giovedì 29 ottobre 2009

Che senso ha?

Leggo oggi dal blog di Tito Faraci questo commento a questo mio post.
Riporto:
"Che senso ha una "recensione" (virgolette d'obbligo) come QUESTA? Che cosa ci racconta? Che cosa ci spiega? Ha un'utilità? È, almeno, divertente? È una provocazione - se lo è - che smuove qualcosa? Qualcosa di importante, intendo..."

A seguire Tito spiega che questo mio commento è esemplificativo di un certo modo (sbagliato) di parlare di fumetti on-line.
Mi suona strano questo commento. Tito è persona acuta. Qui c'è un tranello? Perché credo sia evidente che quel mio commento al nuovo lavoro di Serra è solo un gioco. Forse ingenuo. Era un'apertura, un'idea in merito all'attesa. Alla inevitabile separazione temporale tra la produzione di un fumetto e la sua lettura. Credo che la frase che chiude il mio post abbia abbagliato, come luce del sole riflesso. Non era un giudizio negativo, eppure è stato letto come tale.
Era una recensione? No. Chi mi legge lo sa, che raramente scrivo "recensioni" (virgolette d'obbligo). E se lo faccio, non sono di una riga.
E ancora, non credo che il commento possa essere esemplificativo di alcunché, se non del fatto che la rete, i blog e i luoghi virtuali di incontro e di opinioni possono essere anche poco seri, quando si vuole. L'importante è la consapevolezza. La gravità è un commento poco serio che si vuole sia serio. Ma il gioco, ahimé, è troppo raro in questo mondo che gira intorno al fumetto.
A Tito e a chi mi legge chiederei, da dove viene tutta questa necessità di prendersi così sul serio, nel mondo del fumetto?

Mi viene in mente quel gruppo di persone che, dopo aver commentato per anni e malamente il modo di fare giornalismo (g maiuscola? non scherziamo) della critica italiana di fumetti, decide di aprire un proprio sito e di dare una lezione. Ed eccoci, al trabocchetto dell'ego: riprodurre specularmente, ovvero attraverso lo specchio, tutti gli errori che deprecavano, senza la minima disponibilità all'autoironia e alla discussione. Per cui, autoreferenzialità, pretestuosità, superficialità, aggressività gratuita, incapacità di offrire un punto di vista vitale sul fumetto, ecc.
Leggetelo, e vi convincerete come me che a questo fumetto d'autore è preferibile il fumetto popolare.

Harry.

All'altezza di Lucca Comics

Arriva Lucca Comics & Games e tutto si ferma, il fiato sospeso.
Molti faranno quadrare i propri bilanci grazie alla fiera (al festival).
Le iniziative culturali ci sono, ma avranno consistenza?
O saranno come sempre poco (in)visibili?

Io a Lucca ovviamente non ci sarò. Sono dall'altra parte dell'oceano, ed è proibitivo arrivarci.
Ma il mio caro amico Guglielmo ci andrà, e spero mi racconti aneddoti e situazioni e incontri.
Un pensiero: essere all'altezza di Lucca Comics...
Nel resto dell'anno, il mercato fumettistico e i suoi appassionati raramente lo sono. Lucca come anomalia, non come regola.
Fa riflettere.

Harry.

