domenica 28 febbraio 2010

Pionieri


(c) frank king


Leggo vecchissime strisce di Gasoline Alley.
Mentre sorrido alla familiarità e ammiro la spontaneità del tratto, mi accorgo di quanto è cambiato il mondo.
Ora, il fumetto riflette il mondo, come qualsiasi arte espressiva, ma appare spesso profugo.
Disgiunto, isolato. E non per sua inefficacia.
Gasoline Alley è un comics journalism ante litteram. Frank King racconta la sua vita, i suoi viaggi, in un modo che è impensabile decifrare prima che accada.
In Gasoline Alley tutto accade giorno dopo giorno proprio mentre l'autore inventa le sue soluzioni, le sue storie. E il successo nei quotidiani è direttamente proporzionale alla sua chiarezza di idee.

Oggi leggo più spesso storie di autori poco lucidi.
Credo sia l'entusiasmo dei pionieri, quello che dà fiato a King. E quella magia, oggi, non c'è più.
Quasi.
Perchè leggendo e rileggendo i lavori di Ware e di Mazzuchelli, per esempio, sembra risentirsi proprio quella brezza di creatività. Meno inconsapevole, più radicata nella storia e nella cultura stratificata del fumetto, ma con la stessa energia.

Sto cercando quell'energia negli autori italiani. Ci penso, e poi ti racconto.

Harry

martedì 23 febbraio 2010

Dagli appunti di Harry

Devo parlare di un mucchio di cose.
Dell'invadenza di No Hero di Warren Ellis.
Della furbizia di Seth.
Delle decisioni in merito a quali fumetti non comprare più.
Del perché Talking Lines è straordinario.

Ma non ho tempo. Neppure di mettere i links a quelle cose citate sopra.
Pazienza.

Harry.


venerdì 19 febbraio 2010

Dove va la carovana



Caravan arriva al numero nove, due terzi di storia sono passati e mi sono fatto un’idea chiara delle intenzioni di Michele Medda, e dei risultati.
Lo dico da subito, Caravan mostra in modo diretto i limiti del linguaggio Bonelli e mostra l’inefficacia di una trasformazione strutturale come quella imposta da Medda.

Per prima cosa, Caravan ha un pre-testo avventuroso che lo sceneggiatore non ha saputo tenere vivo, in nove mesi. L’impianto/contenitore di storie senza uno sviluppo del pre-testo diventa appunto pretestuoso e questo pesa enormemente sull’equilibrio narrativo. È un problema che va oltre le aspettative del lettore. È un gioco di scatole che appare disarmonico, e dove il contenuto appare forzatamente collocato all’interno di un contenitore poco fluido, poco accogliente, distonico.

Ma il problema principale di cui risente la serie è senza dubbio il linguaggio. Pre-testo a parte, infatti, Medda ha deciso di raccontare la “quotidianità”. Intendo con questo termine pezzi di vita normale, più o meno ancorati a uno specifico contesto storico, che avrebbe potuto vivere ognuno di noi, nella propria esistenza. Gli eroismi sono annullati dall’anonimato delle situazioni, dalla tragica e comune banalità della crescita.
Da questo punto di vista, il cuore di Caravan vorrebbe essere minimalista sia nelle intenzioni dello sceneggiatore che nelle scelte drammatiche. Ed ecco episodi di comune terrorismo, di comuni abusi infantili, di comune tossicodipendenza, di comune violenza, di comuni amori. Di questo fragile e delicato tessuto Medda ha riempito il contenitore.
A differenza di celebri precedenti quali Ken Parker e Dylan Dog, per dirne solo due, nei quali la normalità e la quotidianità emergono da molteplici livelli di lettura, ma rimanendo chiaramente ancorati a una base avventurosa ben codificata, in Caravan, Medda elimina quasi totalmente gli altri livelli di lettura, e ci sbatte in faccia storie comuni.
Il fatto è che la banalità dei giorni o rivela aspetti di "compassione" (partecipazione emotiva) o di poesia, altrimenti risulta sterile e fuori luogo. E qui si rivela tutta l’inefficacia dei codici e del linguaggio proprio dell’impostazione bonelliana. Quando Andrea Pazienza, Gipi o gli statunitensi John Porcellino o Jeffrey Brown, ecc. raccontano il loro sguardo sulla vita lo fanno attraverso un codice idiosincratico e personale, proprio, inedito. Rinnovato e rielaborato attraverso una ricerca che è funzionale al tema, alla sensibilità e ai motivi del racconto.
In Caravan ciò non è possibile. La mediazione con il formato, con lo stile dei disegnatori, con un canone precostituito, non sovvertibile e da non mettere in nessun modo in discussione polverizza l’efficacia narrativa delle storie, che appaiono incompiute e rivelano, ahimè, la vera, antipatica, inaccettabile piattezza dei fatti di vita comune. Raramente c’è poesia, idiosincrasia, o compassione, ma solo un meccanismo ben costruito e professionale. Distante e sterile.

