giovedì 28 maggio 2009

Atlantide

Krazy Kat (c) George Herriman

Per molti anni le strisce a fumetti statunitensi della prima metà del XX secolo erano irreperibili.
Cose da veri collezionisti, recuperate, conservate, ritagliate dai quotidiani nei quali erano stampate originariamente. Prima che il concetto stesso di volume a fumetti (inteso come formato, contenitore) o tradepaperback diventasse comune e di successo come negli ultimi dieci anni, qualche casa editrice rischiava una collezione di strisce. Si trattava di selezioni incomplete, per nulla organiche, spesso basate più sul concetto della reperibilità che altro. Per molti, molti anni, uno dei più grandi patrimoni della cultura popolare statunitense era invisibile, inaccessibile, dimenticata.
Come dicevo, c’erano i collezionisti. E c’erano gli studiosi. E poi vennero gli autori underground. Agli inizi degli anni ’70, moltissimi autori sconosciuti pescarono tra ristampe disordinate e vecchi quotidiani e riportarono all’attenzione del pubblico il mare magnum delle vecchie strisce. C’era insieme il gusto della scoperta e il senso di appartenenza a una elite. E c’era la volontà di dimenticare il fumetto supereroistico, che aveva immobilizzato il medium per molti anni, e ripartire da altre radici. Dimenticare insomma i vari Jack Kirby, Steve Ditko e compagnia, per ritornare a Winsor McKay, Frank King, Elzie Crisler Segar, George Herriman. Tale riscoperta, negli USA, corrisponde alla nascita di un nuovo senso di autorialità nei fumetti, ai cosiddetti art comics, all’affrancarsi dai tanti personaggi i cui diritti sono in mano alle grandi compagnie, per diventare a tutti gli effetti i proprietari delle proprie creature a fumetti.
Grazie alla forza di quegli autori, le strisce sono uscite dall’anonimato o dal sentito dire per diventare veri miti iconografici. Miti molto spesso irraggiungibili. Fino a pochi anni fa.
Oggi, nelle librerie specializzate di fumetti statunitensi, è possibile vedere un gran numero di volumi di grandi dimensioni, dal diverso formato, che ristampano in modo integrale, cronologico e con sensibilità storiografica alcune delle più importanti strisce della storia del fumetto. Alcuni di essi godono anche di una pubblicazione italiana: Popeye (Planeta De Agostini in Italia, Fantagraphics Books in USA), Krazy Kat (Free Books/Fantagraphics Books), Peanuts (Panini Comics/Fantagraphics Books), Little Nemo in Slumberland (001/Taschen).
Accolte con grande successo editoriale, le ristampe cronologiche hanno preso il largo in Nord America. Si può dire che non ci sia decade che non abbia la propria striscia rappresentativa ristampata in volumi. E così abbiamo Gasoline Alley e l’opera omnia di Calvin & Hobbes, Little Orphan Annie e Mary Perkins On Stage, Dick Tracy e Terry And The Pirates e così via. Ogni mese si aggiungono gemme su gemme. L’ultima che mi è arrivata in mano è Explainers: The Complete Village Voice Strips (1956-66) di Jules Feiffer. Per non parlare del Doonsbury della Black Velvet, prima operazione del genere completamente prodotta in Italia. Sembra la riscoperta di Atlantide. Un mondo sommerso che torna a vedere la luce. E che luce!
Da qui l’idea di raccontarvi alcune di queste ristampe nei prossimi mesi. Senza la pretesa di essere esaustivo né analitico. Ma con l’idea di offrire alcuni spunti di lettura per poter riscoprire questi capolavori.