giovedì 22 ottobre 2009

Sporchiamo il fumetto di reale


Prima di tornare a parlare di cose futili, apro una nuova parentesi; mi piace divagare – chiusa parentesi (come nei blues di Jimi Hendrix dove la sua chitarra improvvisa per divagazioni che si sa quando iniziano ma non quando terminano).
Ho parlato della necessità di intellettuali, della necessità che i fumetti parlino dell’oggi, che facciano opinione e cultura, della necessità che i fumettisti incontrino il mondo fuori, gli intellettuali altri, quelli che, ancor poco, contano. Qualcosa succede, è successo.
A Milano in questi giorni (da ieri a domenica) apre le porte un nuovo festival, Streep, che sembra anch’esso una divagazione: una parentesi prima della grande mostra-mercato di Lucca (che cambia nome in festival, una sciccheria, diventa europea, ma non cambia pelle, per fortuna); una parentesi nell’anonimato e nell’invisibilità della scena culturale e fumettistica milanese.
A inizio ottobre, poi, c’è stata una festa (non un festival) di Internazionale a Ferrara, dove il fumetto, anche lì, si è aperto all’altro, si è fatto conoscere.
La matrice comune sembra essere il comics journalism, di cui è più facile tracciare un’evoluzione (non una storia) che una definizione, come ci hanno mostrato Stefanelli e Interdonato sul primo volume di Doonsbury, l’Integrale. Il giornalismo a fumetti, in questi anni di crisi mondiale del giornalismo, dove si colloca? Cosa rappresenta? In quale relazione con il reale? È questo il fumetto che parla dell’oggi di cui rivendico l’assenza, ma che vedo come una delle più grandi potenzialità della nona arte?
Se nel comics journalism si nasconde Gipi, insieme a Spiegelman, insieme a Parisi, insieme a Munoz, insieme a Chapatte e a Sacco… mi chiedo cosa differenzia l’autobiografia, dalla testimonianza, dall’inchiesta, dal racconto storico-biografico, dalla verosimiglianza, …?
Non confondetevi. Pensate al termine comics journalism, così come lo sentiamo in questi giorni, come a un grosso contenitore, un’etichetta che contiene più di quanto esclude. Bene, pensiamo per canoni inversi e lasciamoci sorprendere, da Deaglio che intervista Spiegelman (era ieri sera), da Robecchi che intervista Gipi, dagli incontri, dal fumetto (senza eccezioni, senza etichette) che incontra il reale. Da qui possiamo partire, per arricchire di contenuti il contenitore di cui sopra, e scoprire, pian piano, nel tempo, che il giornalismo a fumetti è forse più un mezzo dialettico che una definizione, un veicolo. Perché Parisi che disegna il jazz di Coltrane non è giornalismo, come non lo è il suo libro, se non fosse che, guarda caso, la musica di Coltrane ha avuto (ha?) una portata culturale, politica, sociale, esistenziale, esoterica, … che si rinnova continuamente, in ogni rielaborazione e rievocazione. Almeno quanto la voce inconfondibile e provocatoria del “complice” Ornette Coleman, che ancora oggi, grazie al cielo, suona e produce (music journalism). Una testimonianza.
Sporchiamo il fumetto di reale.
Solo l’inizio?

Harry


lunedì 19 ottobre 2009

Supereroi e strisce - intro

pussey (c) daniel clowes


Mi ritrovo a leggere a breve distanza uno dall'altra il fumetto Pussey di Daniel Clowes (Fantagraphics Books) e la raccolta completa di Sam's Strip di Mort Wolker e Jerry Dumas (Fantagraphics Books).
Il primo è una finzione autobiografica nella quale Dan Clowes immagina di essere Dan Pussey, l'ultima delle star del disegno agli inizi degli anni '90, quelli della specupazione sui supereroi, quelli in cui si vendevano milioni di copie dei numeri uno di una nuova serie. Sotto l'ombra onnipresente di Mr. Infinity, splendida parodia del sorridente Stan "The Man" Lee, le stelle nascono e muoiono in un giorno. Clowes rappresenta il lato più deprimente e sconcertante del mercato fumettistico USA, con una certezza: i supereroi non cresceranno mai.
Sam's Strip è il capolavoro comico e meta-fumettistico di Wolker e Dumas, pubblicato a fine anni '60. Si configura come una folle esplorazione dei codici e dei mondi dei fumetti a strisce, lanciandoci una chiarissima provocazione: le strisce sono il formato che permette la maggior libertà espressiva nel fumetto.

A conclusione di questa introduzione, quindi, vi do appuntamento al prossimo intervento, che potremmo riassumere con: l'omologazione dei supereroi vs. la libertà delle strisce.

martedì 13 ottobre 2009

Grandi progetti



Chissà, immagiono Antonio Serra in febbrile attesa dei riscontri sul suo Greystorm, mentre incrocia le dita sui risultati di vendita, che arriveranno solo più avanti.
Immagino un autore come lui che ha voglia di giocare con il fumetto in modo... "antico" o "tradizionale" o "..." (la parola che preferite), che attende sapendo che i giochi sono ormai fatti, che le sceneggiatura sono in mano ai disegnatori, che la maggior parte di essi è già in fase avanzata di lavorazione. Forse, quando il verdetto dei lettori al termine della miniserie sarà definitivo Serra avrà già scordato l'investimento di tempo, creativo e professionale di Greystorm. O al contrario gli autori rimangono attaccati a queste cose? Non so. Immagino dipenda dal singolo autore.
A Serra piace restare attaccato?

Di Greystorm, terminato il primo numero, ricordo una grossa ala di pipistrello spezzata.

