lunedì 31 maggio 2010

Automatismi

 (c) daniel clowes


Sembra che le persone non sappiano cogliere la differenza tra l'ironia e il nascondino, tra il gioco meta-comunicativo e l'assunzione di responsabilità.
Ed è sempre difficile valutare le considerazioni in relazione a quanto viene chiaramente espresso con le parole. Meglio procedere per analisi di supposte intenzioni (e in quanto supposte se le mettano nel culo. Il gioco di parole è di Caparezza, non mio).
Tutto questo mi rattrista un po', e mi fa pensare che le persone dimenticano il valore del confronto diretto sui temi e sugli argomenti. Argomentare è difficile per tutti.
Meglio tifare.
E in questo modo, delegittimare.
Ah, e questo blog ha aperto da circa un anno, ormai. Evviva!

Harry.

domenica 30 maggio 2010

Cloni, multiversi, drammi e ... ma che cavolo!

(c) erik larsen


Scusami.
Non posto da qualche giorno. Sono impegnato.
Sto leggendo l'ultimo anno di pubblicazioni di Savage Dragon, dove accade di tutto.
Ed Erik Larsen mi ricorda perché lo seguo da vent'anni. E perché avrei dovuto smettere dopo il primo numero!

In ogni caso, stai attento: Savage Dragon, l'originale, è un terribile imperatore, cade sulla Terra, in fiamme, perde la memoria, diventa un buono. E oggi, oggi tutto si capovolge. Perde la memoria degli ultimi 17 anni, e torna l'imperatore cattivo. Funziona come riassunto? Ti ho rovinato qualcosa? Non preoccuparti. Leggi il fumetto, non ci capirai nulla lo stesso, e lo amerai alla follia. Lo stesso.
Perché siamo all'estrema sintesi e fusione del concetto di eroe e anti-eroe in un'unica incarnazione.

Harry

lunedì 17 maggio 2010

Premio Micheluzzi 4

Concludo le mie riflessioni sul Premio Micheluzzi dell'ultima Napoli Comicon.
Inizio.
Prima parte.
Seconda parte.

Politica e gusti

Uno sguardo complessivo alle scelte della giuria porta necessariamente a una considerazione ovvia quanto fastidiosa: i premi sono distribuiti in modo equo, quasi geometrico, tra i diversi editori. La distribuzione politically correct porta con sé necessariamente il dubbio già espresso che non vi sia, in questo premio, alcun valore culturale e critico, ma che sia legato alla necessità più o meno consapevole di accontentare tanti, se non tutti. Il premio sarebbe quindi uno strumento per costruire consenso intorno alla convention, sotto molteplici punti di vista, e non il culmine di una riflessione sul fumetto, come già detto. In questo, non intendo dire che vi sia una premeditazione, ma un condizionamento implicito, che si esprime più o meno in questo modo: non abbiamo ancora premiato Panini, per cui il premio a Pluto non possiamo negarlo (Pluto solo a titolo di esempio). Per chi fa classifiche o decide premi si tratta di un meccanismo noto e molto insidioso, che può essere disinnescato solo a fronte di un chiaro pensiero alla base delle scelte.
Anche perché, al contrario, l’eventuale condensazione di premi verso una casa editrice o l’esclusione di altre particolarmente rilevanti (sotto il profilo economico-“politico”) potrebbe rilevarsi ancor più un’arma a doppio taglio. La normalizzazione implica la diffusione dei rischi e delle responsabilità.
Anche se l’assenza, per esempio, di Planeta De Agostini tra i vincitori offrirebbe alcune considerazioni, in questo senso.
Ma le dietrologie, si sa, sono figlie di ogni scelta. E questa considerazione non vuole essere un’accusa di malafede, ma dell’assenza di criteri espliciti o condivisibili che hanno determinato la scelta delle nomination prima, e dei vincitori dopo, mancanza che mostra il fianco a qualunque possibile valutazione di merito. E in senso stretto, l’impossibilità di comprendere al di fuori della sola banale ovvietà che “è questione di gusti”.
È possibile andare oltre l’autarchia delle valutazioni di gusto, nella definizione di una classifica o nella scelta di opere e autori da premiare? Dovrebbe essere una necessità e un valore da perseguire che trovo del tutto assente dall’impostazione del Premio Micheluzzi.

