giovedì 27 agosto 2009

Diabolik anonimo (inedito)


Diabolik è lavoro di equipe. La sua impostazione seriale, sulla serie regolare inedita, che prosegue da decine e decine di anni, si è sviluppata a fasi alterne all’insegna del più coerente (e restrittivo) immobilismo.
Constatare che nell’ultimo numero, il 750°, che uso a puro titolo di esempio, una semplice e insignificante storiella è stata realizzata attraverso il contributo di ben sei professionisti mi colpisce e al contempo non sorprende. Ci sono due soggettisti (Gomboli e Faraci), uno sceneggiatore (Recchioni) e ben tre disegnatori (lo storico Zaniboni coadiuvato da Montorio e Merati). Il risultato è proprio quello che si potrebbe intuire: nascondino. In Diabolik, la regola dell’immobilismo si sposa con l’anonimato, e gli autori si mimetizzano tra loro, con i personaggi e le vicende. La cifra stilistica degli autori non deve apparire, tutt’altro. Il professionista è talmente al servizio del personaggio da perdersi in esso. Quello che vorrei sottolineare è che è proprio l’impostazione editoriale, la strategia produttiva, a favorire questo risultato.
E così, la sceneggiatura di Recchioni, in questa storia di nemici/amici prigioni e insoddisfacenti giravolte, risulta piatta, prevedibile tanto quanto i disegni sono “automatici”. E Recchioni è irriconoscibile. A dirla tutta, sembra il bigino di una sceneggiatura. Immaginate di dover raccontare una storia che avete letto a un amico: vi interesserebbe lo svolgimento del soggetto, ma senza soffermarvi sulle pieghe e senza “intrattenere” e coinvolgere l’ascoltatore più di tanto. Ecco, spesso Diabolik mi sembra questo, il racconto di un’altra storia, un prodotto derivativo, nel quale tutto, a partire dalla sceneggiatura, passando per il disegno “tradizionale”, deve risultare neutro o, per meglio dire, anonimo.

Harry

mercoledì 26 agosto 2009

Prendo appunti


Sono in pausa.
Sto leggendo molto.
E prendo appunti.

A presto per nuovi aggiornamenti.

Harry

giovedì 13 agosto 2009

Distruggerò tutti i pianeti civilizzati

Stardust, The Super Wizard di Fletcher Hanks

Negli Stati Uniti, con la new wave degli autori indipendenti degli anni ’90, quelli che oggi sono la base del rinnovamento del medium e che hanno per molti versi raccolto l’eredità dei fumettisti underground degli anni ’70, è venuto alla ribalta un nuovo modo di conoscere la storia del fumetto statunitense (e non solo). Questi autori – Seth, Clowes, Ware, Karasik, Burns, ecc. – hanno costruito le loro sperimentazioni e innovazioni collegandosi in modo più o meno diretto agli autori che hanno dato vita alla prima vera rivoluzione culturale del fumetto, negli anni ’30 e ’40. Seth, per esempio, ha reso omaggio in modo esplicito al suo immaginario derivativo con il suo ultimo lavoro Wimbledon Green, di cui ho già parlato, e nel quale con il pretesto di raccontare la vita e i misteri del più grande collezionista di fumetti, ripercorre modalità e stilemi propri del tempo che furono, rielaborati attraverso la propria sensibilità. Chi più chi meno, questi autori sono innanzitutto degli appassionati, se non degli “archeologi” del fumetto passato. Lo stesso Ware, con le sue collaborazioni alle ristampe di Krazy Kat o di Gasoline Alley, per non parlare dei suoi lavori originali (Jimmy Corrigan, Quimby the mouse) offre continue rielaborazioni e omaggi a un modo di concepire il fumetto che risulta oggi più attuale che mai.

Il loro punto di vista è, semplificando, il seguente: con la nascita del fumetto mainstream e in conseguenza delle politiche delle major (anche a seguito dell’istituzione del famigerato comics code authority) l’evoluzione del medium si è fermato e, per molti versi, ha fatto decisi passi indietro, sia sul piano dei contenuti che della forma. Secondo loro, non a torto, si seminò molto più nei primi anni Quaranta del secolo scorso che nei successivi trenta, quaranta. Con alcune eccezioni, naturalmente. Da qui, la decisione molto chiara di riprendere quella lezione come nuovo punto zero e rielaborarla, rimettendo in moto l’evoluzione della nona arte per le nuove generazioni. Se per decine e decine di autori il riferimento, il punto da cui partire è stato Jack Kirby, per Ware e compagnia si deve tornare più indietro, ai tempi di McKay e imparare da lì.

In questo contesto, nasce una nuova mitologia degli autori e delle serie “scomparse”, artisti e personaggi di cui si sono perse le tracce, che solo attraverso un approccio “archeologico” è possibile rintracciare. Ne racconta ancora, e con maggior efficacia rispetto a Wimbledon Green, sempre Seth nel libro La vita non è male malgrado tutto (Coconino Press), attraverso la finzione, ma immaginate cosa può accadere quando un tale evento accade davvero.