Harry.

venerdì 9 ottobre 2009

Oggi rifletto sul formalismo - parte 5 di 5



Qui la prima parte.
Qui la seconda parte.
Qui la terza parte.
Qui la quarta parte.
Ora la quinta e ultima parte.

Dopo essermi soffermato sulle interessanti possibilità interpretative degli approcci formalisti al fumetto, dopo aver suggerito l’utilità di questi stessi approcci per sviluppare maggior consapevolezza nell’esperienza di lettura e dopo aver constatato la necessità di una visione aperta (al dialogo e allo scambio) della critica sul fumetto, arrivo al mangaka Taniguchi.

Jiro Taniguchi è un autore piuttosto unico nel panorama fumettistico mondiale, uno di quelli che mi disorienta maggiormente. Il suo stile e il suo linguaggio sono molto personali, contaminati e riconoscibili. La sua ricerca lo ha portato a essere, agli occhi dei lettori occidentali, una delle massime espressioni della cultura orientale nel fumetto. I temi che affronta, l’occhio con il quale osserva e rappresenta la vita, la sensibilità nel rintracciare la circolarità e la spiritualità dell’esperienza, sono propri di una cultura altra rispetto alla nostra. Al contempo, tuttavia, Taniguchi sa essere il più europeo degli autori giapponesi, perché la sua sintesi è frutto di una ricerca e di una cultura che ha saputo muoversi spesso oltre confine. È un ponte? Forse si.

Per il sottoscritto, Taniguchi è un continuo esempio di ambiguità e ambivalenza. Visto da un punto di vista superficiale, il suo fumetto non mi piace. Sfogliare i suoi libri mi lascia indifferente. Non c’è un particolare che colpisca la mia curiosità, non il suo tratto, non la costruzione complessiva della tavola, non la modalità con la quale traccia le linee. Eppure, avviata la lettura, tutti quegli elementi assumono un significato diverso, in funzione della storia. I disegni, che in apparenza risultano freddi e statici, subiscono una metamorfosi al punto da diventare perfetti veicoli per le emozioni della storia. C’è un’apparenza, in Taniguchi, che viene costantemente contraddetta dalla sostanza. Mi è capitato più volte di sentire commenti (di comuni lettori) che criticano aspramente il suo stile, quel realismo gelido che traspare in molte tavole. Comprendo questo punto di vista, ma solo superficialmente, prima cioè di essere accolto dal profondo calore e dalla spiccata umanità dei suoi racconti.
In Un cielo radioso (storia di un’anima che si sposta in un altro corpo; storia di riconciliazioni, di amore per la vita, di consapevolezza e spiritualità) l’apparente freddezza delle tavole deriva dalla pulizia del tratto, dall’assenza di tratteggi, dall’uso attento ma continuo di retini, dal realismo esasperato degli ambienti, dove pesa soprattutto la forza geometrica e spigolosa delle architetture che circondano la vita di città. La postura delle persone è misurata, lontana da ogni approccio impressionista o caricaturale (così tipico, invece, di moltissimi manga) e le espressioni corporee sono semplici, definite da piccole variazioni della linea. Le inquadrature sono curatissime e, spesso, silenziose, sottotraccia, non vogliono imporsi con la presenza di scelte impreviste o spiazzanti (proprio come succede, per esempio, in molti fumetti di casa Bonelli). Sul piano simbolico, le scelte stilistiche alle quali ho accennato parlano di un materialismo concettuale lucido, concreto, asettico. È il materialismo della nostra quotidianità.

Dietro questa fredda rappresentazione della vita si nasconde una sensibilità rara. Taniguchi, assumendo come proprio l’esempio di Osamu Tezuka, esplora con abilità le potenzialità del fumetto attraversando trasversalmente i generi. Ogni suo nuovo lavoro affronta una tematica narrativa differente, eppure le ossessioni che lo dominano sono sempre le stesse. In La ragazza scomparsa, l’autore assume il pretesto della tragedia familiare per raccontare della montagna, della scalata, del rapporto dell’uomo con l’assoluto e con la fiducia. Il materialismo concreto del suo sguardo ha la capacità di trascendere regolarmente il fenomeno per raggiungere la spiritualità, che emerge con leggerezza e dolcezza. In effetti, è proprio grazie a questo suo approccio visivo leggero e sensibile che riesce a parlare di temi importanti, delle grandi domande della vita, senza mai cadere nella trappola del patetico e senza mai risultare irrisolto.

