lunedì 29 giugno 2009

Persepolis 2.0


Tutti conoscono Persepolis di Satrapi. Se non per il fumetto, almeno per l'ottimo, davvero ottimo film di animazione.

Per chi non lo sa o non lo ricorda, Persepolis è un punto di vista sull'Iran. Un punto di vista vivo, vitale, di parte, ovvero filtrato dalla sensibilità chiara e decisa dell'autrice. E questo è un bene. Perché, continuo a dirlo, abbiamo bisogno di punti di vista chiari e non di posizioni bipartisan, di nascondini. Abbiamo bisogno di assunzioni di responsabilità.

Non so cosa diavolo stia succedendo oggi in Iran. Dove sta la verità? Chi ha vinto le elezioni? Chi sostiene la rivolta?
Ma sono certo di una cosa. Non c’è assunzione di maggior responsabilità che cercare di raccontare al mondo quello che sta accadendo in quel paese in questi giorni caotici, dove la repubblica islamica sta chiudendo le comunicazioni, sta censurando, sta inasprendo ogni relazione con il mondo esterno e interno.

Da qui, nasce un esperimento molto interessante, sul piano della comunicazione tout court ma anche sul piano dell’analisi fumettistica. Un paio di studenti iraniani hanno preso le vignette di Persepolis, le hanno ripulite delle parole, smontate e ri-costituite con nuovi testi per raccontare le vicende dell’oggi. Il “nuovo” fumetto è visibile on-line, in lingua inglese. Consiglio a tutti di leggerlo e di riflettere sul meccanismo costitutivo. I disegni, prima de-contestualizzati, sono stati ri-contestualizzati e inseriti in vicende del tutto nuove. Una sorta di esperimento post-moderno. Certamente, un modo originale per rigenerare ulteriormente un’opera già viva. All’insegna del comics journalism militante.

Ho avuto il tempo di leggere solo le prime vignette. Per cui conto di ritornarci a lettura terminata.

mercoledì 24 giugno 2009

Le fumetterie - ne apro una?


Leggendo e scrivendo di Free Books, mi sono ritrovato a riflettere sulla distribuzione e, in particolare, sull’anello debole della distribuzione, le fumetterie.
Per un paradosso tipico della nostra (post)modernità, è debole la parte che dovrebbe, potrebbe essere forte e che, nel concreto e nella fattispecie, è quella che permette a molti fumetti di essere visibili per i potenziali lettori e di essere da loro acquistati.
Perché le fumetterie sono la parte debole? Per diverse ragioni che vanno dalla competenza dei librai, alla comunicazione con le case editrici, ai meccanismi dei distributori, all’assenza dei resi, alla frequentazione dei lettori, …
Per mettere a fuoco la questione, tuttavia, raccolgo una sollecitazione dal sito di Matt Blind, e faccio un passo indietro: perché si vorrebbe aprire un negozio di fumetti in Italia?

Facendo quello che faccio, mi è capitato molto spesso di confrontarmi con librai che ne sanno meno di me di fumetti. In questi casi do suggerimenti su un lavoro o un altro, condivido le mie conoscenze, offro spunti sulla vendibilità di uno specifico lavoro.
Più spesso che non ho incontrato librai che leggono e conoscono i fumetti superficialmente, letteralmente, che hanno attenzione per la superficie di un’editoria assai stratificata. In molti casi, uno degli alibi rispetto a questo approccio è il tipo di pubblico che frequenta il negozio. Il sillogismo è qualcosa del tipo: conosco i fumetti che so di vendere qui.
Non dovrebbe sfuggire la circolarità di questo ragionamento. I miei clienti comprano quello che propongo loro e io propongo quello che comprano. Non c’è via di uscita.
Meno spesso, mi è capitato di incontrare persone esperte, approfonditi conoscitori del medium, che ne seguono l’evoluzione e le dinamiche, gli stili e gli autori. Ed è una vera gioia parlare con loro, comprare da loro.