È il caso recentissimo della riscoperta di Fletcher Hanks da parte di Paul Karasik. Hanks è stato una meteora del fumetto statunitense. Ha lavorato per pubblicazioni della Fox, della Fiction House e della Timely Publications per tre anni (1939-1941) fino alla sua misteriosa scomparsa. Non solo le sue opere risultano quasi introvabili, ma anche le vicende umane dell’autore sono per lo più sconosciute e misteriose. Per queste ragioni, Fletcher Hanks (usò anche gli pseudonimi Henry Fletcher, Barclay Flagg o Hank Christy) assurge a mito esemplificativo del lavoro di riscoperta di un patrimonio culturale dimenticato, per il quale Paul Karasik spende buona parte del proprio tempo. È proprio attraverso le sue ricerche, che sono tornati alla luce alcuni lavori di Hanks che la Fantagraphics Books ha pubblicato in due volumi da non perdere, I shall destroy all the civilized plantes e You Shall Die by Your Own Evil Creation.
Le storie di Hanks sono sorprendenti. Ricordatevi, siamo alla fine degli anni ’30, agli inizi del boom dei comic-book. L’autore ha uno stile grezzo, estremo nell’impostazione delle fisionomie e delle espressioni dei volti. La conduzione della narrazione è schematica, sintetica, ma al contempo affascinante. Le storie sono violente, dirette e chiuse. Hanks è apparentemente superficiale e di certo non sofisticato, ed emerge una sensibilità (inconsapevolmente) ironica e decisamente manichea. I suoi personaggi sono granitici e per questo fortemente iconici ed evocativi. Hanno nomi improbabili come Stardust, The Super Wizard (un extra-terrestre potentissimo che combatte il crimine in tutto l’universo) e Fantomah Mystery Woman of the Jungle (ritenuta il primo supereroe donna del fumetto statunitense) e si configurano come torbide e grottesche rappresentazioni dei supereroi classici.
Le storie di Hanks hanno un fascino vicino alla perversione, a mio avviso. Il suo stile è a tratti fastidioso e indisponente, tanto quanto accattivante e ipnotico, tremendamente pop. Non sorprende quindi l’entusiasmo di Karasik e della critica (I shall destroy all the civilized plantes ha vinto un Eisner l’anno passato): Fletcher Hanks è l’esemplificazione della mitologia delle “nuove generazioni” di fumettisti che al passato ritornano per ritrovare un’energia iconica, visiva e rappresentativa che, rielaborata, è in grado, secondo questi autori, di portare il fumetto nel nuovo millennio.

Harry.

mercoledì 12 agosto 2009

E quindi...


E quindi Ade Capone torna a parlare della chiusura di Trigger, esponendo i (suoi) fatti.
Dalla lettura del suo comunicato si conferma una considerazione che avevo già espresso e che qualcuno ha sottovalutato se non deriso: i dati di vendita di un fumetto (e le sue tirature) possono essere interpretati in modi diversi.
Capone fa intendere che la sorte della serie sia stata minata dalle scelte della casa editrice in merito alle tirature, prima ancora che dai dati delle effettive vendite.
Se è vero, mi chiedo che senso abbia per una casa editrice affossare prematuramente una propria miniserie. E si torna al problema della programmazione e ancor più della politica editoriale. I fatti interpersonali tra Capone e la dirigenza Star Comics quanto sono importanti? Non credo che lo scopriremo facilmente. O almeno, conosceremo solo una parte della verità.

Ma abbandonando il tono da gossip, che mi interessa ben poco, torno a dire che non è con queste basi che si producono prodotti validi. La mediocrità complessiva delle ultime produzioni Star Comics è un segnale di qualcosa che non funziona a dovere. Non credo nasca dalla volontà di pagare poco gli autori (ché alcuni di essi sono ormai consolidati professionisti). Mi sembra si lavori con superficialità, nell'ideazione del concept della storia, nella definizione degli sviluppi e soprattutto nella cura di sceneggiature e disegni. C'è quasi il dubbio che la casa editrice sottovaluti il senso critico e l'intelligenza dei lettori, ma su questo mi fermo. Giocare al ribasso non porta da nessuna parte.

Spero che le prossime produzioni abbiano una diversa cura. Che Star Comics prenda tempo, non cerchi di dimostrare di essere ancora solida proponendo serie sviluppate frettolosamente. E soprattutto scelga adeguatamente gli autori in funzione dei progetti che vuol pubblicare. Meglio un (quasi) esordiente con buone idee, guidato adeguatamente da un buon editor, piuttosto che un autore già in "scuderia" che finora ha dato scarsa prova di sé.
Ma cosa lo dico a fare?