Un po’ il contrario di quanto fa, per esempio, il nostro Davide Toffolo, dove il bel disegno e il grande talento sembrano troppo spesso manifestazioni fini a sé stesse dell’ego dell’autore, e dove il patetismo è spinto attraverso un espressionismo simbolico troppo accentuato (si veda, per esempio, Il Re Bianco). Il minimalismo di Taniguchi, con la sua prosaica rappresentazione del quotidiano, nasconde quindi un pensiero grande, allargato, che è per me esemplificativo di quanto sia misterioso il potenziale del fumetto.

In che modo, noi occidentali (al di qua o al di là dell’oceano) ci riconosciamo nel suo immaginario? Quali aspirazioni tocca la sua voce semplice e nascosta?
Il percorso espressivo di Taniguchi sembra porsi come la metafora perfetta della vita in questo caos metropolitano del nuovo millennio, dove per ricongiungersi con se stessi si deve andare alla ricerca del contatto con le foglie di un albero, con il semplice atto del nutrirsi, con il valore spirituale di una passeggiata. È la necessità di una presenza, laddove a dominare la nostra inquietudine giornaliera è l’assenza, il distacco dalle cose e dalla propria natura, dalla propria origine. Sul piano espressivo, il suo approccio mai sopra le righe, la sua cura, e l’apparente assenza di una ricerca formalista (secondo l’idea che ho espresso nelle precedenti puntate) si risolve nell’esatto contrario: ovvero nel ricongiungimento con l’equilibrio formale della spiritualità della quotidianità. Il formalismo di Taniguchi c’è, quindi, eccome, ma su un piano simbolico, a un livello di lettura che non può certo risultare immediato o urlato, ma suggerito, ricostruito, ricercato e che diventa evidente solo sul piano emotivo durante lo svolgimento del racconto.
Per questo motivo, per questo equilibrio sottile, i suoi lavori generano uno strano effetto ipnotico che, tornando per un attimo all’approccio costruttivista, viene colto dalla nostra esperienza di lettura pagina dopo pagina, grazie al modo con cui l’autore sa guidare la nostra attenzione, conducendoci passo a passo nell’osservazione degli oggetti, dei gesti delle persone, nello svolgimento dell’azione, nei percorsi di vita dei personaggi.
Per tutte queste ragioni, quando leggo analisi critiche sulle opere di Taniguchi rimango spesso deluso, perché non vedo in esse la capacità di cogliere davvero le qualità che l’autore possiede. Ed è questo uno dei difetti principali di molte disquisizioni critiche, non certo l’assenza di oggettività, quanto l’assenza di argomentazioni circostanziate e chiare di un punto di vista, di una chiave di lettura che possa essere più o meno accolta e condivisa.


Harry
(fine)



mercoledì 7 ottobre 2009

Fuori continuity e fuori luogo



Interrompendo la stretta continuity degli ultimi giorni...

L’ultimo Dylan Dog a firma Michele Medda si eleva parzialmente sopra la deludente media degli ultimi anni, se non altro per la cura nelle caratterizzazioni e per il gioco divertito con il quale l’autore ripercorre i topoi propri della serie. Oltre a questo non c’è molto, se non un’idea narrativa ben condotta ma superficiale, e i disegni di Angelo Stano che sanno ancora raccontare la normalità con delicata inquietudine. Medda conduce attraverso l’ironia (di Groucho ma non solo) un divertito percorso meta-narrativo, sottotraccia, che nasce già dall’impianto del soggetto, ma che trova la sua efficacia nella sceneggiatura, per lo più confermando con sottolineature le aspettative dei lettori. Il gioco, purtroppo, ci ricorda tristemente un aspetto fin troppo evidente, che Dylan Dog è sempre più prigioniero di sé stesso. Sembra sempre più impossibile raccontare l’indagatore dell’incubo con convinzione e “realismo”.