Ma torniamo alla domanda iniziale. Perché qualcuno dovrebbe aprire un negozio specializzato nella vendita di fumetti?
La prima ragione dovrebbe essere quella economica: è un lavoro che mi permette di guadagnare. Ahimé, il mercato costringe i librai a mettere questa motivazione in coda. Sono poche, se esistono, le fumetterie che guadagnano bene e non costringono i gestori o i proprietari a notevoli sacrifici. Il fatto è che avere una fumetteria implica innanzitutto spendere ore e ore all’interno del negozio, senza possibilità di rotazione con altri (le collaborazioni sono troppo costose), spesso annoiandosi in attesa di clienti, o gestendo gruppi di giovani e rumorosi giocatori di carte. Sono troppi i motivi che si scontrano con il potenziale economico di questo business: la mancanza di resi, i tagli prezzo delle librerie generaliste o delle vendite online, la pessima informazione delle case editrici, la poca professionalità e la scarsa inclinazione manageriale delle stesse, gli sconti e la marginalità ridotta sulle singole pubblicazioni, il ridotto numero di potenziali acquirenti rispetto al numero complessivo dei potenziali lettori, la poca sinergia con altri negozi specializzati (mancanza di una rete e di un coordinamento), ecc.
La prima motivazione è quindi spesso un’altra, ovvero la passione. Una passione generica, infantile, nerd di avere un proprio negozio nel quale potersi occupare giorno e notte di personaggi di carta. Una passione autentica, da collezionista, da amatore incondizionato. La passione fa fare spesso cose stupide. Ma se è viva e guidata dal desiderio di conoscere ed esplorare (se muove da un’apertura mentale, insomma) è a volte più sana e sensibile del business. Un esempio? Le speculazioni editoriali fanno meno presa laddove guida la passione e alcuni successi editoriali sono nati grazie all'innamoramento di librai e lettori. Negli Stati Uniti si sono succedute diverse crisi dovute a bolle speculative. Le più deflagranti sono state quella successiva alla fondazione della Image Comics negli anni ’90 e, prima, quella dei fumetti in bianco e nero negli anni ’80.
Se sei un appassionato conoscitore di fumetti questi meccanismi speculativi li annusi a chilometri di distanza e hai qualche possibilità di risultarne immune. A dire il vero, parlando dell’Italia, le speculazioni non sono certo all’ordine del giorno, e per un preciso motivo: non ci sono giochi editoriali che permettono di muovere, concretamente, gli acquisti di molte migliaia, di milioni di lettori. Anche le proposte più allettanti, più infarcite e indorate, riescono a spostare poco gli acquisti.
Ed eccoci alla terza ragione che potrebbero spingere all’apertura di una fumetteria: voler diffondere sul territorio la conoscenza del fumetto come forma di comunicazione. Tra le librerie di varia esistono alcuni eccellenti esempi di negozi specializzati e determinati nella diffusione di un genere (giallo, fantascienza, …), di un punto di vista culturale (cultura popolare per tutti, femminismo, arti visive, …). In questo senso, l’apertura di una fumetteria non sarebbe altro che un modo di caratterizzare un negozio di libreria di varia: trattare il fumetto come forma specifica di comunicazione, organizzare attività sul territorio per far conoscere autori e pubblicazioni, e così via.

Quale che sia la motivazione più importante, aprire un negozio presuppone la vendita, il business e l’utile. Agli italiani questo concetto, quello di utile legittimamente guadagnato, piace poco. Soprattutto quando è legato a doppio filo con la passione e, ancora di più, con la cultura. Guadagnare a volte sembra debba essere in contrapposizione con passione e cultura. E invece, vi dirò un segreto, un’impresa funziona di più se questi tre elementi (guadagno, passione, cultura) si muovono in sinergia.
Il fatto è che per potersi permettere un negozio, a meno di non avere un fondo economico illimitato, necessita di fare utili per poter sopravvivere e giustificare a se stessi e soprattutto agli occhi di parenti e amici le tante ore di fatica e sacrificio dedicate a questo lavoro. Purtroppo la capacità imprenditoriale è il grande assente del mondo del fumetto, a ogni livello. Sono pochi gli autori di fumetti che la possiedono (possiamo perdonarli? Forse si), sono pochi gli editori (imperdonabili), sono pochi i negozianti (imperdonabili). Il mondo del fumetto in Italia funziona per contrapposizione più che per sinergia, per simpatie più che per rapporti seri e incondizionati.

Quali che siano le motivazioni, avete deciso di aprire una fumetteria? Bene, ma quali dovrebbero essere i compiti e le competenze di un negoziante di fumetti? Ve lo siete chiesto?
Alla prossima ci torno su. E parliamo anche della Borsa del Fumetto di Milano, il sogno di ogni lettore, l’incubo di ogni lettore.

Harry.