Esemplificativo

In conclusione, detto per inciso che ci sono modi peggiori di premiare (in altri medium, il Festival di Sanremo lottizzato dalle etichette discografiche; il Premio Strega predeterminato dagli editori, come suggerito dal collettivo Luther Blisset nel 1999 “abbiamo consigliato di comprarci il quarto posto”), mi preme evidenziare che l’esempio del Premio Micheluzzi è solo occasione per mettere in risalto una debolezza cronica della cultura sul fumetto in Italia: l’incapacità di molti operatori e addetti ai lavori di sviluppare progettualità organiche sotto tutti i punti di vista.
Quale utilità culturale, sociale ed economica (intesa in relazione alla produzione e allo sviluppo economico del settore fumetto) hanno questi premi? Quale impegno, programmazione e attenzione vengono investiti in queste iniziative? Forse, potrebbe essere utile modificare la posizione dei premi nella scaletta delle priorità di una manifestazione, trasformandoli in elementi centrali dello sviluppo organico di un modo di ragionare sul fumetto, un’opportunità strategica e dalla buona visibilità per caratterizzare fortemente una manifestazione. Perché in realtà un premio potrebbe rappresentare l’opportunità per osservare il fumetto da un punto di vista privilegiato (ma che deve essere esplicitato adeguatamente), per tastarne il polso e comprenderne lo stato di salute. Potrebbe diventare occasione di confronto e motivo di reale investimento di idee e, perché no, economico.
Al contrario, si assecondano solo un’idea di festival derivativa e l’innato bisogno umano (e decisamente italiano) di competere per la gloria e decretare vincitori, un bisogno che spesso diviene aberrazione quando si ha a che fare con i prodotti culturali, che per loro natura non sono facilmente inquadrabili in categorie valoriali e di merito esplicite e univoche.
C’è molta strada da fare, quindi, che richiede un lavoro concettuale e organizzativo decisamente superiore, un salto che sarebbe segno di una nuova maturità degli addetti ai lavori.

Harry

sabato 15 maggio 2010

Ex Machina


Cito a memoria dal sesto volume di Ex Machina di Vaughan e Harris.

Devi stare attento alla più grande minaccia che ti attaccherà.
E quale sarebbe?
L'immigrazione!

Ironia e satira in un colpo solo, senza dimenticare i cliché del genere e una vivacità del racconto eccezionale.
Non perdertelo.

Harry

(la mia memoria fa schifo, ma il concetto è quello)

Premio Micheluzzi 3

Proseguono le mie riflessioni sul Premio Micheluzzi dell'ultima Napoli Comicon.
Inizio.
Prima parte.
 

I vincitori

Per non annoiare me stesso e te, caro lettore, non prenderò una per una le opere premiate o escluse per discutere in modo analitico ogni scelta. Cercherò solo di suggerire alcune riflessioni, partendo dal gruppo che ha effettuato la selezione.
La giuria è composta da professionisti molto diversi tra loro. Solo Gomboli è integrato al mondo fumetto. Gli altri si potrebbero definire esperti di “scrittura” e di “forme espressive” in senso generico, appassionati di fumetti, frequentatori assidui delle nuvolette, o quel che si vuole. Manca quindi quasi totalmente un giudizio tecnico, così come mancano rappresentanti di peso della critica fumettistica italiana, a conferma del fatto che il Premio è visto come un’appendice necessaria della manifestazione Comicon, ma non è in nessun modo visto come strumento di analisi o opportunità di sviluppare un discorso, una consapevolezza nuova sul fumetto.
Credo sia per queste ragioni che è possibile trovare tra le nomination dei migliori lavori esteri il rivoluzionario Jimmy Corrigan di Ware accanto al leggero Fragola e cioccolato di Aurelia e vedere selezionato come vincitore l’estetismo superficiale e sentimentale de Il gusto del cloro di Vives.
Allo stesso modo, solo un’osservazione superficiale e poco in grado di riflettere sulla forza espressiva del fumetto può portare alla scelta di inserire nelle nomantion del miglior disegnatore Manuel Fior, quando La signorina Else andrebbe analizzata e valorizzata per la sua eccellente fusione di testo e disegno, per la sintesi che il giovane autore ha saputo creare. Insomma, una mezza scelta. Aspetto che si ripete ovviamente per la scelta del vincitore della categoria, Andrea Bruno.
Come puoi vedere, malgrado le premesse, ragionare sui vincitori mette necessariamente in discussione l’impianto complessivo del Premio e le scelte del comitato che ha definito le nomination. Solo uno sguardo poco attento potrebbe valutare La Signorina Else dal punto di vista estetico e non nel suo equilibrio espressivo di opera completa. Ma, come puoi vedere, non esiste la categoria "Miglior autore completo".