Harry.

mercoledì 27 maggio 2009

Evoluzionismo

Appunti Per Una Storia di Guerra (c) Gipi

Nella critica esiste spesso un rischio: interpretare le opere principalmente (solo) in base al grado di evoluzione che rappresentano per il medium di cui fanno parte. Secondo questo principio, nel nostro ambito, se un fumetto sotto qualche aspetto (concettuale, tecnico, espressivo, …) apporta novità degne di nota, evolve il fumetto come forma di comunicazione, allora il suo valore sarà direttamente proporzionale all’innovazione portata.
È un approccio diffuso, che si riscontra in tutti gli ambiti, dalla musica, all’arte visiva, al cinema, alla letteratura. Ma è solo un punto di vista sul mondo delle idee e dell’arte, solo un possibile filtro interpretativo. A volte piuttosto rischiso.
Due esempi antitetici spiegano meglio i termini della questione.
Tempo fa, di fronte all’ennesimo plauso generale per un lavoro di Gipi (Appunti Per Una Storia Di Guerra, se non erro), Alessandro Di Nocera si mosse controcorrente sostenendo, in estrema sintesi, che non comprendeva il successo dell’autore toscano perché ne valutava i lavori vecchi nell’impostazione e nello stile narrativo, sostanzialmente superati.
Non mi è chiaro, a tutt’oggi, se per Di Nocera lo stile superato andasse di pari passo con l’incapacità presunta dell’autore di esprimersi con una voce al passo coi tempi, di saper cioè parlare del/al nostro quotidiano, della/alla nostra socialità e società. Personalmente sono convinto che le due componenti siano disgiunte. Gipi ha ampiamente dimostrato di saper parlare in modo chiaro, non banale, a un ampio e variegato gruppo di potenziali lettori di fumetti inconsapevoli. La sua narrazione ha un linguaggio vecchio? Ha uno stile superato? Non trovo sia così importante. Penso che i suoi lavori siano coinvolgenti e personali. L’approccio “evoluzionistico”, adorniano, non dice tutto di un’opera. È un filtro potente, ma non l’unico. E rischia di banalizzare l’interpretazione e la contestualizzazione di un’opera.

Tale considerazione vale anche al contrario. Mi è capitato di rileggere il mese scorso la famosissima opera di Moebius Il Garage Ermetico. Quando venne pubblicato originariamente, negli anni ’70, questo fumetto visionario e astratto generò un vero e proprio shock culturale, dando vita a derive delle più varie, in tutto il mondo. Si può sostenere senza rischio di smentite che dopo Il Garage Ermetico la concezione stessa del fumetto e del suo potenziale è mutata in modo significativo. Moebius, con i suoi lavori, in quegli anni, ha rappresentato una pietra angolare, un punto di riferimento da imitare o dal quale allontanarsi il più possibile. Si tratta quindi di un’opera fondamentale per l’evoluzione del fumetto.
Ebbene, non ho timori nel sostenere che leggere oggi Il Garage Ermetico è un’esperienza meno significativa, a tratti deludente. Svestita del mito storiografico e del valore leggendario, Il Garage Ermetico è infatti un’opera involuta sul piano narrativo, graficamente forte ma squilibrata, in molti casi inutilmente intellettualistica e auto-compiacente. Il passare del tempo la svilisce progressivamente. È talmente radicata nel suo tempo, nella rivoluzione culturale da cui è nata che senza una precisa contestualizzazione perde consistenza.

Il lavoro critico, quindi, è sempre uno sforzo di ponderazione ed equilibrismo che, nella valutazione di qualsiasi nuovo prodotto, deve saper mediare tra diversi punti di vista e presupposti interpretativi. Al critico è chiesto non solo di esprimere un giudizio su un’opera, ma di avere chiara consapevolezza dei filtri che lo guidano e, perché no, di esplicitarli in modo netto e senza compromessi.


Il Garage Ermetico (c) Moebius

lunedì 25 maggio 2009

Segni e simboli

Ho recentemente accennato al valore simbolico e segnico delle parole nel fumetto mostrando un esempio negativo presente sul numero di Julia (Sergio Bonelli Editore) attualmente in edicola.
Ragionare in negativo ha il sapore della ricerca scientificamente fondata. Ma gli esempi in positivo spesso aiutano a comprendere meglio le cose.

Negli Stati Uniti, alcuni dei più grandi fumettisti di tutti i tempi si sono espressi quasi esclusivamente attraverso il formato delle strisce, pubblicate nei quotidiani. Uno di loro è il celebre e irriverente (e recentemente scomparso) Johnny Hart. Panini Comics ha pubblicato Il Libro d’Oro di B.C. nel quale viene presentata una ricca e straordinaria selezione delle strisce ambientate nell’immaginifica età della pietra Hartiana. È proprio da questa raccolta, ma in lingua inglese (Checker Book Publishing) che recupero l’esempio positivo di cui sopra.