Free Speech



A confronto di quanto succede negli Stati Uniti, nel mondo dell’editoria a fumetti italiana accadono davvero poche cose degne di nota a livello manageriale. Oddio, anche solo parlare di manageriale per il mondo del fumetto sembra inappropriato, quanto meno.
Ogni tanto, tuttavia, accade che una casa editrice nuova si proponga sul mercato, come Planeta De Agostini, e ne ribalti in parte gli equilibri. Oppure che una casa editrice piccola ma con grandi propositi (a parole), come la romana Free Books cambi direttore editoriale.
La notizia è questa, Alessandro Bottero sostituisce Andrea Materia alla guida editoriale di Free Books e inizia a rilasciare interviste. L’organo informativo più vicino a Free Books (o a Bottero?) sembra essere Mangaforever, un sito non sito di informazione non informazione che ha quanto meno un pregio, valorizzare per differenza la qualità di altri che si occupano di critica sui fumetti.
Ma il punto non è Mangaforever, il punto è Free Books e le dichiarazioni di Bottero.
L’uomo Bottero non lo conosco, da oltre oceano non appare. Le sue pubblicazioni indipendenti sono piccola cosa, per quanto le scelte spesso molto interessanti (Andy Watson, Stan Sakai, Steve Rude per citarne solo tre). Ma in suolo italico la sua voce è presente, sul catalogo Mega, in internet, in manifestazioni fieristiche. Non ha le idee chiare, ma le esprime sempre in modo diretto e deciso. Possiamo definirlo un pregio? Non so.

Il problema Free Books, in anni di pubblicazione, si può riassumere in una parola: inaffidabilità. Verso gli autori, pagati poco, pagati tardi, non pagati. Verso i negozianti di fumetti, poche informazioni, ritardi nelle uscite. Verso i lettori, serie interrotte, ritardi non giustificati nelle uscite, impermeabilità a critiche e commenti.

Fatto è che dall’intervista di Mangaforever Bottero sembra mantenere almeno un criterio, l’impermeabilità. Cerca di difendere l’indifendibile rispetto alla gestione passata, in un paradossale e inspiegabile atteggiamento che ha il sapore del mettere le mani avanti, e soprattutto scade nel più inutile e italietto qualunquismo: le altre case editrici fanno come Free Books, se non peggio, e quindi siamo giustificati.
I difetti di ragionamento sono evidenti. Il qualunquismo è un’aberrazione troppo comune e che disprezzo con tutto me stesso, soprattutto dove si colora di de-responsabilizzazione.

Free Books ha un parco testate importanti. Ne cito solo due, Age Of Bronze e Krazy Kat. Non ha ancora dimostrato professionalità, però. Quella qualità che si sposa con la serietà, con la trasparenza, con il mantenimento degli impegni e delle intenzioni.
Bottero avrebbe una grande opportunità, ovvero traghettare la casa editrice verso questa attesa professionalità. Ma servirebbe un atteggiamento diverso. La disponibilità al dialogo che sembra emergere dall’intervista su Mangaforever è inutile se non supportata da un’apertura autentica all’ascolto e dalla volontà di cambiare. A patto che lo stesso Bottero si riconosca e riconosca le qualità della professionalità e della serietà.
Un solo esempio a chiudere. Quando i librai specializzati fanno notare la poca comunicazione della casa editrice con loro in merito ai prodotti che propongono, toccano una nodo cruciale per la buona riuscita di un piano editoriale, ovvero la fiducia dell’ultimo, fondamentale anello della distribuzione. Una nuova progettualità deve partire da lì, da un nuovo rapporto con le fumetterie. Se non si capisce questo e ci si nasconde dietro al qualunquistico “tutti gli editori fanno schifo”, ecco, allora le possibilità di un salto di qualità reale non esistono. Anche perché lo stile delle esternazioni pubbliche di Bottero è evidente non solo ai librai, ma anche ai lettori, che sono quelli che, in definitiva, comprano il prodotto e permettono la sopravvivenza di una casa editrice.

Harry.

lunedì 22 giugno 2009

La fabbrica dei sogni


Gli ultimi due numeri di Nathan Never sono firmati da Gigi Simeoni, testi e disegni.
Dopo la prova autonoma con Gli occhi e il buio, Simeoni conferma la sua buona forma.
La bambina scomparsa (parte 1 di 2) offre pochi momenti interessanti, perché troppo prevedibile, lo ammetto. Ma la sua conclusione, La fabbrica dei sogni, ha un ritmo eccellente e un disegno molto sanguigno. Tempi giusti e determinazione, insomma. E ciò basta per realizzare un buon fumetto seriale.