Se la scelta del miglior fumetto italiano dà spazio a un’opera forte e atipica come Morti di sonno, la scelta del miglior sceneggiatore ricade su Gabos per le ragioni (e l’opera) sbagliata. L’autore bolognese ha dalla sua una voce unica e forte, che si afferma nelle sue opere intimiste e autobiografiche, mentre in Esperanto emergono numerose difficoltà proprio sul piano della sceneggiatura. Gabos non è efficace nel sostenere la coralità dei personaggi e la dimensione sociale e di massa degli avvenimenti; il ritmo della storia è poco armonico, con pause troppo lunghe e monotone, e con accelerazioni che banalizzano la tensione drammatica; la metafora culturale, sociale e politica alla base del racconto diventa presto ridondante e autoreferenziale, al punto da risultare stucchevole. Insomma, se si dovessero valutare le qualità di sceneggiatore di Gabos da Esperanto, ne uscirebbe con le ossa rotte. Senza dire del fatto che qui accade in modo speculare quanto fatto con Fior, ovvero valutare la sceneggiatura di un autore completo, senza metterlo in relazione al lavoro sul disegno.

Come miglior serie estera viene selezionata l’opera più meccanica di Urasawa, Pluto, che finora ha solo confermato lo stile inquietante e accerchiante dell’autore, ma senza la forza delle opere precedenti. Il sospetto è che la scelta sia caduta su Pluto perché unico manga premiato (e quasi l'unico premiabile). Se non Criminal, Scalped, All-Star Superman e The Walking Dead avrebbero forse meritato di vincere. Ma anche qui, si escludono in partenza altri lavori interessanti, come per esempio Ex-Machina di Vaughan e Harris, per dire la prima che mi viene in mente.
Non sono sicuro che Pinky sia la miglior serie umoristica, ma è certo che il panorama delle produzioni “umoristiche” italiane è ai suoi minimi storici e tutti sono stanchi di premiare Rat-Man (molti anche di leggerlo). Il fumetto seriale umoristico in Italia è morto o moribondo. Inutile girarci intorno.

E poi vince Tex come miglior serie realistica. È vero, Tex è la miglior serie realistica italiana di tutti i tempi. “Realistica”? Di cosa stiamo parlando? Di stile di disegno? O del finto realismo Bonelli? O della fruibilità (realistico=facilità di lettura)? Lo so, il fumetto Bonelli è il fumetto “realistico” per antonomasia, ed è sciocco da parte mia mettere in discussione questo sillogismo. Per cui lasciamo da parte l’etichetta (che è più un fatto di linguaggio comune), perché quello che realmente conta è altro.
Tex vince per manifesta inferiorità delle altre proposte? In un territorio, quello seriale, dove Bonelli gode del quasi monopolio editoriale, la scelta su Tex, più che nostalgica, appare compiaciuta. Non c’è dubbio che il lavoro degli sceneggiatori e dei disegnatori abbia alzato di molto la qualità della serie, rendendola nuovamente leggibile e divertente, ma è altrettanto vero che siamo di fronte alle solite, infinite variazioni sul tema, a messe in scena avventurose ripetute all’infinito, dove quel che conta non è certo la sostanza ma la forma. Tex è un esercizio di stile, che può riuscire più o meno bene, ma sempre esercizio di stile resta, come apertamente mostrato da Patagonia, il Texone di Boselli e Frisenda (“naturalmente” segnalato con una menzione speciale che non so spiegarmi). O il fumetto seriale (realistico?!) è a un punto negativo di non ritorno, tale da non aver più nulla di reale(istico) da dire, oppure qui si è voluto con compiacenza premiare il successo longevo di una serie che, si, finalmente può giustificare le vendite con l’innalzamento della qualità delle storie. Quasi un miracolo, quello dell’abbinamento di qualità e vendite, con buona pace dello snobismo di qualunque critico anarchico che si rispetti. 