Protagonista è il solito antenato in stile Hart, un omino rappresentato in stile cartoonesco e perfettamente sintetico. Osservate la linea, i tratteggi e l’estrema sintesi visiva. È una caratteristica propria delle strisce, ottenere molto con poco sforzo, una lezione che non si dovrebbe mai scordare. L’omino in questione ha un particolare stato d’animo, sembra soprappensiero, svagato. Graficamente Hart rappresenta questo umore attraverso la postura (gambe serenamente allungate nel passeggio, braccia incrociate dietro la schiena, occhio a mezz’asta, …). L’uomo passa davanti a un cartello che attrae superficialmente la sua attenzione. È un cartello di avviso di pericolo, ma la scritta finale è cancellata. Il simbolo di un piccolo asterisco sulla testa dell’uomo rappresenta il richiamo all’attenzione, una vaga sorpresa mista a curiosità che smuove però solo parzialmente lo stato d’animo del protagonista. Che infatti prosegue a camminare. Ma la postura cambia.



Nella seconda vignetta, l’uomo ha le braccia lungo il corpo, il collo più dritto, lo sguardo davanti a sé, l’occhio un poco più vigile. È preoccupato? Spaventato? No, solo curioso e un poco sorpreso. Hart lo sottolinea con un nuovo simbolo, molto più evidente dell’asterisco: un punto di domanda.
Ricordate, essenzialità ed economia di mezzi. Hart prepara in due vignette la sorpresa che colpirà il protagonista e i lettori.




Nell’ultima vignetta avviene il ribaltamento logico e simbolico. L’uomo viene attaccato da uno strano essere, una specie di sgorbio grafico dotato di mani e piedi, che urla un ruggito. Il protagonista è sconvolto dalla sorpresa. Perde contatto con il terreno in un salto, trema, gli occhi sono spalancati, le braccia aperte pronte a scappare. Il lettore scoppia a ridere, non appena unisce concettualmente la reazione dell’uomo, l’assalto dello sgorbio e il cartello apparentemente incomprensibile di due vignette prima. Guardiamo la striscia ricomposta.




Con questa breve, straordinaria sequenza, Hart ci ricorda che in un fumetto tutto, anche le parole, sono potenzialmente simbolo di qualcos’altro. In questo caso, quello che a prima vista (del protagonista e del lettore) sembrava la cancellatura di una parola, si rivela essere alla fine l’esatta rappresentazione grafica del pericolo. Pensateci, questo gioco linguistico (per riprendere Wittgenstein) è un gioco propriamente, unicamente fumettistico. In nessun’altra forma di comunicazione è possibile riprodurre qualcosa di simile. Perché a differenza di quello che molti tipi di fumetti vorrebbero farci credere, testo e disegno non sono due processi paralleli e distinti, ma due parti interdipendenti dello stesso processo visivo e logico.
Certo, Hart, nelle sue strisce, crea un contesto concettuale completamente aperto, con pochissimi segni, come dicevo, in quasi totale assenza di sfondi. Uno spazio bianco nella vignetta che amplifica le potenzialità e lo spazio bianco tra le vignette. Un’apertura che respira e spiazza il lettore.
Nel fumetto popolare, tuttavia, esistono molteplici altri limiti e significanti che interagiscono, rendendo il meccanismo per certi versi più prevedibile e accogliente, per altri più faticoso e meccanico. E tornando a Julia, ripensate a come un asterisco è stato usato da Berardi e il suo gruppo in quelle pagine, e come lo stesso simbolo è stato usato da Hart. Immaginate una striscia di Hart che abbia integrati in una gag un asterisco, la parola software e qualcos’altro.
Nel caso di Berardi e Julia, il metatesto è oltre la narrazione e la svilisce, producendo la frattura dell’immedesimazione del lettore. In Hart, il metatesto è esso stesso parte integrante della narrazione e produce, in definitiva, il coinvolgimento emotivo di chi legge e, quindi, la risata.
Hart è stato un vero innovatore sotto questo aspetto. Guardate la vignetta qui in basso.
Harry.