Di Simeoni apprezzo soprattutto la capacità di "usare" i personaggi in funzione della trama, senza per questo avvilirli.

sabato 20 giugno 2009

Micrographica

Renee French è conosciuta negli Stati Uniti per alcuni lavori sorprendenti e difficilmente incasellabili. Il più riuscito finora per qualità di storia e disegni è probabilmente The Ticking.
Ma l’esperimento più sorprendente è senza dubbio Micrographica (Top Shelf Productions).
Prendete un foglio di carta, delimitate piccoli riquadri della dimensione di un francobollo e raccontate una storia in quei piccoli spazi angusti. Un francobollo per ogni vignetta. Questa è la regola.
Quello che ha spinto Renee a seguire questa strana speculazione artistica è la volontà di ridurre al minimo l’attenzione al realismo, alla ricerca del segno, ai particolari; abbandonare il perfezionismo che tanto la assilla per dedicarsi a linee semplici, minime, necessariamente essenziali e funzionali. Dedicarsi al simbolo. In un francobollo si ha davvero poco spazio per disegnare. Vi invito a provare.
La storia parla di topi e palline di feci. Il piano visivo è ad altezza topi, anche quando se la spassano all’interno di un cadavere. Ma non è del soggetto del fumetto che volevo parlare.
Lavoriamo un po’ sulla percezione e la lettura della vignetta.

Ecco, iniziamo dalla percezione dell’autrice. Riduciamo una vignetta di micrographica alla grandezza di un francobollo e osserviamola insieme.

A patto di avere una buona vista, quanto posso ragionevolmente definire con la mia linea?
In questa vignetta Renee posiziona nell’angolo in basso a sinistra una pallina di cacca. Tratteggia velocemente la parte anteriore del corpo del topo, con una particolare attenzione all’occhio sinistro e una sorprendente cura della parte anteriore del muso, con quei piccoli puntini scuri. Sono colpi sottili di inchiostro, con la punta del pennino. Per dare un minimo di contesto in uno spazio così angusto, alcuni brevi tratteggi al di sopra del topo, nella parte alta del quadrato, danno un’idea di prato, con qualche cerchietto a definire dei sassolini.

In una seconda vignetta due amici topi, i protagonisti della vicenda, condividono la scena, camminando uno accanto all’altro. Sullo sfondo, appoggiato alla linea dell'orizzonte, Renee trova lo spazio per un lontano alberello. Ovviamente l’autrice statunitense non lavora per sottrazione, ma per sintesi. Ovvero, non pensa a “cosa posso omettere” ma “quanto è necessario che aggiunga per realizzare la storia”. E questo è di per sè l'esercizio e la lezione più importante.
La linea, osservata da vicino, è sottile e leggermente tremolante, sufficientemente sicura nella sua genesi, a seguire con il polso la curvatura e le pieghe.

E veniamo ai simboli. Ingrandiamo la prima vignetta che abbiamo visto.


Il topino che annusa la pallina di feci è una specie di trapezio con gli angoli arrotondati e due protuberanze al di sotto, le zampine, con tre linguette allungate, le dita, ben poco curate. Altra cura, per quanto immediata nella realizzazione, è nel cerchio nero che dà forma all’occhio sinistro, con un piccolo spazio bianco a dare idea della luce che attraversa l’iride. Le macchie sul corpo, il prato e i sassolini sono accenni di inchiostro. Quando li osservo, mi colpisce la facilità con la quale la mia mente li trasforma immediatamente in un significato visivo preciso. Tanto che mi diventa difficile realizzare il processo inverso, ovvero liberarmi dal simbolo per andare all’origine del segno sulla carta.
Sul piano psicologico, infatti, attraverso un processo di inferenze e di associazioni, la nostra mente non può non cercare di dare senso a quello che vede, riconducendolo a qualcosa di cui abbiamo accumulato anni e anni di esperienza. Se Renee fosse stata più ermetica, nel segno, se avesse utilizzato prospettive complesse o avesse saturato le piccole vignette di tratteggi, di accumuli, la nostra mente sarebbe stata costretta a una ricerca differente. Avrebbe dovuto provare a interpretare e connettere, ricostruire attraverso le diverse informazioni offerte dalla storia che evolve.
Nel guardare una vignetta, il lettore si accorgerà che la decodifica del segno è immediatamente seguita da un contenuto emotivo. Più delle parole, che sono anch’esse segni da codificare, ma che mettono in moto meccanismi verbali e logici, il disegno sollecita la nostra parte irrazionale ed emotiva e la lettura è per molti versi im-mediata, ovvero non mediata dal ragionamento.
In vignette estremamente piccole, solo lo sforzo e la concentrazione volontaria portano l’occhio a soffermarsi sui particolari del disegno, mentre nella normalità è l’insieme gestaltico della vignetta che viene raccolto dalla nostra mente. La storia trae cioè vantaggio dalla compattezza visiva, che diviene compattezza narrativa, se usata con intelligenza come da Renee. Leggendo Micrographica nel suo insieme, si nota che per tutto il racconto predominano i primi piani, con uno sguardo che per certi versi richiama le fotografie con inquadratura micro (appunto). I topini sembrano insetti. L’osservazione è estremamente ravvicinata.