Harry.

Non volevamo far ridere!

copertina del secondo volume che ristampa JLI, di Kevin Maguire


La recente rilettura della Justice League Internetional (JLI) di Giffen, De Matteis e Maguire mi porta a riflettere nuovamente sui comics statunitensi.
A proposito della pausa di Steve Rude, ho accennato al problema del rinnovamento concettuale di un genere, quello supereroistico, che ha vissuto da sempre di tanti alti e bassi e che, per diverse ragioni, ha occupato e continua a occupare la fascia più esposta del mercato USA.
L’esempio della JLI è emblematico, a mio avviso, per comprendere come i meccanismi produttivi, quando si incrociano con sensibilità creative vive e adeguatamente stimolate, possono far nascere nuovi semi che durano nel tempo al di là delle aspettative e delle attese degli stessi autori ed editori.
Perché se è vero che il fumetto italiano manca spesso di progettualità, quello statunitense ne ha fin troppa. Le major soprattutto, sono macchine organizzative strutturate che, generalmente, sanno dar vita a “eventi”, a “rivoluzioni controllate”, a bolle di “marketing narrativo” ben pianificate, anche se raramente di reale interesse per i lettori.
La DC Comics sta ristampando in paperback da circa 200 pagine l’intero ciclo della storica JLI degli anni ’80-'90. Al momento sono usciti due volumi e il terzo è presentato sull’ultimo previews. Ricordo che la serie divenne celebre oltre che per l’intelligenza nella costruzione di trame e intrecci, anche per il tono ironico e dissacrante (per quanto non revisionista) della sceneggiatura, complice il perfetto equilibrio del team Giffen-De Matteis. Nell’introduzione al primo volume, è proprio Giffen a raccontarci, dal suo punto di vista, come sono andate le cose. Il concetto principale che esprime è che non avevano intenzione di far ridere, di essere divertenti. Vale a dire, la forza della serie, quella verve così celebrata, è nata dall’alchimia creativa che si è sviluppata nei mesi, grazie soprattutto all’abilità dell’allora editor Andy Helfer.
Non è banale, alla luce anche di fatti italiani recenti, tornare a sottolineare la fondamentale funzione di un editor. Visto molto spesso come il male incarnato, perché portatore delle istanze aziendali e di marketing, un editor capace vale tanto oro quanto pesa. Ce lo ricorda anche Tito Faraci sul suo blog. Soprattutto quando si lavora in team per un prodotto seriale, l’editor è colui che può creare l’alchimia e far scattare la scintilla.

Tornando a JLI, la rilettura mette in chiara luce proprio la considerazione di Giffen: gli autori hanno una chiara idea dell’approccio da sviluppare ma il risultato è un processo in continuo divenire, rinfrancato dal sorprendente riscontro di pubblico e dalla sintonia del gruppo degli autori che gioca, sperimenta e, soprattutto, continua a mescolare le carte e a cambiare registro quando serve (perché in JLI si leggono anche alcune storie dal respiro davvero cupo). Gli autori lavorano per contrasto e sono i primi a divertirsi e a sorprendersi. Ironizzano sui personaggi (si leggono alcune delle battute su Batman più riuscite di sempre, ed è ancora Faraci a ricordarci del pericolo di ironizzare sulle icone), creano tensioni relazionali (dando umanità e dinamismo), spostano l’attenzione dalla trama agli equilibri tra i personaggi per poi sorprendere il lettore con repentini cambi di tono e colpi di scena, strettamente plot-oriented.
Il punto è che la serie rimane divertente fino a quando gli autori non diventano troppo consapevoli degli elementi che la rendono vincente. A un certo punto tale consapevolezza, unita all’auto-compiacenza, inizia a farsi troppo presente e parte dell’interesse di JLI inizia a scemare.
Ne abbiamo una conferma nei numerosi e raramente interessanti ritorni del team creativo, sia in casa DC Comics (di nuovo con Justice League) che per altri editori (Boom! Studios), dove resta solo il giochino dell’ironia e dei dialoghi, ma senza una vera storia da raccontare. Resta la forma, sparisce la sostanza; parte del divertimento rimane grazie all’abilità, al mestiere, di Giffen e DeMatteis ma non c’è altro. L’elemento di novità e di profondo divertimento per i lettori (ma non dimentichiamolo, anche per tutti i creativi coinvolti!) diventa clichè, riproduzione sterile. E quando questo accade, il meccanismo si inceppa.
Insomma, è importante che gli autori di fumetti non perdano il gusto di creare divertendosi, che sperimentino, che trovino nuovi equilibri. Impossibile, controproducente darsi per scontati, dall’alto della propria esperienza e professionalità. Ne escono solo danni.