Harry

(continua)

venerdì 14 maggio 2010

Premio Micheluzzi 2

Come anticipato, inizio una serie di riflessioni sul Premio Micheluzzi di Napoli Comicon 2010.

Premiare cosa?
Prima di discutere delle scelte che hanno portato alla selezione dei vincitori del Premio Micheluzzi di Napoli Comicon 2010, è importante ricordare che premiare fumetti in Italia rappresenta più un atto formale che sostanziale, una (cattiva?) abitudine di ogni fiera che si rispetti. È formale perché contribuisce a sorreggere l’illusione che la manifestazione sia professionale, legittima e importante e offre ai volumi selezionati un riconoscimento “scritto in calce”, da utilizzare nelle successive presentazioni e ristampe. Ma è spesso vuoto di altri valori. Raramente stimola le vendite dei fumetti scelti, nessuno o quasi discute e dà visibilità all’ “evento premiazione”, meno ancora si connota come uno strumento funzionale alla critica, allo sviluppo cioè di un ragionamento sul medium, sulle sue evoluzioni e tendenze.
A questo si aggiunga che in più casi che non, il gruppo che seleziona i vincitori è spesso definito in modo superficiale e le scelte avvengono in modo sbrigativo. Ricordo una recente edizione di Lucca Comics nella quale il contest per i nuovi talenti avvenne in modo talmente volatile da provocare veri dubbi sulla serietà dell’iniziativa e sulla trasparenza delle scelte. È un problema spesso organizzativo, che rivela però un’approssimazione concettuale e progettuale disarmante.
Ecco, la trasparenza e il coraggio nell’effettuare le scelte sono due caratteristiche importanti, direi decisive di ogni premiazione degna di questo nome. Non credo che gli esempi italiani siano particolarmente virtuosi da questo punto di vista.
Si aggiunga, infine, che nessun premio italiano è accompagnato da un compenso economico, che potrebbe essere essenziale, vitale soprattutto per dare fiato e opportunità alle produzioni di nuovi artisti o di piccole case editrici.

Le nomination
Il comitato scientifico che ha definito le nomination per il Premio Micheluzzi ha competenze di base indiscutibili. In ognuno dei membri c’è senza dubbio una sensibilità e una conoscenza del fumetto che deriva da anni di esperienza e di frequentazione in diverse forme. Non è chiaro, anzi direi che non emerge affatto un pensiero critico dietro alla definizione del comitato e neppure dietro alle scelte delle opere finaliste. Un conto è mettere insieme un gruppo di esperti che stilano delle liste, suddivise in categorie, un conto è sviluppare un discorso analitico in merito alla selezione, che metta in luce una o più idee di fumetto, eventualmente (ma chiedo troppo) coerente con le idee di fumetto che sorreggono la manifestazione. La superficialità nell’impostazione è, in questo caso, il male comune di tutte le iniziative italiane di questo tipo.
Ciò detto, prendiamo per buone le nomination. Le opere escluse sono molte, troppe e significative per discuterle in questa sede. I raggruppamenti nelle categorie sono quanto meno dubbi. Ma è pur vero che, in generale, la selezione è interessante e rappresentativa di quanto uscito nell’ultimo anno (anche se, come leggerai presto, tale selezione mostra il fianco ed è in parte origine delle cattive scelte della giuria).