sabato 23 maggio 2009

Zombie



Complice un lungo viaggio in treno, mi sforzo di leggere la seconda uscita della nuova rivista di critica sul fumetto in pdf di De:Code. Lo sforzo deriva da un totale disinteresse personale per il tema al centro di questo numero della rivista: gli zombie. Archetipi di paure adolescenziali e di derive futili, i fumetti interessanti che hanno a che fare con gli zombie sono due. Uno è l’ampiamente citato The Walking Dead. Il secondo non appare. Ma ci torno alla fine.

De:Code in formato rivista è la nuova proposta di tre persone ben conosciute nel mondo della critica italiana: Antonio Solinas, Simone Satta e Nicola Peruzzi. Sono determinati, conoscono le cose di cui parlano e malgrado tutte le difficoltà della critica “amatoriale”, sperimentano e si rimettono in gioco. Prima della rivista gestivano il sito internet omonimo che faticava ad avere aggiornamenti regolari e sostanziosi e a offrire un senso progettuale al lettore. Da qui la decisione di chiuderlo e di sviluppare la nuova formula: una rivista in pdf che in ogni uscita si concentra su un tema specifico. A detta dei curatori, obiettivi del nuovo progetto sono l’approfondimento, lo sviluppo critico e, aggiungo io vista la “foliazione”, lo spazio per la riflessione. Ma non tutto funziona secondo le aspettative.

Il pretesto di questo numero sembra essere l’inedito italiano di Jeffrey Brown, autore assai noto in USA ma sconosciuto in Italia, che fa del minimalismo e dell’autobiografia il suo tratto distintivo. E che in De:Code è presente con una storiella zombie con protagonisti due personaggi degli X-Men. Interessante l’approccio grafico, puro divertissment fine a se stesso il racconto.
Il resto degli articoli e degli interventi è poca cosa, purtroppo, e mostra in modo chiaro le debolezze dell’impostazione della rivista, qualcosa che già dal primo numero si respirava e che qui sembra mostrarsi in modo chiaro e senza mezzi termini.

La scelta monotematica è pericolosa. Se il tema non è di qualche interesse per una parte dei lettori, la rivista li taglia immediatamente fuori. Succede a me con gli zombie. Ho proseguito la lettura per soli motivi “professionali”. Ma il punto è un altro. Non è affatto detto che il tema scelto sia sufficientemente importante e fondante da favorire lo sviluppo critico che una rivista come questa vorrebbe avere. E infatti non è così.
Vediamo i contenuti di questo numero: un’intervista leggera e insignificante ad Alex Crippa. Un articolo su Barks puramente informativo. Così come nozionistici e privi di intuizioni sono gli altri articoli: gli zombie della Marvel Comics, il ritorno di alcuni sceneggiatori statunitensi su serie che hanno contribuito a rendere celebri, i consigli agli sceneggiatori di un Recchioni sempre più in cattedra (e sempre meno ficcante), una scelta di cinque zombie cinematografici a firma Cajelli. Di qualche interesse l’intervista a Ciccarelli (SaldaPress), che sembra l’unico in grado di offrire una qualche risposta al perché dell’attualità della presunta zombie-mania.
Risulta chiaro alla fine della lettura che i tre curatori di De:Code non hanno alcun amore per l’argomento, né uno straccio di idea sul perché dovrebbero approfondirlo. In ogni articolo emerge una decisa banalizzazione del tema. Non ci sono spunti critici degni di nota. Non una riflessione significativa sulla tecnica narrativa del genere in oggetto, né tanto meno cosa lo potrebbe rendere graficamente e simbolicamente interessante. Condivido la banalizzazione per la sola ragione che il tema è di poco interesse, soprattutto in ambito fumettistico, e che non avrebbe meritato tale e tanto spazio.
Il secondo punto di debolezza è il taglio nozionistico, compilativo, bibliografico. Spiace, perché sarebbe vocazione dei curatori offrire una voce di approfondimento nel mondo del fumetto. Vocazione che giustificherebbe la scelta della rivista in pdf, a differenza della precedente vita editoriale su un sito. Se l’impostazione non cambia, De:Code su rivista rischia di sembrare un morto che cammina!
Il terzo punto di debolezza è l’impaginazione. Non mi è chiaro se De:Code sia pensata per essere letta dopo essere stata stampata o, come credo, via monitor. Nel secondo caso, la leggibilità è faticosa. Le immagini spezzettano eccessivamente il corso della lettura. Su monitor di media grandezza, senza la visione d’insieme della pagina, non si sa dove cercare i testi. Le immagini sono spesso meri riempitivi colorati. Si perde sovente il riferimento nel testo, non ci sono didascalie, il valore aggiunto all’articolo è pressoché nullo. È coerente con l’impianto divulgativo/nozionistico, ma non offre alcuno spunto di approfondimento o di analisi.
Infine, sparring partner, il giochino di Solinas. Si tratta della trasposizione di una chiacchierata via chat con Agozzino sul tema in oggetto. Un'idea interessante ma che qui non trova in nessun modo la misura: troppo superficiale per essere interessante, troppo poco dissacrante per essere pungente, troppo egocentrica e autoreferenziale per essere degna di nota.
In effetti, questo secondo numero di De:Code sembra sotto molti aspetti l’evoluzione di un circolo di blogghisti che parlano tra loro di alcune cose che gli interessa, se la cantano e se la suonano, con pochi veri spunti utili ai potenziali lettori, su un tema insignificante, per quanto di presunta “attualità”.
In tutto questo, l’approfondimento sul fumetto dov’è?