Batman stende Guy Gardner con un pugno e Black Canary si dispera per non aver assistito

Dai tempi di JLI i comics sono cambiati molto. Difficile comprendere, senza un po’ di memoria storica, la forza innovativa di quella serie. Non facile ritrovare quei semi nelle serie di oggi, anche se una certa rinnovata attenzione per i dialoghi brillanti sembra derivare anche da lì (Brian M. Bendis?), ma è certo che quelle storie sono ancora divertenti e fresche e non hanno perso buona parte del loro interesse. Rileggetele!

Harry.

lunedì 10 agosto 2009

I bei vecchi tempi?


A metà luglio, sul suo blog, Steve Rude ha comunicato ai suoi lettori che si sarebbe preso del tempo, soprattutto per dipingere, e che avrebbe rallentato se non interrotto le sue produzioni a fumetti.

Rude è uno degli autori più strani del mondo del fumetto popolare statunitense, perché ha prodotto relativamente poco, in tutta la sua carriera, nulla di davvero rivoluzionario, ma è uno dei più amati dagli addetti ai lavori. Il suo stile può essere descritto come l’incontro tra Jack Kirby e Alex Toth, un mix senza dubbio originale e affascinante. Si è fatto conoscere per merito di Nexus, una serie fantascientifica assolutamente anomala, avviata agli inizi degli anni ’80 insieme allo sceneggiatore Mike Baron e ha collaborato a corrente alternata con i più importanti editori statunitensi. Le sue ultime fatiche sono la creazione di un nuovo personaggio, The Moth, e una nuova miniserie di Nexus, prodotta dalla sua etichetta Rude Dude.

Oggi si ferma. Oltre ai suoi interessi artistici (la pittura, come detto, dipingere la natura dal vivo) Steve ammette anche le difficoltà economiche della casa editrice, in un periodo in cui essere piccoli e auto-prodursi non è certo facile. Ma sembra attribuire buona parte della sua decisione anche al fatto di non riuscire più a divertirsi con il fumetto popolare di questi anni. Il mondo che lo ha sedotto da piccolo e che lo ha convinto a essere un professionista è cambiato: storie troppo “adulte”, dure, oscure, violente. Una china secondo lui avviatasi negli anni ’90 e non più interrotta.
Il punto di vista di Rude è significativo per almeno due ragioni. Innanzitutto perché descrive perfettamente il disagio di chi non ha saputo o voluto modificare il proprio rapporto con un’idea di fumetto popolare che non esiste (quasi) più, neppure da autore. E ciò lo si riscontra nei suoi lavori, esteticamente affascinanti, eleganti, chiari, ma al contempo statici, ripetitivi. The Moth è un omaggio, prima ancora che un lavoro originale. E gli omaggi, a mio parere, raramente sono opere riuscite. Sono efficaci nel giocare con i ricordi, ma quasi mai sanno essere solida opera autonoma.

La seconda ragione è che Rude mette il dito in una grossa piaga del fumetto popolare statunitense, l’eccessivo bisogno di uniformarsi e omologarsi. La “svolta adulta” è stato un atto di ristrutturazione fondamentale del fumetto supereroistico, che ha messo in moto una serie molto importante di trasformazioni. Per troppo tempo i comics sono stati incapaci di mutare, riproducendo se stessi in un circolo vizioso fatto di nemici improbabili, di scontri poco credibili, di dialoghi altisonanti, ecc. Ma oggi, dopo che la svolta c’è stata e la sua lunga scia non si è più interrotta, la nuova omologazione sembra aver escluso un mondo che, per persone come Rude, sono la quintessenza del fumetto di supereroi.
Non so dire dove stia il punto. Capisco la posizione di un autore che si sente nel tempo e nel posto sbagliato. E capisco la sensazione di profonda stagnazione dei comics in questi ultimi anni (con alcune punte di interessante eccellenza, e troppi bassi).
Ma comprendo soprattutto perché Steve Rude non è mai riuscito, finora, a esprimere al meglio il proprio potenziale di straordinario artista.

Harry.

tutti i disegni sono (c) di Steve Rude

Coi suoi occhi



Sono affascinato da questa sensibilità e dalla sua costanza. Renee French pubblica sul suo blog un disegno (o una foto, ma non fa molta differenza, come vedete) ogni giorno. Ammetto che non deve essere molto piacevole osservare coi suoi occhi!

Harry

Tex e Dylan Dog allo specchio

Tex di Fabio Civitelli

Credo di poter affermare che Dylan Dog è ormai una spada nel fianco della Bonelli. Nessuno sceneggiatore sembra più in grado di prendergli le misure. Roberto Recchioni sembra molto motivato a riuscirci, ma quel (poco) che si è letto finora non ha colpito. Anche Tito Faraci, che in diverse occasioni ha mostrato la sua intelligenza nell’accostarsi a personaggi blasonati e impegnativi (Topolino, Diabolik e Tex su tutti) non sembra trovare il giusto approccio. Appare poco convinto, poco in sintonia con quel mix di malinconia e surrealismo che ha caratterizzato il personaggio nei momenti di maggior fortuna.