(c) gipi

A questo punto, però, viene quasi voglia di sovvertire i punti di vista. Una battuta di Groucho all’interno della storia di Medda dice, più o meno, che le statistiche confermano che la maggior parte dei divorzi avvengono all’interno di coppie sposate. La tautologia suggerirebbe di non sposarsi. Raccolgo l’idea, e parafrasando suggerisco che la maggior parte dei fumetti brutti si trovano all’interno dei fumetti che vengono prodotti. Vorrebbe dire non produrre più fumetti? O non leggerne?
Ho la tentazione di chiedere se ci rendiamo conto di quante sono le difficoltà per realizzare un buon fumetto, soprattutto all’interno di contesti seriali. Il dato di fatto è che gli attuali sistemi produttivi in Italia non rappresentano le condizioni più adatte per garantire un buon prodotto. O sono all’insegna del più asfissiante meccanismo automatico (Diabolik? Disney?) o si basano su una stabile precarietà che costringe a creare nei ritagli di tempo.
Stando così le cose, è strano, sorprendente quante opere interessanti vengono prodotte ogni anno. Ed è normale, semplicemente prevedibile che i lavori che sono davvero in grado di lasciare il segno nella coscienza dei lettori e, chissà, negli anni a venire, sono proprio pochini. Perché mi viene anche il dubbio che, lodato quel che serve, il lavoro dello stesso Gipi non abbia la forza per marcare un segno che potrà rimanere saldamente nel tempo.

Possiamo lamentarci quotidianamente. Gli italiani, poi, sono così bravi in questo.
Ma forse, ogni tanto, potremmo gioire per un mercato fumetto immaturo che sa dare comunque opportunità di lettura ancora vitali.

Harry

martedì 6 ottobre 2009

Oggi rifletto sul formalismo - parte 4 di 5

jimmy corrigan (c) chris ware



Qui la prima parte.
Qui la seconda parte.
Qui la terza parte.
Ora la quarta parte.

A questo punto, giunto alla quarta puntata, apro una breve parentesi che chiamerei: l’impossibilità di una critica oggettiva.
La vocazione all’oggettività scientifica è un richiamo fortissimo per noi occidentali. Deriva da un lato dall’ansia per il controllo della materia di studio, dall’altro dalla volontà di comunicare a tutti in modo chiaro e univoco. E ancora, forse, dal desiderio dell’ego di voler convincere tutti delle proprie affermazioni.
In ogni caso, ci sbagliamo.
Per le ragioni esposte nel precedente capitolo, a cui rimando, il fumetto in particolare è un oggetto di studio e di analisi molto stratificato, complesso nei suoi numerosi collegamenti (sensoriali e logici), al punto da essere, come strumento espressivo, un perfetto esempio di semplificazione delle complessità. Ci vedo l’impossibilità di un giudizio unico, ma anche di un approccio unico.

In un’analisi critica di un fumetto, quindi, è inutile perseguire l’oggettività di pensiero (già di per sé un paradosso in termini). È più importante ricercare la chiarezza e l’argomentazione. È importante comunicare al lettore (più o meno esplicitamente) le regole, che sono le chiavi di lettura, e l’approccio che si intende utilizzare.
Un esempio. Avendo toccato il tema del formalismo, ho accennato ai lavori di Chris Ware come esempio massimo di questa modalità espressiva nel fumetto. Su questo piano, la sua graphic novel Jimmy Corrigan è un’opera perfettamente riuscita, molto più che il già citato Figlio di un preservativo bucato di Howard Cruse. Ma se spostiamo il punto di vista e il focus dell’analisi, per esempio sull’efficacia nella rappresentazione di un periodo storico specifico, Figlio di un preservativo bucato ha pochi eguali. L’errore che si compie spesso nelle analisi critiche meno consapevoli, è quello di esprimere un giudizio di merito su un lavoro senza chiarire da quale punto di vista lo si sta osservando, con quali strumenti di analisi e secondo quali criteri.

E il gusto personale?
Il gusto personale è importante, perché l’azione di critica non può e non deve essere un esercizio freddo e sterile. Tuttavia, esso deve essere filtrato e, ancora una volta, espresso chiaramente. Concordo quindi con chi sostiene che l’esercizio critico è un processo in divenire, sia per le continue sollecitazione e relazioni che il contesto esterno muove rispetto all’interpretazione di un’opera, sia per la crescita (di sensibilità, culturale, interpretativa) alla quale ogni critico serio si apre giorno dopo giorno.
Alcuni fisici contemporanei, a proposito della possibilità di conoscere il mondo che ci circonda (di cui, lo ricordo ai più distratti, il fumetto fa parte), sostengono che quello che osserviamo è come una sommatoria armonica delle percezioni di tutti i presenti. Non osserviamo il mondo, ma la sintesi dei mondi percepiti da tutti i presenti. Non solo, dentro ai mondi di tutti i presenti ci sono infiniti mondi, infinite possibilità di esistere.
Al di là del valore metafisico, trovo che questo concetto sia decisamente adatto a quello strano mondo che è il fumetto. La soggettività e la variabilità delle interpretazioni di questo medium è altissima, perché il lettore ha ampio spazio di agire a diversi livelli: nel dare significato e aggregare i segni tra loro, nel congiungere le rappresentazioni simboliche dei testi scritti con quelli del disegno, nel riempire di contenuto (emozioni, azioni, pensieri, …) lo spazio tra una vignetta e l’altra, nel collegare svariati riferimenti culturali allo stile personale dell’autore, ecc. Riuscite a sentire quanto margine di possibilità soggettiva c’è in ognuno di questi passaggi?
Poco importa se, poi, la maggior parte delle proposte a fumetti boicottano alcune di queste possibilità attraverso la piatta ripetizione automatica.
La cosa straordinaria, forse, è la capacità dei fumetti più riusciti di mantenere ed esaltare questo spazio di immaginazione personale e al contempo di raccontare chiaramente una storia precisa, definita e condivisibile tra molti.