Infine, spiace vedere come nessuna delle persone che ha dato un contributo a questa rivista abbia citato quella che, a mio avviso, è la più interessante, spiazzante e originale interpretazione dell’iconografia zombie nel fumetto degli ultimi anni. Una mancanza che è ancora più importante se pensiamo alla pochezza di spessore che il tema ha nel campo fumettistico. Si tratta di Girls dei Luna Brothers (Free Books), un serial horror-fantascientifico nel quale gli “zombie” sono splendide ragazze nude extra-terrestri. Certo, l'accostamento non è immediato, ma l'impianto narrativo ha un chiaro riferimento al genere, trascendendolo con un'efficace osservazione delle dinamiche sociali e relazionali. Di Girls tornerò a parlare. Degli zombie certamente no.
Per De:Code spero invece in un deciso cambio di rotta a partire da una scelta più oculata dei temi di approfondimento.


Girls (c) Luna Bros

mercoledì 20 maggio 2009

Software


Leggo Al miglior offerente, l’ultimo numero di Julia (Bonelli Editore), sceneggiato da Berardi e Calza, e me ne appassiono, come spesso accade. Mettendo da parte tutte le logiche che ne giustificano l’esistenza e le dinamiche seriali, quello che funziona qui è la sceneggiatura. Il meccanismo narrativo non lascia nulla al caso, i tempi sono quelli giusti, il linguaggio fumettistico è evoluto ma piano, semplice. Persino i messaggi, la capacità di offrire al lettore una o più chiavi di lettura di questa attualità sono credibili e vivi, per quanto troppo democraticamente esposti. Non c’è insomma il respiro anarchico di certe storie di Ken Parker, perché Berardi è diventato grande e ha pieno controllo della tecnica. Sospetto infatti che il fuoco anarchico di Lungo Fucile fosse più dovuto all’esaltazione esplorativa dello sceneggiatore (e di Ivo Milazzo), sia sul piano tecnico che tematico, che motivato da una sensibilità di quel tipo. Cosa che, in effetti, darebbe senso alla fin troppo ordinata e gentile Julia e, al contempo, non muterebbe nulla della grandezza delle storie di Ken Parker. Malgrado questo approccio da sinistra in par condicio, da sinistra vogliamoci bene e niente riforma sul conflitto di interessi, il punto di vista di Berardi e Calza sulla vita e la nostra attualità rimane interessante e, a tratti, appassionante.