L’ultimo Dylan Dog Color Fest, da poco in edicola, è l’ennesima conferma. Nessun sussulto vero, nelle quattro storie, a rendere inutile un albo che dovrebbe, potrebbe essere speciale, visto anche le più che probabili alte vendite.
Dylan Dog è uno zombie, quindi. Si vorrebbe che uno sceneggiatore strutturato, motivato e con le idee chiare ci si dedicasse anima e cuore per un certo periodo. Ma non riesco a immaginare chi potrebbe essere. L’unico che ha interpretato con successo Dylan Dog a parte Sclavi è stato Michele Medda (ché Barbato non mi ha mai convinto) ma semplicemente perché è autore dotato di straordinaria tecnica e buona intelligenza. Ha dimostrato di saper gestire il personaggio, ma lo ha fatto “con semplice” professionalità. Senza amore. Ed è chiaro che le sue attenzione e motivazioni sono, giustamente, altrove. Caravan finora sembra funzionare piuttosto bene, e nessuno sceneggiatore sano di mente rinuncerebbe a un lavoro di propria creazione per affrontare la spinosa questione creativa dell’Indagatore dell’incubo.

Esattamente il contrario di quanto sta avvenendo con Tex. Come ho già scritto, l’eroe bonelliano più longevo e di successo è in un periodo creativo eccellente. Si conclude questo mese la prima storia (in due parti) di Gianfranco Manfredi e non si può che essere soddisfatti. La storia è brillante, con una cura per la sceneggiatura, i ritmi, i dialoghi davvero eccellente, a conferma della grande abilità dello sceneggiatore. Manfredi, coerentemente con quanto dichiarato, sembra divertirsi davvero, portando in giro Tex e il suo pard per una vicenda di corruzione e speculazione ben costruita, dove ogni aspetto è guidato alla perfezione e dove le dinamiche e gli equilibri tra i personaggi fanno muovere la storia verso una conclusione naturale ma non ingenua.
Se ci trovassimo negli Stati Uniti, un esordio del genere per un personaggio così importante sarebbe stato anticipato da mesi di hype, di accumuli di aspettative, tra interviste, articoli, anteprime e pubblicità. In fondo, Manfredi è uno degli sceneggiatori italiani oggi più quotati. Ma l’understatement del fumetto popolare italiano è forse l’unico, chiaro indizio della strutturale bontà di un mercato editoriale sempre nascente, mai compiuto. Sono infatti convinto che non sia attraverso proclami o strilli pubblicitari che il mondo del fumetto possa crescere. Tuttavia, un po’ più di richiamo avrebbe forse permesso di riportare entusiasmo, eccitazione e di restituire il senso del movimento anche positivo in atto nel settore, in questa estate che sembra foriera solo di sorprese negative.
E il punto è qui, sembra mancare la possibilità di un efficace equilibrio tra marchetta pubblicitaria (l’hype statunitense) e basso profilo (tipicamente non urlato di Segio Bonelli).
In fondo, mi chiedo, siamo certi che la maggior parte dei lettori di Tex si sia accorta della novità e comprenda l’importanza dell’investimento che Bonelli sta facendo per mantenere vivo il personaggio? Forse sono i tempi, forse semplicemente ci sono gli sceneggiatori giusti al momento giusto, per Tex. Persone motivate a lavorare e divertirsi su un personaggio difficile, a fortissimo rischio noia ma che, con il suo semplice quanto rodato pre-testo narrativo, permette loro di creare credibili e intelligenti opere di svago.

È l’assenza di un simile incrocio di opportunità, più che una mancanza di investimenti e obiettivi editoriali, a far languire Dylan Dog in una mediocrità che, al momento, non vede soluzioni a medio termine.
Harry.


l'inizio di una sequenza molto efficace nell'ultimo Tex di Manfredi e Civitelli

venerdì 7 agosto 2009

Ma è una petizione seria?


Dopo aver riferito della decisione di Eura Editoriale di chiudere il mensile di John Doe, tra gli altri, in rete è stata aperta una petizione che vorrebbe convincere la casa editrice a fare marcia indietro.
Non è mia intenzione entrare nel merito del senso dell’iniziativa. Capisco il risentimento dei lettori e affettivamente comprendo la loro volontà di fare qualcosa. Le firme, sopra a 300 nel momento in cui scrivo, non sono molte per ora, ma alcune sono “illustri”. Eppure non mi convince. E sapete perché? Perché è scritta male.
Riporto per intero il testo (a iniziare dal titolo – i refusi sono nel testo):

John Doe chiude al N77 ma non succerà in silenzio!