Queste motivazioni fanno di Caravan una vera anomalia e una lente di ingrandimento sui limiti oggettivi della narrazione bonelliana. E questo malgrado le migliori intenzioni degli autori impegnati nella serie, ed episodi più riusciti di altri.
Sono convinto che il fumetto popolare italiano avesse bisogno di un’esperienza editoriale come questa perché mette in luce un problema importante che andrebbe focalizzato, elaborato e affrontato, se si vuole modernizzare stili e impostazioni ormai invecchiate e se si vuole recuperare il contatto con un gruppo sempre maggiore di potenziali lettori disinnamorati, annoiati, delusi.

Harry.


lunedì 15 febbraio 2010

Maus di Kuntz



Pochi o nessuno conoscono Gustav Kuntz, Gus per gli "amici".
Gus Kuntz è un autore di fumetti statunitense di origini tedesche che ha fatto alcuni lavoretti qua e là, senza mai salire sul serio alla ribalta. Di suo avevo letto anni fa una storia breve che riprendeva il tema dell’olocausto trasformandolo in una sorta di favola moderna grottesca e incredibile, talmente incredibile da risultare non-credibile. Lo stile era acerbo, derivativo e poco espressivo. Non brillava né per contenuto né per qualità tecnica e originalità.
Kuntz, da quanto sono riuscito ad appurare, è un personaggio schivo e maniaco, esponente di quello strano fenomeno che passa sotto il nome di negazionismo. Secondo l’autore, l’olocausto è davvero soltanto una favola moderna. Per quello che ne so, Gus è ossessionato da tale idea al punto da non saper raccontare altro.

Tempo addietro rimasi colpito da una notizia riportata velocemente sul Comics Journal, nella quale si diceva che Gus Kuntz era impegnato nella riscrittura di Maus di Art Spiegelman. Non veniva spiegato molto, nel trafiletto, se non che l’autore aveva intenzione di realizzare ex-novo Maus copiandone in modo esatto il tratto, i testi, le singole vignette, fino all’ultimo dettaglio, al punto che il lettore non sarebbe stato in grado di rilevare alcuna differenza tra le due opere. L’idea in sé mi sembrava assurda, oltre a porre una serie di importanti questioni in merito ai diritti d’autore. Kuntz sosteneva che stava studiando Maus in ogni sua componente, che lo stava memorizzando e che solo a processo terminato avrebbe iniziato a riscriverlo da capo, identico, ma con un significato completamente differente. A testimonianza del suo metodo di lavoro, che avrebbe rifuggito totalmente il ricalco e la copiatura, avrebbe filmato ore e ore di lavoro e tenuto i bozzetti e tutti gli studi preparatori.

Ebbene, Maus di Gustav Kuntz è uscito a metà del 2009, sotto silenzio, pubblicato in poche centinaia di copie da un’etichetta indipendente diretta dallo stesso autore, dal nome significativo, Holo Comics Production. Ieri ho finalmente avuto l’opportunità di sfogliarlo, leggerlo e confrontarlo con l’originale. Il risultato è sorprendente. Maus è identico a Maus, proprio secondo le intenzioni dell’autore. Eppure, laddove gli animali antropomorfi di Spiegelman ispiravano partecipazione, pietà e un senso di avvilente impotenza di fronte alla tremenda sofferenza dell’olocausto, in Kuntz quegli stessi personaggi appaiono grotteschi, sterili e inaccettabili. Kuntz lavora per contrapposizione, con la finalità di sottolineare l’impossibilità dei fatti e degli avvenimenti narrati da Spiegelman.
L’autore si identifica con Spiegelman, diventando egli stesso una rappresentazione ironica della follia e della schizofrenia, unica evidente motivazione che muove una tale forma di “allucinazione collettiva”. Come si può osservare dalla pagina qui sotto, la narrazione degli incontri e delle disavventure di Vladek, a partire da quelli personali e banalmente quotidiani, servono all’autore per mettere in scena un concetto semplice quanto perverso e aberrante: i topi sono tali proprio in quanto topi. Ragionano e si comportano da topi in trappola perché è questo ciò che sono. Un’accusa xenofoba e razzista che l’autore negazionista non esplicita, ma che rimane sottotraccia per tutto il lavoro. In una parola, l’olocausto sarebbe un’allucinazione collettiva determinata dalla cultura aggressiva e parassitaria della comunità ebraica.