Ma ecco che, nel pieno della narrazione, quando il processo di mimesi e di identificazione con la storia è in pieno svolgimento e, ripeto, con buoni risultati, ecco che un personaggio utilizza il termine inglese software e… il meccanismo crolla come un castello di carte.
Lo sapete, il fumetto è un prodotto complicato. È un equilibrismo di simboli, laddove al segno proprio del disegno, che è rappresentazione visiva e cinetica e temporale e ... si aggiungono le parole, esse stesse forme iconiche, rappresentative, per quanto più chiaramente codificate. Gli sceneggiatori di fumetto popolare troppo spesso lo scordano e buttano parole a caso nei loro cosi a forma di fumetto, ma le parole contano. Non sono solo un’appendice al fumetto, un aggiunta ai disegni, sono esse stesse rappresentazione simbolica e visiva, sono strutturali al fumetto.
E in Al miglior offerente cosa succede? Che un personaggio utilizza il termine software, al momento giusto, col significato giusto. Non vi è nessuna sorpresa in questo, da Berardi e Calza, coppia collaudata e apprezzata, dobbiamo aspettarci tale cautela, attenzione e precisione. Berardi, tra i primi, ha portato nel fumetto popolare l’attenzione di cui sopra all’uso delle parole. Solo che Berardi, oggi che sta per terminare il primo decennio del nuovo millennio, lavora ancora in Bonelli, la casa editrice italiana popolare per antonomasia. Dove c’è una redazione attenta, che funziona (abbastanza) bene, che sa fare editing e, appunto, redazione. E che eccede in scrupolo. Accanto alla parola software, la redazione Bonelli decide di apporre un asterisco che rimanda a una nota, che spiega in modo chiaro, semplice, inutile il significato della parola software. Ma quei simboli, quell’asterisco e quella spiegazione entrano nella narrazione, la interrompono e sgretolano in un istante il processo identificativo.

Mi chiedo, chi è il lettore di riferimento di Julia? Le giovani donne? I giovani appassionati di gialli? Gli ex-lettori di Aghata Christie? I lettori di Tex? Gli ultra ottantenni? Chi sono le persone, i lettori/lettrici di Julia che non conoscono il termine software?
Un giorno, forse, Bonelli dimenticherà questa inutile e vetusta vocazione “pedagogica” e “nazional-popolare” e permetterà al fumetto e agli autori che lavorano per lei (la casa editrice) di diventare adulti.
Chissà perché mi viene in mente la strofa di una canzone:

Se mi suicido vedendomi morto mi metto paura”.

Harry.

lunedì 18 maggio 2009

Ciucci






Non conosco personalmente Marta Cerizzi, ma apprezzo e seguo le sue idee da vicino.
Il suo blog personale, Dugonghi!, è un ottimo esempio di work in progress. Senza timori, Marta mostra la sua evoluzione personale al tavolo da disegno, la ricerca di un segno e la scoperta di una voce. È ancora presto per poter vedere nel suo lavoro le caratteristiche distintive di un “professionista”, ma le intuizioni, alcuni personaggi delle sue strisce e i primi segnali sono molto incoraggianti.
Ma è Ciucci a destare particolare interesse. In esso sono raccolti molteplici interventi dei più diversi autori di fumetti (per ora solo italiani) che mostrano al lettore gli “inizi” della loro carriera, con molti disegni e (proto)fumetti realizzati nell’infanzia. Al lettore non resta che navigare e lasciarsi guidare dal piacere di scoprire da dove nasce il talento, come lo si semina e innaffia. L’ultimo autore pubblicato, della già lunga lista, al momento in cui scrivo, è Paolo Bacilieri, uno degli autori italiani più significativi di questi anni.
Non è difficile rintracciare un filo comune tra Dugonghi! e Ciucci, una vocazione pedagogica ed evoluzionista che è confermata anche da alcune analisi sul disegno derivanti dalla psicologia dell’età evolutiva.
Due progetti in evoluzione assolutamente da seguire.
Harry




da Dugonghi! (c) di Marta Cerizzi

Il posto che si merita







Fragil como un volantin
En los techos de barrancas
Jugaba el nino Luchin
Con sus manitos moradas
Con la pelota de trapo
Con el gato y con el perro
El cabalo lo miraba
...