Harry

(continua domani con l'analisi dei vincitori)

giovedì 13 maggio 2010

Surrogati

 una finta reclame dei surrogati


Alcune idee possono andare lontano.
Quando l'autore statunitense Robert Venditti ha creato i Surrogati ha colto nel segno.
In due parole, un Surrogato è un robot che, collegato in remoto con una persona, la sostituisce nella vita di tutti i giorni. La cura nella verosimiglianza di una tale invenzione, in particolar modo sul piano delle ricadute sociali, culturali e politiche è l’elemento più apprezzabile della storia.

Nel fumetto statunitense, la ricerca di un concept originale ed efficace è il cardine che regge le sorti di molte storie. Per almeno due ragioni: la vendibilità dell’idea ad altri media, in particolar modo il cinema (e infatti da The Surrogates è stato tratto un film di successo); la vicinanza con l’impostazione concettuale delle serie televisive, alle quali i comics di questo tipo sembrano maggiormente accostarsi.
Nello specifico, l’idea fantascientifica alla base dei Surrogati non è poi così originale, perché i temi dell’immortalità, della robotica nella vita quotidiana, delle vite alternative e virtuali, sono tutti stati usati e abusati. Ma Venditti ha mostrato una buona sensibilità, nel sintetizzare queste sollecitazioni in una storia semplice, lineare e coinvolgente.

Anche se non tutto funziona, in The Surrogates.
La trama della storia non è particolarmente originale (una sorta di Legal Thriller fantscientifico) ed è condotta con alcuni salti in avanti fin troppo sbrigativi, quasi lo sceneggiatore avesse fretta di arrivare a una conclusione. L’effetto è quello di aver perso qua e là alcuni episodi, se non di leggere un riassunto degli avvenimenti. Colpa dell’inesperienza? Colpa della voglia di buttare velocemente nell’arena fumettistica il proprio forte concept, e di ricavarne il prima possibile i frutti? O una semplice necessità legata al budget di partenza della Top Shelf Productions, che per prudenza non ha voluto investire per più di 5 uscite mensili (che è il numero degli albetti mensili che compongono la miniserie originale)?

Poi i disegni. Per certo fumetto statunitense “indipendente” lo stile di Brett Weldele è un perfetto marchio di fabbrica. È caratteristico, per esempio, delle produzioni della IDW Publishing, con i vari Ben Templesmith e Ashley Wood. La tavola finita è il risultato di un lavoro in più fasi che parte da un semplice disegno a matita, poi digitalizzato, e rilavorato con effetto pittorico in Photoshop. Weldele è senza dubbio padrone dello stile, ma non sempre la colorazione cupa ed espressionista e il tratto poco curato rendono giustizia alla storia. Non parlo della necessità di maggior realismo, quanto di una più attenta riflessione sull’uso di questo stesso stile nei diversi passaggi della storia. Per contrasto, la velocità esecutiva del citato Templesmith nella serie Fell scritta da Warren Ellis mostra una capacità narrativa molto più evoluta e matura. Ma Templesmith è un fuoriclasse.

D’altra parte, sono convinto che l’idea dei Surrogati possa avere significativi sviluppi con nuove storie. È stato pubblicato un prequel, una storia che si pone prima dell’inizio della miniserie iniziale, che non ho ancora letto. Sarà interessante vedere se Venditti sarà all’altezza della sua stessa idea e del successo a cui ha velocemente dato seguito.
Certo è che il fumetto statunitense mostra un movimento editoriale molto interessante, in quel limitare indefinito tra mainstream e indipendent, dove case editrici come Top Shelf Productions, da sempre più vicina a generi narrativi più intimisti e “autoriali” (suo il grande successo di Blankets, per esempio, così come la pubblicazione di autori quali Jeffrey Brown e James Kochalka), sono capaci di dar forma a veri e propri exploit editoriali inattesi, segno di un’apertura mentale non da poco. E segno anche che, per un verso o per l’altro, il pubblico statunitense risponde ancora oggi positivamente a proposte intelligenti e ben caratterizzate. Forse, non è possibile dire altrettanto del pubblico italiano, anche se non mi è dato sapere quale successo abbia riscontrato la pubblicazione da parte di Rizzoli/Lizard dell’edizione italiana dei due volmi di Venditti e Wendele.