qui e nel resto dell'articolo le tavole di spiegelman ridisegnate da kuntz


Da un’altra pagina del lavoro di Kuntz è possibile comprendere come, secondo l’autore, si è diffusa la “favola” di Auschwitz e degli altri campi di concentramento. Si evince un chiaro senso di ossessivo pessimismo tra la popolazione di origine ebraica, dovuta, ci sembra di capire, dalla sensazione di mancanza di controllo, di perdita di potere e di riferimenti all’interno della società tedesca. La persecuzione sarebbe figlia dell’ossessione per il profitto e per il controllo tipico della comunità ebraica. Da questo punto di vista, gli attacchi pubblici di Hitler e della propaganda nazista sarebbero una difesa e non un’aggressione, proprio come starebbe avvenendo oggi da parte dello stato di Israele nei confronti dell’Islam.


La riscrittura di Maus è anche un gioco di specchi. Se Spiegelman è Kuntz, sembra dirci l’autore, allora il movimento negazionista è il gruppo di topi segregato e deriso. In un ribaltamento inquietante, le presunte vittime di allora, agli occhi di Kuntz, diventano i carnefici di oggi. L’autore pone in questo modo la questione sionista, strumentalizzando l’opera di Spiegelman e mutandone il senso originale, da testimonianza a strumento di propaganda.
È attraverso questo meccanismo, percettivo, psicologico e culturale che l’autore negazionista tenta di mettere in discussione le nostre convinzioni, tanto da arrivare a dare forma a una nuova storia, identica all’originale, ma dal contenuto opposto. È una fantasia perversa, il Maus di Kuntz, una sfida ideologica diabolica, che sembra avere radici profonde, nell’odio e nell’ingarbugliata e poco limpida relazione tra i governi degli Stati Uniti e di Israele.


Appare più difficile comprendere come interpretare i fatti strettamente biografici che riguardano Art Spiegelman e la sua famiglia nel nuovo affresco di Kuntz, al di là cioè del valore culturale e storico. La mimesi e l’identificazione sembrano spiegarsi solo in relazione all’atteggiamento ossessivo e nevrotico dell’autore, che non è privo tuttavia un certo fascino. Gus diviene Art, si appropria di un pezzo di vita altrui, dei meccanismi che l’hanno governata e determinata, delle relazioni personali con il padre, con i parenti prossimi e lontani. Mantenendo il punto di vista negazionista, un tale processo sembra comprensibile solo in quanto tecnica di “immersione”, si potrebbe dire, in qualcosa di totalmente estraneo, in modo da poterne comprendere le dinamiche e, dall’interno, deriderle, metterle alla luce come incongruenti e inconsistenti.

Non esistono precedenti del genere che io conosca nell’ambito del fumetto.
Si avvicina forse in alcune premesse la realizzazione di Persepolis 2.0, di cui avevo già parlato, laddove alle vignette identiche all’originale venivano riscritti testi nuovi, per raccontare la storia delle rivolte in Iran durante le ultime, discusse elezioni del 2009. La riscrittura della parte testuale modifica totalmente fatti e contenuto, mantenendo però una coerenza sostanziale con le intenzioni e la sensibilità dell’opera originale. In entrambi i lavori, Persepolis e Persepolis 2.0, è più che esplicitata una critica aperta all’attuale regime iraniano. La Satrapi, autrice dell’opera originale, ha d’altronde avvallato e sostenuto l’operazione, prodigandosi per la sua diffusione.
Dubito che Spiegelman sarà disposto a fare lo stesso. Anzi, credo che non tarderà a muovere azione legale contro Kuntz. Sarà per questo, d’altronde, che Maus di Kuntz risulta al momento pressoché introvabile, se non all’interno del movimento negazionista che l’autore rappresenta. Venire in possesso di una copia, seppur temporaneamente, per il sottoscritto è stato davvero complesso.