Luchin di Victor Jara





In tutte le librerie di varia è possibile reperire i testi fondamentali della narrativa latino americana. I più noti: Marquez, Allende, Amado, Sepulveda, …
Meno frequente la presenza dei capolavori del peruviano Manuel Scorza, ma la sua La danza immobile è spesso presente. Non ne cito molti, moltissimi altri. Perché ce ne sono molti, moltissimi altri.
Ma nelle librerie non troverete mai i volumi di Gilber "Beto" Hernandez e del suo Love & Rockets (Magic Press). Se cercherete Benvenuti a Palomar o Rio Veleno o Piedi a Papera, resterete a bocca asciutta. Se vi capitasse di trovare una copia a suo tempo ordinata e mai venduta, tra i fumetti, tra una ristampa Mondadori di Tex e un inedito di Fantomas della BD e un volume qualunque di Hulk o degli X-Men della Panini, sarebbe solo per errore di valutazione da parte del negoziante. E a meno che non conosciate già di cosa si tratta, se lo vedeste lì, tra gli altri fumetti, e lo sfogliaste, lo trovereste fuori luogo, sbagliato e non lo capireste. Rimarrebbe lì, indesiderato. Come è giusto che sia.
Potete richiederlo, ma non sapete se mai lo consegneranno. La cosa richiederà del tempo. O forse no. L’incertezza in questi casi aggiunge il sapore alla beffa.
E allora potete decidere di cercare la saga di Palomar nel ghetto delle fumetterie. Il risultato, spiace dirlo, sarebbe più o meno lo stesso. A parte per alcuni librai illuminati, infatti, le librerie specializzate non reputano commercialmente valido avere i volumi di Beto Hernandez (e tanto meno quelli potenzialmente più vendibili, ma meno belli, del fratello Jaime). Potete ordinarli. Come sopra.

La saga di Palomar è il capolavoro a fumetti della cultura sudamericana. Paragonato a Marquez, io lo trovo sorprendentemente vicino all’occhio di Scorza, disincantato ma poetico, concreto ma evoluto, secco ma ricco, inafferrabile. Non esiste migliore esibizione della triste e vituperata esistenza del Sud America che quella di Beto Hernandez. Senza conformismi e senza alcun sentimentalismo, qui troverete a livello esistenziale la riproporzione delle sventure politiche ed economiche della colonia/non colonia degli Stati Uniti. È un lavoro di una complessità narrativa eccezionale (nel senso di eccezione) che utilizza le potenzialità del fumetto senza mezze misure, coinvolge i sensi, i simboli, le assimilazioni, la decostruzione, le sovrastrutture logiche, attraverso una meccanica narrativa travolgente.

Beto non gioca con il lettore, lo vuole schiaffeggiare. E non certo con il suo tratto semplice, il suo bianco e nero netto e “povero”, ma con le sincopi del suo procedere, attraverso una sceneggiatura che è essa stessa manifestazione di ritmi latini, di convinzioni ideologiche, di storture finto-democratiche, di leggende di paese frutto dell’ignoranza. Il sesso e l’arricchimento personale sono gli ingranaggi del meccanismo. Tutti vittime di un sistema, di automatismi incompresi, tutti spersonalizzati e de-umanizzati, quindi umanissimi.

Rio Veleno è forse la vetta più alta. Racconta la vita di Luba, il primo pezzo della sua vita, e ce la sbatte in faccia, proprio come Luba ha sbattuto in faccia la sua prima virtù a decine e decine di uomini. L’ammaliatrice è in realtà posseduta dalla sua fragilità e si trincera dietro a un ruolo che le offre l’opportunità di un’identità, per quanto infelice. In Rio Veleno il fiume del veleno è l’insieme delle esistenze che hanno condiviso e condizionato quella di Luba.
Beto non gioca, è realistico quanto espressionista. I volti dei protagonisti maschili si assomigliano, ma “sono tutti uguali i mangia tortillias”, come i cinesi. Sono il terzo mondo, quello senza identità e diritti di cittadinanza.