Harry

mercoledì 12 maggio 2010

Punto di rottura



Come sai, ho a più riprese parlato di Caravan, la miniserie Bonelli ideata e sceneggiata da Michele Medda che giunge nel mese di maggio alla sua conclusione. Ne ho parlato bene, ne ho parlato criticamente.
Sono convinto si tratti di un esperimento importante ma non riuscito. Un fallimento? Direi di no. Un passaggio interlocutorio, forse, sia per la casa editrice che per il percorso professionale dell’autore.
Prima di tornare a parlarne in relazione alla sua conclusione, che svela tutti i misteri, mi preme però evidenziare un fatto certo. Nei dodici numeri che compongono la miniserie, Caravan ha goduto di alcune storie singole eccellenti. E questo dovrebbe bastare. Non può, ma dovrebbe.
Di fatto, il pretesto catastrofico che ne regge le sorti – in modo traballante – è stato ben sfruttato da Medda in alcune occasioni. Una delle migliori è stata senza dubbio Punto di rottura, il numero 10.
Osservando da vicino, dimenticando l’arrivo, lasciandosi guidare per una volta con fiducia dagli autori (con Medda c’è un Emiliano Mammucari sempre più bravo), Punto di rottura è un ottimo esempio di narrazione “popolare sofisticata”. Uso questi due termini accostati con leggerezza, senza pensarci troppo. Intendo qualcosa che ha a che fare con la chiarezza, la linearità, la semplicità da un lato; la riflessione, la consapevolezza dei mezzi, la profondità delle emozioni evocate, la volontà di non farsi ingarbugliare dai compromessi, la cura dei dettagli dall’altro.
È in questo strano equilibrio che Medda esce vincitore, se non in altri. Un equilibrio che è sinonimo di intelligenza, di responsabilità narrativa e di passione.
Punto di rottura è caratterizzato da continui cambi di scena e di registro. La tragedia si intreccia con la comicità, il (melo)dramma con l’azione (o meglio, la tensione per l’azione drammatica in movimento). Mammucari punteggia questi passaggi molto abilmente, inserendo nelle pieghe del suo stile realistico alcune brevi sequenze cartoonesche, a supporto dei racconti umoristici di un comico della carovana. Il gioco funziona talmente bene che il momento più commuovente e riuscito è proprio il finale, quando l’ennesima storiella si trasforma in “parabola” sui disegni cartoon di Mammucari che qui, più che umoristici, appaiono colorati dei ricordi dell’infanzia. Il segno che è simbolo diviene pienamente sinergico con il messaggio che si vuole comunicare.
Punto di rottura è davvero un punto di non ritorno per la serie, sul piano dell’intreccio, ma è anche una piccola boa, un segnale di come il fumetto Bonelli possa muoversi e, ancora, di quali vette narrative Caravan ha offerto.
Ti auguro di leggerla, questa storia, e di non farti soffocare dal (pre)giudizio per un finale che arriva. Malgrado la mia segnalazione sia fuori tempo massimo.

Harry

Galleggiare



Lo ammetto, sono un detrattore di Pasquale Ruju. Non mi piace la sua sensibilità, non mi piace il suo approccio alle storie. Non ho mai letto una sua storia convincente e mi ha sempre colpito la sua centralità nella redazione Bonelli. Credo dipenda dalla sua “normalità” di professionista serio e modesto, da galleggiamento. È di questo galleggiamento, dopotutto, che vive Dylan Dog. Di questo, muore mese dopo mese.
Demian, la prima miniserie ideata da Ruju, era interessante nelle premesse (o quanto meno nell’immaginario di riferimento, quello dell’indimenticato Jean-Claude Izzo) ma fallimentare nella realizzazione, per quanto, da quel che so, abbia goduto di un buon successo di pubblico, se è vero che a breve uscirà il primo speciale e se a Ruju è stata subito data fiducia per una seconda miniserie.
Non voglio giudicare i gusti dei lettori, non voglie dissentire o discutere delle scelte di redazione o della serietà di un professionista. Certo è che di professionisti come Ruju il fumetto seriale italiano e non è pieno, ma se il fumetto seriale avesse vissuto solo di galleggiamenti, saremmo ancorati a modi di concepire il fumetto molto diversi da quelli di oggi (so che più di un lettore di questo blog sta pensando che, sì, in effetti il fumetto Bonelli è piuttosto fermo).