Nella prossima e ultima puntata, arrivo a Taniguchi.


Harry
(continua)


(c) jiro taniguchi

lunedì 5 ottobre 2009

Oggi rifletto sul formalismo - parte 3 di 5

(c) paul hornschemeier



Qui la prima parte.
Qui la seconda parte.
Ora la terza parte.

Il formalismo di certe opere aiuta i lettori a scoprire nuove potenzialità del fumetto e a sviluppare un diverso livello di attenzione agli equilibri tra i disegni all’interno delle tavole e tra una tavola e l’altra. Favorisce anche un impatto visivo immediato dell’oggetto-fumetto molto soddisfacente, che cattura e non lascia indifferenti.
Ma naturalmente, in questa fase, tale approccio funziona solo a livello superficiale, perché non ha ancora acquisito significati nuovi, perché non si è ancora incontrato con la storia che l’autore vuole raccontare. Non ha quindi alcun contenuto narrativo definito.

Quando inizio effettivamente a leggere un fumetto, per tutta la durata delle prime pagine c’è una voce nella mia mente che esprime una serie di pregiudizi sull’opera nata dalle fasi che ho precedentemente descritto. Tale condizionamento nasce dalla necessità della nostra mente di favorire una visione di insieme prima che una visione parziale. E non c’è nulla di più parziale e in divenire di una serie di vignette che formano una storia. Il fumetto è per sua natura incompleto e richiede al lettore lo sforzo di aggiungere significato dove non c’è, dove è solo suggerito. Lo sforzo che si richiede al lettore è enorme. Lo sappiamo, il fascino del fumetto si nasconde più in quello che non c’è (ed è abilmente suggerito) che in quello che c’è.

Lo spazio per le interpretazioni e le personalizzazioni del lettore è tanto maggiore quanto minori sono i riferimenti che l’autore offre (a stili o impostazioni precedenti, al reale, alle esperienze di vita, ad altre forme di comunicazione, ecc.).
Per scacciare i pregiudizi e il fantasma di un desiderio formale derivante, credo, dall’amore per le arti visive e dall’esercizio critico, all’inizio mi concentro soprattutto sui testi scritti e sul procedere della storia. La mia attenzione consapevole ai disegni si riduce, in questa fase, a meno che qualcosa di eclatante, nella parte visiva, non succeda.
Naturalmente il disegno non scompare, non è possibile. E a esso ritorno, più consapevolmente, mano a mano che procedo nella lettura.
Ci sono cose che mi capita di vedere solo a posteriori, quando, conclusa la storia (o un capitolo della stessa), la ripercorro. È in questa fase che eventuali strutture ricorrenti o ricorsive si manifestano in modo più chiaro e si rivelano, nella loro efficacia (o inefficacia), in funzione della storia. Un’esperienza simile mi è accaduta in modo marcato, per esempio, nella lettura de I tre paradossi di Paul Hornschemeier (che ho ripercorso almeno tre volte di seguito) dove la composizione, gli stili di disegno e i rimandi concettuali sono il cuore della storia (e, per certi versi, la sua debolezza).

Dalla descrizione di questo processo di lettura, che avrà annoiato i più, volevo far emergere due fatti: che l’esperienza psicologico-percettiva di un fumetto è assai complessa e stratificata; che esiste un’ampia personalizzazione nell’attribuzione di senso e valore a un fumetto, sia sul piano interpretativo che percettivo.
Da queste due considerazioni possono nascere quelli che a volte appaiono come giudizi contrapposti su un fumetto e che rendono il lavoro di critica impegnativo e ambiguo. Un esercizio critico che richiede cultura, dedizione e tempo.