Petizione contro l'EURA editoriale per non fa chiudere John Doe nel silenzio. Se proprio dovrà essere sepolto faremo un funerale molto rumoroso. questa petizione va rivolta alla nuova proprietà dell'EURA editoriale,che,senza alcun preavviso agli stessi autori,ha deciso di chiudere il fumetto italiano più rivoluzionario e seguito degli ultimi anni,lasciando increduli,allibiti,arrabbiati e desiderosi di una netta marcia indietro tutti i numerosissimi fruitori del fumetto.se proprio la nuova direzione editoriale dell'eura intende rinnovarsi deve partire proprio con il fumetto di punta,ciò che probabilmente le ha dato prestigio negli ultimi anni,JOHN DOE. Facciamo sentire la nostra voce e non permettiamo di distruggere un sogno,ancor prima che un fumetto,non facciamo morire John Doe nel silenzio.


Non voglio infierire, ma il testo si commenta da solo. È pieno di refusi, la punteggiatura lascia il tempo che trova, la forma è sconclusionata e alcune affermazioni non potrei mai sottoscriverle, semplicemente perché contrarie alla realtà (ha deciso di chiudere il fumetto italiano più rivoluzionario e seguito degli ultimi anni).
Se fossi un fan della serie e fossi motivato a condividere questa battaglia, farei lo stesso molta, molta fatica a firmare.
Tutto ciò è pleonastico?
No.

Il dissenso va portato con serietà. Quale idea può farsi la dirigenza di Eura Editoriale leggendo questa ridicola petizione? Che è solo un gioco infantile di un gruppetto di lettori ignoranti.
Credo che John Doe meriti qualcos’altro. Credo che l’incomprensione di questi meccanismi sia un segnale dello stesso male che sembra colpire la nuova guida di Eura, ovvero la mancanza di rispetto e di riflessione.
Intanto, rimango in attesa di comunicati ufficiali da parte della casa editrice, se mai arriveranno.

Harry.

I Ragazzi fanno la loro parte




Il fumetto di supereroi, più che un genere in senso stretto, mi appare sempre di più come un contenitore vuoto, una cornice tematica e concettuale da riempire a piacimento. Il che da un lato, per me, significa che osservo un progressivo e intrinseco svuotamento di temi, motivi e storie, dall’altro che è potenzialmente pronto per una nuova, decisiva ristrutturazione.
Nel frattempo, alcuni autori (anglosassoni – come al solito) si divertono a deriderne i clichè in modi sempre più brutali ed estremi. È il caso di The Boys (Dynamic Forces Inc.) di Garth Ennis e del troppo sottovalutato Darick Robertson. Il concept? Un piccolo gruppo legato alla CIA (i Ragazzi del titolo) tiene sotto mira e sotto controllo i Supereroi statunitensi, primi tra tutti i Sette (versione becera e post star-system della Justice League), proseguendo per i G-Men (X-Men depravati e sfruttati per motivi di marketing) e così via.
Due esempi per comprendere il tono della serie (di cui Panini Comics ha pubblicato un volume e mezzo dei cinque usciti negli USA, il mezzo dei quali a un prezzo semplicemente sbagliato): una nuova ragazza, in stile Supergirl, si unisce ai Sette. Lei, tutta casa e chiesa, scoprirà che il primo pegno da pagare è una sodomizzazione di gruppo. Si sarebbe ripresa, ma avrebbe anche iniziato a capire che le cose non sono come appaiono all’opinione pubblica.
11 settembre 2001. Un aereo militare distrugge uno dei voli di linea che si stanno dirigendo sulle Torri Gemelle. È pronto per abbattere il secondo quando viene improvvisamente fermato: se ne sarebbero occupati i Sette. Purtroppo, si tratta della prima, vera missione operativa del genere, e avrebbero fatto un vero macello. L’aereo si schianta sul ponte di Brooklyn, uno dei Sette muore. La stampa avrebbe insabbiato tutto. La storia non sarebbe più stata la stessa.


"Facciamo la nostra parte. Qual è la tua scusa?" (c) Garth Ennis e Darick Robertson


I temi della serie sono questi. Puro revisionismo in stile Ennis. Ma la superficie nasconde molto di più. Perché Ennis ha già dimostrato in parecchie occasioni di saper narrare con sensibilità e con un’intelligenza spiccata. La politica e il complottismo sono il suo pane quotidiano. The Boys diventa infatti una perfetta metafora della nostra attualità, di una politica governativa (degli USA) ed estera senza scrupoli, di una perdita senza speranze di punti di riferimento e di valori. Tutto, in The Boys, è diverso da come appare. Ed Ennis sa divertirsi (i Super sono star, annebbiati da rabbia, soldi, sballo, sesso) ma sa anche essere intimo e arrivare al cuore del lettore (una storia d’amore impossibile, la sparizione di alcuni bambini). Perché Ennis sa cambiare registro, senza perdere compattezza e coerenza. Una capacità che tra gli sceneggiatori è assai rara, negli Stati Uniti e, soprattutto, in Italia.