Ma Beto ci ricorda anche che tutta quell’umana disperazione, prima della lotta per l’affermazione, era la piccola e innocente gioia di vivere dei bambini. I bimbi e il loro occhio lucido e legittimo sono un elemento fondamentale dello sguardo dell’autore. Ecco perché, le “fotografie” dei protagonisti a inizio di ogni capitolo ritraggono sempre il loro viso da bambini. Ricordiamo, anche il più vile degli assassini è stato un bambino.
C’è una tale nostalgia in questa banale constatazione che mi lascia ogni volta senza fiato. Nel modo in cui Beto ce lo ricorda, ce lo sottolinea senza mezzi termini. C’è tutto l’amore per la vita. Come nella semplice, disadorna e lucente canzone di Victor Jara Luchin, che apre l'articolo.
La saga di Palomar è uno degli epigono non solo del fumetto mondiale, ma anche di una testimonianza di vita, quella del Sud America e delle sue torture autoinflitte e ricevute. L’ultima delle quali, la meno dolorosa ma culturalmente più indegna, è l’irreperibilità di queste storie. Come l’invisibilità dei desaparecido. Ma val la pena cercare e scovare queste storie. Sono prezioso quanto la verità storica e sociale di cui sono fatte.


Harry


















tutti i disegni (c) di Gilbert Hernandez

domenica 17 maggio 2009

Cronachette























Il fumetto è l'arte del segno e del simbolo. Più di ogni altro. Non ho dubbi su questo, ma non spiegherò ora il perché.
In un approccio fenomenologico alla lettura, tema su cui presto tornerò, i sensi sono coinvolti al pari della facoltà dell'immaginazione e della decodifica dei simboli, fino a ritrovare un significato e a comprendere, umanamente, il mondo e i percorsi mentali ed emotivi dell'autore.
Prendete Cronachette 2 (Coconino Press) di Giacomo Nanni e capirete esattamente questo processo, se solo dedicherete un poco di attenzione a voi stessi durante il processo di lettura.
In quella macchiolina nera prima assente e che compare solo nell'ultima vignetta della pagina riscoprirete non solo la piccola protagonista pelosa, ma anche i tempi e l'ironia sentimentale di Nanni. I suoi ricordi si uniranno ai vostri e sperimenterete in modo vivo il sentimento di compassione (cum-patire, niente a che vedere con la sofferenza).
Nanni lavora per riduzione, degli sforzi, dei significati, dei movimenti, dei contenuti di ogni vignetta. Se questo sia minimalismo, non saprei, ma certo è un modo che nel fumetto si traduce immediatamente in uno sforzo efficace per sottolineare la valenza simbolica e immaginifica.
Assomiglia così tanto alla poesia, assomiglia così tanto alla vita di tutti i giorni (raramente ci capitano avvenimenti eclatanti, rivoluzionari; per lo più si ripetono gesti e situazioni usuali che solo una forte concentrazione ci permette di distinguere e sottrarre al peso dell'abitudine).
Assomiglia così tanto a una delle potenzialità più caratteristiche del fumetto: la semplicità che si trasforma in rappresentazione escatologica.

Harry

venerdì 15 maggio 2009

Volta la carta

(c) Charles Schulz


Ecco qui. Mi chiamo Harry e faccio quello che sapete (e che potete leggere di fianco).
Dopo che per più di un anno il mio amico Guglielmo Nigro ha pubblicato sul suo blog i miei pensieri, ho deciso di aprire uno spazio tutto mio. Ci ho messo molto, perché, odio ammetterlo, non so utilizzare il computer. Sono un analfabeta tecnologico.
Guglielmo sarà la mia piattaforma virtuale e, tramite la sua perizia e la sua pazienza, pubblicherò qui i miei pensieri sul mio medium preferito, il fumetto.
Qui si parlerà solo di fumetti. Ma trattandosi di un mezzo di comunicazione non isolato dal mondo, il mondo entrerà e uscirà in ogni articolo. 'Che il fumetto soffre già abbastanza di una triste clausura autoimposta.
Buona lettura.

Harry.

p.s. ripresento tutti i commenti già pubblicati sul blog di Guglielmo. Sono tutti quelli con data antecedente a questo post.


Tutti i testi di questo blog sono (c) di Harry Naybors, salvo dove diversamente indicato.
Puoi diffonderli a tuo piacere ma esplicitando sempre l'autore e/o la fonte.

La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.