Harry
(continua)

venerdì 2 ottobre 2009

Oggi rifletto sul formalismo - parte 2 di 5




Qui la prima parte.
Ora la seconda parte.

Come sappiamo, puntando il dito alla luna, potremmo dimenticare la luna e osservare solo l’estremità di una mano, ricercando crateri e dune tra lo sporco dietro a un’unghia.
Questo accade, per lo più, quando quello che stiamo osservando si presenta come un insieme di stimoli complessi, stratificati e multipli. Il fumetto è una delle forme di comunicazione più ambigue che conosca, costituita dall’accostamento di linguaggi diversi, da associazioni multiple e contraddittorie, dall’esaltazione delle idiosincrasie degli autori.
È per queste ragioni che il fumetto seriale e/o popolare si basa molto sul concetto di riproduzione e di ripetizione, per sviluppare una familiarità nel lettore che non disorienti eccessivamente, all’insegna di una semplicità che è, più volte che non, vicina alla semplificazione piuttosto che all’essenzialità. Pensiamo, per esempio, al realismo avventuroso di casa Bonelli. Il meccanismo produttivo di tali fumetti è molto impegnativo, sia per numero di tavole/ore di lavoro, che per l’attenzione alla verosimiglianza dei disegni rispetto alla realtà, alla vicinanza con un reale che, per quanto addomesticata, richiede molto studio e attenzione. Tale procedimento, tuttavia, richiede agli autori un minor sforzo di lavoro sul simbolo, sul linguaggio, sulla forma, perché, come dire, pre-costituito, già dato (sul piano del reale), da un lato, già acquisito (sul piano formativo e culturale), dall’altro. Per il lettore è lo stesso. Il lavoro di interpretazione di quanto si sta leggendo, osservando e vivendo è semplificato da quanto già acquisito con l’esperienza.
Al contrario, un fumetto più personale, autoriale, slegato da certi meccanismi e strutture pre-costituite, richiede all’autore un maggior sforzo di immaginazione per ri-definire simboli, accostamenti, relazioni, linguaggi e al lettore per interpretarli e farli propri.

Nei casi in cui la ricerca porta l’autore a creare un fumetto estremamente simbolico ma semplice, come certo minimalismo moderno (Jason) o alcuni esperimenti di Trondheim (Mister I, A.L.I.E.E.E.N.), al lettore non viene richiesto soltanto uno sforzo di comprensione o interpretazione “linguistica”, ma anche un’apertura mentale e concettuale che gli permetta di accettare e di assorbire un tratto e una storia diversi dalle aspettative (si pensi all’effetto che fanno le storie autobiografiche di Jeffrey Brown).
Ed allora, cosa succede al lettore quando si avvicina a un fumetto diverso dal quale è abituato?
Nella mia esperienza, il primo approccio e il primo livello di attenzione riguarda l’oggetto “fumetto”, o “libro-fumetto”. Lo osservo nel suo insieme, appunto come “oggetto neutro”. Ed è per questa ragione, credo, che si è sviluppata negli anni una grande attenzione al design dell’oggetto-fumetto, ancor più per gli autori più vicini al formalismo (come Ware, appunto).
In un secondo momento, sfoglio velocemente le pagine, per recepire le sensazioni che l’impatto grafico complessivo, lo stile, mi comunicano. Non c’è il tempo, in questa fase, di soffermarmi sui particolari, ma sulle tavole nel loro insieme sì. È in questo momento che sono aperto alla comprensione di segnali di un approccio formale, che comprendo l’equilibrio delle tavole nel loro insieme e delle tavole tra loro. È un’attenzione che in larga parte prescinde dal contenuto, dalla storia e che si avvicina alla “lettura” propria delle arti visive, dove si cerca di scoprire una narrazione tra i segni. Questa fase è quella che più spesso porta a delusioni, perché sono molti meno di quanto si vorrebbe i fumetti che funzionano da questo punto di vista. Ma è naturale che sia così, e rivela in modo netto la specificità del fumetto rispetto alle arti visive. Sfogliare velocemente Figlio di un preservativo bucato di Howard Cruse, per fare un esempio, può lasciare molto freddi, distaccati e sono pochissimi i segnali “superficiali” che possiamo cogliere a indicarci quanto sia in realtà buona quella storia.
Tali segnali si manifesteranno solo nella fase successiva, quella nella quale si inizia effettivamente la lettura.