Se funziona The Boys, evoluzione estrema del punto di vista di Rick Veitch, mi chiedo, è perché il fumetto di supereroi è già morto del tutto, o perché ha ancora delle straordinarie scintille di vita?

Harry.


lunedì 3 agosto 2009

Eura (non)Editoriale (2) - si taglia!

la copertina del numero (inaspettatamente) conclusivo di John Doe.


Ho recentemente parlato del mio amore/odio per la politica di Eura Editoriale.
Tra le considerazioni di alcune persone che sono intervenute, c’era quella che se Eura ha per anni portato avanti quel tipo di approccio è perché, in fondo, di lettori in più non ne avevano poi così bisogno. Che forse, i “distratti” lettori italiani sono poco interessati a vedere un fumetto stampato bene, a vedere copertine più moderne, a sapere quali sono gli autori del fumetto che stanno apprezzando (e magari cercarne altri dello stesso autore per lo stesso editore), che i fumetti li avrebbero comunque comprati, sempre e senza discussioni. Insomma, sembrava che per Eura fosse sufficiente stampare fumetti, come si produce carta igienica, e le cose sarebbero andate bene.
Un ragionamento che reputo suicida. Perché tutti, anche Eura, hanno bisogno di sinergie interne per valorizzare i propri prodotti, per far conoscere il valore (anche culturale) delle proprie pubblicazioni. Perché i lettori oggi sono gli stessi consumatori che hanno sviluppato (spesso loro malgrado) uno sguardo, una sensibilità cool, pop, patinata, o come diavolo vogliamo chiamarla.
Quanti lettori allontana quella testata Dago Ristampa, scritta così come si faceva anni e anni fa, all’interno di una cornice e di una copertina da dinosauro? Quanti ne scarta a priori, per “(anti)gusto”, per snobismo quello stupido effetto grafico di photoshop su I giganti dell’avventura?
Vengo al punto. È notizia che apprendo dalla rete che John Doe e Martin Hel chiudono a breve, brevissimo, quasi senza preavviso, salvo smentite dell’editore. Sembra, all’interno di un progetto editoriale nuovo, che mette da parte storia e persone – Filippo Ciolfi, storico e anziano patron Eura, si ritira? – per non si sa ancora bene che cosa.
Intanto, nascono alcuni timori in merito al futuro di un patrimonio fumettistico inestimabile. Non voglio essere pessimista, è possibile che la fase di transizione porti a quei miglioramenti di cui accennavo e che sono convinto farebbero molto bene a Eura. Eppure, la velocità del cambiamento in atto lascia perplessi. Perché, di nuovo, si mina alla base la fiducia di migliaia di lettori.
A proposito della chiusura di Trigger, più di una persona ha detto che i conti in tasca a un editore è impossibile farli. Solo chi ci mette i soldi può decidere e valutare. Come se di un numero e di un risultato commerciale fosse possibile dare un’unica lettura.
È naturale, le scelte ultime spettano sempre a chi guida all’interno di una casa editrice. Ma al pubblico e alla critica spetta altrettanto legittimamente la libertà di valutare tali scelte e metterle in discussione. Soprattutto laddove appare (quasi) evidente che certe scelte, oltre ai numeri, nascondano ben altro. Insomma, il punto di vista è importante.
Anche in questo caso. Sembra infatti che i numeri che hanno tenuto in vita John Doe per ben 75 numeri non siano più adeguati a proseguire, malgrado i risultati non siano mutati affatto (a detta di Recchioni). O per 75 mesi Eura ha realizzato un prodotto costantemente in perdita, oppure qualcosa davvero non torna. Soprattutto alla luce della velocità con la quale si procede al taglio della serie (che si aggiunge, lo ricordo, a Martin Hel e a Unità Speciale).
Harry.

Fragole, cavalli e sessualità

disegno di Aurelia Aurita


Leggo in parallelo due fumetti: Fragola e cioccolato di Aurelia Aurita e il secondo volume di Hanzo, la via dell’assassino di Kazuo Koike e Goseki Kojima.
Apparentemente non hanno nulla in comune. Il primo uno “sfogo” appassionato sul rapporto affettivo e amoroso dell’autrice con un noto autore di fumetti francese, Frederic Boilet (lui, francese di nascita, viveva in Giappone, lei giapponese di origini, viveva in Francia. Da far girare la testa, solo il cielo sa come si sono incontrati!), ricco di particolari sessuali esposti con ironia e dolcezza. Il secondo un racconto di ampio respiro, ambientato all’epoca del Giappone Feudale, arricchito da riferimenti storici, filosofia zen, scontri all’ultimo sangue. Nella mia mente li unisce un filo rosso sul quale torno a riflettere: il rapporto con la proprio sessualità nel periodo della crescita, in quella fase che separa (o collega) l’adolescenza all’età adulta.