L’opera di Kuntz rappresenta un’azione concettuale e creativa limite, che mette in discussione tutto quello che pensiamo in merito all’idea di plagio e di diritto d’autore. È bene sottolinearlo ancora: per quanto nella forma le due opere siano identiche, nella sostanza hanno motivazioni, dinamiche produttive e contesti totalmente differenti e distonici. Privando per un attimo l’operazione di Kuntz degli intenti strettamente ideologici, la provocazione culturale appare perfettamente riuscita, manichea certo, ma non per questo meno disturbante e stimolante.
A questo punto, non ci resta che vedere se e come deciderà di muoversi Art Spiegelman. Ogni azione legale sarebbe legittima e sacrosanta. D’altra parte, rischierebbe di puntare un riflettore enorme sull’opera di Kuntz. Questa eventualità, per quanto onerosa, temo sia proprio quello che l’autore negazionista spera e si aspetta.


Harry.


venerdì 12 febbraio 2010

Gli anni hanno i mutandoni

linda barry autoritratto (c) linda barry


Due libri nuovi accanto a me.
L'omnibus di Alec di Eddie Campbell (Top Shelf Productions) e What it is di Linda Barry (Drawn & Quaterly).
Il primo è soffio di vita, sottili rappresentazioni rapaci e incivili di esistenza. Eddie mette in scena e intanto gioca con le possibilità che una pagina bianca, la china e le vignette offrono. Si torna indietro di parecchi anni, prima di From Hell, prima di Bacchus. E poi si arriva a oggi. Una piega lunga di vita. Tutta la mia ammirazione.


(c) eddie campbell


What it is è cosa diversa. Linda è vorace, incontinente, maniaca, totalizzante. Riempie le pagine di composizioni, mischia i materiali, stimola in modo sincretico e sinestetico. Le ossessioni sulla vita, sulla creatività, sulla mente… What it is è una chiara e aperta e asfissiante riflessione sulla mente, sulla memoria, sul simbolo, sull’essere parte del mondo. Un puzzle di domande e soluzioni sull’emozione della creazione artistica. Una chiara riscoperta di sé. Senza imbarazzi.


(c) linda barry


Li sfoglio, li leggo a tratti e penso non esistono libri così di autori italiani.

Harry.

venerdì 5 febbraio 2010

Homunculus




Esiste una scena fumettistica finlandese.
Che linguaggio e specificità ha?
Io non te lo so dire.
Alcune coordinate ci arrivano dalla rivista Glomp, di cui ci è stato presentato qualche lavoro grazie alla curiosità di Gianluca Costantini. Altre ce le offre Amanda Vähämäki, presente spesso sulla rivista Canicola. E poi Marko Turunen, con il suo alienante La morte alle calcagna ancora del gruppo Canicola. Di Matti Hagelberg non credo sia apparso nulla in Italia, mentre è stato pubblicato a più riprese in Francia.
Difficile per me immaginare il ponte che unisce la cultura italiana a quella finlandese. Difficile creare associazioni.
Più semplice riflettere sul fatto che il panorama editoriale italiano si è fatto talmente ampio (o profondo) da permettere anche ad autori finlandesi di trovare spazi espositivi (BilBOlbul) e pubblicazioni. Meritoriamente.