Harry
(continua)

(c) howard cruse


(c) jeffrey brown

giovedì 1 ottobre 2009

Oggi rifletto sul formalismo - parte 1 di 5



Il disegno, come più volte detto, è innanzitutto un insieme di simboli, e prima ancora un insieme di linee/macchie/derivati (ed eventualmente colori), e vive di un equilibrio formale più o meno evidente e consapevole.

In alcuni autori esiste un’attenzione maniacale alla tavola nel suo complesso, vista come insieme gestaltico e percettivo dove le singole vignette, i baloon, le figure, ogni elemento è posizionato e costruito in funzione degli altri. Maestro recente di questo approccio è senza dubbio lo statunitense Chris Ware (inedito in Italia, perché… ma questa è un’altra storia), che esaspera il formalismo al punto che diventa esso stesso, nelle sue implicazioni, elemento narrativo di una storia.
Ware agisce sulla percezione e la consapevolezza del lettore a talmente tanti livelli assieme, che diventa impossibile separare forma e contenuto, così come la narrazione dalla meta-narrazione. Nel momento in cui l’autore racconta una storia, costringe il lettore a riflettere su come quella stessa storia è raccontata. Non è un futile tecnicismo. Ware credo insegua almeno due obiettivi: 1) concepire ogni tavola come un’opera artistica conchiusa e armonica, pur in relazione con quelle che seguono e precedono; 2) sottolineare il relativismo e l’incertezza di relazioni tra le parti e il tutto nella realtà che ci circonda, con un forte “psicologismo” del rapporto tra oggetto (qualunque sia) e soggetto.

Un esempio più sfumato di formalismo, ci arriva dal recentissimo Asterios Polyp di David Mazzucchelli. Il celebre disegnatore di Batman, Year One (su testi di Frank Miller) aveva già realizzato Città di Vetro, con il fondamentale contributo di Paul Karasik (altro formalista convinto), con un procedimento spiccatamente meta-narrativo, dove le “indagini linguistiche” proprie del testo di origine (nel racconto di Paul Auster) si riflettono nei mutevoli frammenti che Mazzucchelli dissemina nelle tavole.

Il simbolo, in questi percorsi espressivi, diviene “personaggio”: ogni rappresentazione visiva si arricchisce di nuovi e molteplici significati potenziali nel momento stesso in cui i legami referenziali si indeboliscono e relativizzano.
Asterios Polyp, come già accennato, rinnova questa sfida, in modo più sfocato e meno stringente. Il formalismo che governa la costruzione della tavola e l’equilibrio dell’intero volume è totalmente al servizio della narrazione e comunica l’incertezza psicologica ed esistenziale del protagonista, che ripercorre la propria vita mettendo in discussione tutte le proprie certezze e convinzioni.
Ma sono molte, moltissime le opere caratterizzate da un approccio che potremmo ricondurre al formalismo. Andando indietro nel tempo, tra i pionieri della nona arte che hanno sviluppato questa esplorazione va annoverato senza dubbio Winsor McKay. Le arti visive, le sollecitazioni grafiche della pubblicità e del design, unite a mutevoli sollecitazioni derivanti dalla letteratura hanno nel tempo dato vita a una ricerca che non sembra fermarsi.
In Italia, il lavoro ironico e poetico di Giacomo Nanni con il suo Cronachette si colloca a metà strada tra un formalismo minuto e un minimalismo formale, ricco di sollecitazioni e capace di aprire nuove, interessanti prospettive.

L’attenzione alla composizione, alla forma e ai suoi elementi, insieme allo spiccato psicologismo del simbolo e alla relativizzazione dei significati, de-contestualizzati e re-interpretati, è una tendenza che si caratterizza come anti-popolare o, di riflesso, tipicamente autoriale. Tale implicazione sembra quindi staccarsi necessariamente dal fumetto seriale, che in effetti raramente utilizza approcci riconducibili in qualche modo al formalismo (ad eccezione, forse, di alcuni spunti nei lavori di Bacilieri).
Uno dei motivi di interesse per la critica per questo tipo di riflessioni nel fumetto sta nel fatto che sollecita un approccio del lettore più consapevole, sia rispetto alle molteplici forme che esso può assumere, che, di conseguenza, alle potenzialità che possiede come mezzo espressivo.


Harry
(continua)


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