Fatta questa premessa, e tenuto conto della promessa che ho fatto a me stesso qualche tempo fa, è un mistero il motivo per cui ho acquistato e letto il primo numero di Cassidy, la nuova miniserie in 18 numeri di Ruju. È un mistero che si risolve in quattro mosse: il mio antico amore per l’hard-boiled; la rarità di questo genere nelle proposte Bonelli; la generale curiosità per le scelte dell’editore milanese e per capire come si muovono le acque del principale attore del fumetto seriale realista; il prezzo di copertina.
Ammetto che il primo numero di Cassidy è meglio di quello che mi aspettavo, perché quanto meno non vi trovo le ricorrenti cadute di tensione e la superficialità nello sviluppo dell’intreccio che caratterizzano spesso le sceneggiature di Ruju e perché la storia, ben disegnata da Maurizio Di Vincenzo, ha un buon ritmo e una chiarezza di intenti ammirevole (caratteristiche che mancavano a Demian). Ciò detto, non c’è il minimo sospetto di originalità in questa storia, né nella conduzione né nelle tematiche. E non c’è autenticità nelle emozioni. È l’ennesima prova professionale e senza cuore di casa Bonelli. E questo è troppo e molto meno di quanto si può volere.
Ma non disperiamo, siamo solo al numero uno.

Harry

martedì 11 maggio 2010

Premio Micheluzzi 1

(c) otto gabos


Sarò breve.
I riconoscimenti del Premio Micheluzzi dati alla Comicon 2010 di Napoli sono quanto di più imperfetto ci possa essere.
Sono scelte brutte, inaccurate e sterili. Sterili nel senso che non offrono nulla al fumetto, come medium, e in quanto segnale di qualcosa che è fermo, stilisticamente e concettualmente.

Sono pigro, e non ho tempo di cercare in rete altri commenti. Ma mi sembra, così, d'istinto, che un commento lo meriterebbe, questa premiazione.
Per cui, in un paio di giorni ci torno su, spiegando cosa non mi convince.
Nel frattempo, sarei grato se qualcuno rispondesse a questo post indicandomi eventuali altri commenti sulla premiazione (e non sulla Comicon in generale).
Grazie.

Harry.

sabato 8 maggio 2010

Piccola Lulu



In questa primavera continua a piovere. C'è bisogno di consolazione e calore.
E per quel che mi riguarda, Little Lulu di John Stanley e Irving Tripp svolge perfettamente quel servizio. La piccola Lulu è uno di quei fumetti da tenere sempre sotto mano. Non se ne parla spesso in Italia, non è quasi mai citato tra i capolavori umoristici della seconda metà del secolo scorso, insieme a Peanuts, ai paperi di Barks e compagnia.


Eppure Littlu Lulu ha un'intelligenza nel tratto e nella costruzione delle tavole che sorprende per la sua semplice linearità e vivacità. Il passo, dimesso e irriverente, di quei personaggi, le espressioni understatement, il cinismo dolce dell'infanzia, fanno dei comics di Stanley (e Tripp) un vero esempio di creatività al servizio della produzione seriale.
Negli Stati Uniti, la Dark Horse pubblica il primo Giant Size, che raccoglie più di 600 pagine di storie, le prime, in ordine cronologico, dello storico comic book. Per tutti, un'occasione imperdibile per scoprire Lulu.
Sperando in una prossima pubblicazione italiana.

Harry



Tutti i testi di questo blog sono (c) di Harry Naybors, salvo dove diversamente indicato.
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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.