In Hanzo, gli autori sono straordinari nel toccare anche gli argomenti più diretti con un linguaggio (verbale e visivo) che non dà adito a voyeurismi inutili (oggi alla base della maggior parte dei manga pubblicati in Italia, purtroppo) e che sono in grado di parlare a tutti noi, pur all’interno della metafora volutamente esotica e iconica del tempo passato, in quel periodo oscuro ed evocativo che era il Giappone feudale. I due protagonisti del fumetto, Togugawa Ieyasu e Hattori Hanzo, hanno la stessa età e sono legati da un doppio condizionamento: il primo è un ragazzo ricco e potente, ma tenuto prigioniero per un gioco di ricatti politici; il secondo è il suo guardiano, per scelta di padre, prima segreto e nascosto agli occhi di tutti, poi esposto, samurai riconosciuto e visibile. Crescono insieme, affrontando le stesse fasi di vita, ma da punti vista completamente diversi, eppure simbiotici, eppure omogenei. Entrambi perdono la verginità a breve distanza l’uno dall’altro. Il giovane samurai è costretto a farlo dal suo signore perché quest’ultimo vuole vedere come si fa, prima di prendere moglie. In atto violento, nasce un amore che non può durare, in atto violento perché imposto e senza amore, nasce il matrimonio senza soddisfazioni di Ieyasu.
In uno dei momenti più efficaci del secondo volume, per ragioni che non spiego Ieyasu chiede a Hanzo di scoprire le modalità con le quali un altro giovane del palazzo si dà all’amore, compresi tutti i particolari del caso: posizioni e dimensioni del pene. Le risposte non piaceranno molto ai due protagonisti, nella loro rivelazione e nel loro non detto (le dimensioni di un cavallo, a proposito del pene).
Lo sguardo diretto ma non pornografico dei due autori è terribilmente vicino per quanto culturalmente e narrativamente estraneo, a quello di Aurita in Fragola e cioccolato, per quanto l'accostamento sia improprio e soggettivo.
Detto che la fragola e il cioccolato del titolo stanno per, in ordine, mestruazioni e feci, è facile comprendere quale sia il livello di “rischio” nel quale l’autrice può incorrere. La sua abilità, in questo senso, sta nella capacità di ricordare e rappresentare la propria sessualità con dolce ingenuità, con un pizzico malcelato di orgoglio ed esibizionismo, con molto affetto (il punto debole è l’autocompiacimento, l’eccessiva frammentarietà delle storie, un vago condizionamento maschilista di ritorno che appare in alcune scelte o sensazioni dell’autrice).
Se Hanzo, per le sue caratteristiche e per gli anni in cui è stato scritto (metà anni ’80) rappresenta senza dubbio una forma nuova, originale e potente, Fragola e cioccolato è un prodotto per certi versi tipico di questo tempo, esemplificativo di una cultura abituata, via internet e non solo, all’auto-esposizione e a un’innocente esibizionismo senza censure, alla velocità di lettura e all’assenza di approfondimento. Ma ha anch’esso elementi originali e rari. Innanzitutto perché a narrare è una donna, forse, una donna che racconta per le donne, prima che per gli uomini, una scelta che è di per sé anti-pornografica, per certi versi. In secondo luogo perché la leggerezza a tratti superficiale e ingenua dell’autrice è il meccanismo con il quale le riesce di interpretare e condividere quell’infinita affettività che sente muoverle il cuore e gli appetiti.

Dall’accostamento emerge un confronto tra sessualità in epoche diverse che non è certo banale, né facile. Fragola e cioccolato è pura libertà e abbandono, è incontro casuale e fortuito (e fortunato), è scelta e intimità. In Hanzo, la sessualità e l’intimità sono strumenti, o meglio parti condizionate di rapporti e relazioni sempre strumentali, sempre indebite, sempre debitrici. Non c’è libertà, se non nell’etica, nella ritualità e nella dedizione. Eppure, malgrado le due diverse, antitetiche dinamiche relazionali (e sessuali) si manifestano modalità e bisogni comuni, dove le incertezze sono sempre presenti, come l’ambivalenza tra il controllo e il perdersi, la convivenza di potere e amore, il piacere della scoperta e l’ombra dell’ignoto.
Nel confronto tra epoche e costumi c’è la possibilità di riscoprire le costanti che rimangono nel tempo e osservare i mutamenti, anche rivoluzionari, che caratterizzano l’umanità. Senza dimenticare che non sempre evoluzione culturale è sinonimo di miglioramento tout court (ché la presunta libertà di Fragola e cioccolato nasconde senza dubbio alcune trappole e insidie), e che ci sono culture e popolazioni che a certi riti, usanze, costumi sociali e politici non hanno ancora rinunciato.

Harry.


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