Ieri ho terminato la lettura di Homunculus, un piccolo libro di Pentti Otsamo pubblicato dalla Black Velvet, che nello stile e nell’impostazione della tavola sembra rifarsi agli autori di certo minimalismo statunitense, quali Gabrielle Bell, John Porcellino, Jeffrey Brown e compagnia.
Il suo è un racconto semplice, intuitivo, luminoso, che affronta l’argomento della perdita in modo asciutto ed evocativo.
Il suo tratto spoglio ma non povero, attento agli oggetti e ai gesti del quotidiano, ha il sapore diaristico della crescita, e della scoperta di trovarsi impreparati alla vita.
Una coppia, protagonista della storia, si ritrova improvvisamente in attesa di un bimbo, un homunculus che si sviluppa (indesiderato?) all’interno di un mondo dimenticato, misterioso e fortemente simbolico. Per Otsamo, padre di tre figli, è la possibilità di raccontare i timori (fondati, come si scoprirà) di fronte a una gravidanza e alle sue molteplici conseguenze, fino a un epilogo amaro e anch’esso inatteso.
Il tema della perdita si sviluppa a partire da visioni speculari: nell’attesa di un bimbo vi è la perdita del controllo personale; la conclusione dell’età innocente per incontrare le responsabilità adulte; la separazione dei desideri dell’uomo da quelli della donna, uniti a una incomunicabilità di fondo che Otsamo rappresenta con il silenzio.
L’autore lavora per sottrazione, suggerendo queste riflessioni attraverso l’assenza di drammaticità, di conseguenze, di conclusioni e di contrasti. Al contempo, è lo spazio dell’immaginario onirico ad aprirsi al lettore, dove il mutamento in atto assume forme intuitive annodate a fili di ricordi e paure inespresse.
Colpisce il senso di isolamento dei protagonisti, che sembrano appartenersi per caso e non per reali attrazioni. Polarità meccaniche e casuali.
Quel che manca, nel racconto di Otsamo, è senza dubbio frutto di una sua scelta stilistica e poetica. Ma si avverte anche l’incapacità di mettere in scena una vera costruzione drammatica. Eppure, il rischio della superficialità è superato tramite la lucidità delle scelte narrative e della sincerità dell’occhio che osserva.
Vita in tempo di guerra è un altro breve racconto di Otsamo pubblicato da Black Velvet. Lo lessi tempo addietro, ma ammetto di non ricordarlo. Dovrò recuperarlo.

Harry

lunedì 1 febbraio 2010

Pirati

(c) gipi


Arrivare sui banchetti del mercato illegale significa essere tra i libri più venduti del paese: essere un bestseller
Daniel Alarcón


Leggo su Internazionale che in Perù i libri bestseller sono libri pirati.
In una società povera come quella peruviana, i libri costano troppo. Passano quindi nel mercato nero, contraffatti, fotocopiati, venduti a pochi soldi. Un libro di successo deve passare per questo trattamento. Non solo i bisogni primari, quindi, alimentano il mercato nero. E la cultura trova infinite strade per riproporsi, in un paese, è bene ricordarlo, dove la diffusione dell’informatica e della pirateria web è ancora lontana da quella a cui si è abituati in Italia.

E torniamo in Italia, appunto. Dove non esiste un mercato nero del libro e tantomento del fumetto. In attesa che Kindle, I-Pad e simili abbiano una diffusione più estesa, che l’uomo sviluppi la nuova abitudine alla lettura virtuale di romanzi e fumetti, io auspico lo sviluppo di un mercato nero del fumetto, come una preghiera, un’invocazione! Pensa, rompere la pigrizia, la banalità del male dell’apatia fumettistica e ritrovarsi negli angoli dei mercati, delle strade,nella penombra di un bar di periferia a smerciare fumetti insieme a cocaina.
"Ne conosco uno fornitissimo. Vieni, è pericoloso ma ne vale la pena".

Esiste davvero in Italia un problema economico dietro alle poche vendite? Se la crisi colpisce, e colpisce, lo fa dall’interno del piccolo circolo degli appassionati. E al di fuori? In libreria, di fronte alla necessità di scegliere tra l’ultimo romanzo di Faletti e il nuovo fumetto di Gipi, tu, lettore occasionale che aspetti le grandi occasioni, quale sceglieresti? È improprio accostare Gipi a Faletti? È improprio accostare un libro a un fumetto? Cosa del fumetto un "oggetto culturale" secondario, al quale è possibile rinunciare facilmente rispetto ad altre cose? Perché non penetra nella pelle delle persone e non diventa "necessario"?

Al mercato nero, caro lettore, puoi comprare un Gipi fotocopiato a 3 euro. Puoi nutrirti di Morti di Sonno a 5 euro, puoi assaporare copie quasi anastatiche di Valentina Mela Verde a 6 euro e andare in libreria ad acquistare il Faletti rilegato che puoi sfoggiare in metropolitana, con la fascetta che evidenzia il crescendo di copie vendute come un orgasmo.
Gipi, pensa, quanti lettori in più ti leggerebbero?
Ti arrabbieresti?


Harry.


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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.