ai lettori tematiche derivative. Il collage diventa una deriva all’insegna della banalizzazione e della noia. Si attendono tempi migliori e una sensibilità più autentica. Si spera in un cambiamento di prospettiva: dalla definizione di un prodotto in funzione di una possibile audience, alla costruzione di una storia a partire da un’idea solida, da una motivazione autentica a narrare, pur all’interno di un contesto popolare e seriale.

Harry.

martedì 6 gennaio 2009

Esordienti



Sarà che ho appena terminato di sfogliare per l'ennesima volta Dream Of A Rarebit Fiend di Winsor McKay, sarà che non sono contento di come stanno andando le cose nella Striscia di Gaza e come (non) interviene il nostro governo del neopresidente Obama... sarà, ma ripensavo a casa Bonelli con un certo rammarico.
Il mese di dicembre ha visto l'esordio su due testate ammiraglie, Nathan Never e Dylan Dog, di due nuovi sceneggiatori: il poco conosciuto Davide Rigamonti sulla prima, il più che noto Roberto Recchioni sulla seconda. Entrambe le prove, lo dico subito, sono decisamente deludenti.
Del Dylan Dog di Recchioni ho già scritto.
Del Nathan Never di Rigamonti accenno solo che si tratta di una storia con un soggetto debolissimo e trito (che reinterpreta per l'ennesima volta un certo immaginario a la Psyco), una trama noir che si risolve per la forma di un copertone di automobile e per il comportamento incomprensibile di un'azienda che è tangenzialmente coinvolta nella spirale di violenza. Insomma, un soggetto a dir poco stiracchiato, che appare complessivamente infantile. Ma quel che più pesa è la sceneggiatura. Lo sai, anche un pessimo soggetto può essere salvato da una buona scrittura complessiva della storia. Qui al danno si somma la beffa. Rigamonti interpreta perfettamente la parte del classico (e per classico leggasi vecchio) sceneggiatore Bonelli: i dialoghi sono stereotipati, prevedibili e impersonali, il ritmo della storia è senza guizzi, meccaniche le svolte risolutive. Quel che è peggio è leggere ancora oggi, a fine 2008, dopo migliaia di pagine popolari, quei dialoghi irrealistici tra i personaggi che servono solo a spiegare al lettore rincoglionito dal gelo cosa sta succedendo, o dare informazioni pleonastiche su personaggi, contesti, eventi (un solo esempio, il dialogo surreale tra i due guardiani dell'ospedale psichiatrico).
Che questo ti basti per dire dell'eccezionalità negativa della storia.
Trovo anche significativo che entrambi gli esordi siano accompagnati ai disegni dai due autori più rappresentativi delle serie: De Angelis e Brindisi. Di fronte a due sceneggiature simili, i due "veterani" delle serie hanno tenuto il passo, con una prova buona ma spenta. Senza entusiasmo, si direbbe. Ma la scelta di casa Bonelli è testimonianza quanto meno di una cosa: che sui due esordienti si è deciso di investire, eccome. E veniamo al vero problema.
Temo che la responsabilità maggiore per l'insuccesso di questi due esordi non sia dei due sceneggiatori, ma della redazione o, forse, delle logiche che guidano il lavoro di redazione. Tanto che non credo sia possibile dividere tra le colpe reali del meccanismo intrinseco Bonelli e le responsabilità degli autori che ad esso si adeguano a priori, per non rischiare, si direbbe.
Fatto sta che, non volendo scoprirsi e scorpire la propria voce di autori, Recchioni e Rigamonti interpretano un cliché, fanno la parte degli autori automi, generando mostri invece che gemme.
Lo sai, non mi riferisco alla necessità di realizzare rivoluzioni o trasformazioni del personaggio. Quanto di offrire una propria interpretazione che non parta dalla rimasticazione di vecchie storie o vecchie modalità, ma dalla voglia di offrire un punto di vista vivo e vitale di quel personaggio. Se su Dylan Dog, schiavo del meccanismo sclaviano del buonismo e orfano del suo tempo, ciò appare assai difficile, Nathan Never, grazie alle sue continue evoluzioni e al coraggio di altri autori di sviluppare storie più al passo coi tempi, le possibilità le offrirebbe eccome.
Ma il meccanismo è lì. Ed è quello che spegne la forza narrativa di altri validi autori (Diego Cajelli?) o che porta l'ottimo Boselli a realizzare le sue migliori storie su Tex (destino che forse, a breve, condividerà anche Manfredi).
Sono il solo a pensare che qualcosa non funziona?

Hanry.

sabato 27 dicembre 2008

Dylan chi?

Immagine di Dylan Dog n. 268


Mi sono avvicinato a Dylan Dog 268 con alcuni timori ma con molta curiosità. La prima storia lunga di Roberto Recchioni su Dylan, "battezzato" dal solito Bruno Brindisi alle matite, può considerarsi a tutti gli effetti per il piccolo e quasi immobile territorio del fumetto popolare italiano un evento.
Purtroppo, la lettura del fumetto si è dimostrata peggiore delle previsioni.
E tutto ciò ha poco a che vedere con la mitologia dylaniana. O meglio, mettendo da parte ogni possibile considerazione in merito alla coerenza e all'aderenza della storia con quanto prima raccontato di Dylan Dog, per volontà di sintesi, direi che è proprio la storia nel suo complesso a non stare in piedi.
Maledicendo per l'ennesima volta il citazionismo che in alcuni, troppi casi, sembra il vero pretesto di alcune trame, posso solo dire che la conduzione della storia appare poco organica, le parti decisive della risoluzione sono sprecato e tirate via (l'indovinello?!), il sesso è usato come puro espediente al servizio di un'immaginazione congestionata, la caratterizzazione dei personaggi derivativa e poco sentita.
Ma soprattutto Recchioni sbaglia nel lavorare sull'atmosfera che dovrebbe, perché lo è stata, essere l'elemento cardine della storia. Dylan e il lettore non sono mai realmente in apprensione, in ansia, in tensione, né per i disguidi burocratici né per l'assenza di Groucho, né per nessuno degli altri elementi della storia.
E Brindisi? Beh, lui c'è, da professionista qual è, ma non si vede. Anch'egli risulta anonimo, a tratti spento, a tratti efficace, ma complessivamente piccolo e insignificante quanto la storia.
Una prima occasione del tutto sprecata. Anzi, siamo a una e mezzo, se ricordiamo, e non vorremmo, la primissima prova su Dylan Dog Color Fest #1.
Recchioni è pronto a riprovarci. La Bonelli pure. Ma sembra che, mese dopo mese, Dylan Dog sia destinato a soffocare sotto l'incapacità anche di validi sceneggiatori nel soffiargli un po' di vita, di anima. E Tiziano Sclavi, purtroppo, non ha responsabilità dirette, se non una: di essersi soffermato troppo, nella seconda parte del suo cammino con Dylan, sulle caratteristiche meno efficaci e più pericolose della serie, ovvero il buonismo, il "socialismo", l'orrore del quotidiano che è dentro di noi e nella nostra vita, il mostro della porta accanto, tanto terribile quanto povero e disperato. Grave errore, Tiziano, che stiamo ancora pagando.

Harry.


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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.