Ma Renee, dove vuole condurre il lettore? In primo luogo ad abbandonare il punto di vista dell’uomo, a ridurre il proprio sguardo a quello di un piccolo roditore. In quella dimensione, i punti cardinali, le dimensioni, la profondità e il senso del movimento cambiano. Tutto avviene in modo ristretto. E così la storia, che racconta di come prendersi cura di una pallina di cacca, delle invidie di esseri che non hanno la possibilità di alzare lo sguardo al di sopra della loro sopravvivenza.

Questo micro-esistenzialismo non assume mai toni tragici. Il disegno essenziale, privo di distorsioni espressioniste, minimo nel tratto quanto nella rappresentazione, apparentemente banale, prosaico, non trasmette al lettore sensazioni intense, drammatiche o strazianti. C’è una sostanziale leggerezza, che fa sorridere nel momento stesso in cui fa riflette. Perché naturalmente, l’uomo ridotto alla percezione di piccoli topi gelosi, che si confrontano sul possesso di cose insignificanti se non repulsive, si riscopre specchio di se stesso, nel momento in cui la storia diviene metafora della nostra fragile esistenza.
Il lettore si ritrova, umano e uomo, intrappolato in vite francobolli asfittiche, ad addolorarsi e sprecare energie per motivi futili, per affermare se stesso senza alcuna reale ragione.
L’interpretazione esistenziale della sotria prende naturalmente vita in relazione alle vicende che Renee racconta, ma non avrebbe la stessa forza simbolica se non fosse supportata da un disegno di questo tipo.
Un pallino, una linea curva a chiudere un trapezio, qualche “puntura” di pennino, messe da parte prospettiva, realismo, architetture, espressioni del viso, posture, …




La ricerca artistica di Renee French è una continua riflessione esistenziale in bianco e nero.
Basta un viaggio all’interno del suo blog per rendersene conto. Le singole illustrazioni, che naturalmente non compongono un fumetto, ma se osservate di seguito danno forma a un punto di vista sulla vita, sono minimi concentrati di dolore, di isolamento, di non appartenenza. Si può notare la cura del tratto, assai diverso da quello di Micrographica, e alcune illustrazioni in particolare ci offrono uno sguardo sulla mente di Renee, impegnata nella sua ricerca artistica.
Alcune immagini utilizzano infatti sfondi fotografici per i suoi personaggi disegnati. Alcune fotografie senza disegni interessano l’autrice perché naturalmente vicine alla sua rappresentazione artistica. Sembra ricercare nel reale la sua idea metaforica di vissuto, sembra voler trovare il suo stile visivo nelle cose di tutti i giorni. È la vita che imita l’arte, in piena esasperazione.




Al di sotto di tutto questo, c’è il talento proprio di ogni fumettista di creare la terza dimensione nelle due dimensioni del foglio, di dare l’idea del movimento, di sviluppare una storia che è fatta di parole e disegni.

Harry






Tutte le illustrazioni sono (c) di Renee French

martedì 16 giugno 2009

Caravan serraglio

studio per la copertina del numero 1 di Caravan (c) Mammucari

Forse non ci credete, ma io amo il fumetto popolare. Ne amo la storia, l’evoluzione e le potenzialità. È per questa ragione che ne parlo così spesso male, perché ci tengo, lo coccolo, lo seguo e ne soffro. Ogni forma di comunicazione che ha vocazione “popolare” dovrebbe sentire delle responsabilità, che stanno innanzitutto nel non sentirsi autorizzati a banalizzare, a semplificare eccessivamente per quello strano assioma – che è un pregiudizio – che più una cosa è di facile “utilizzo” più si riesce a venderla.
Se la semplicità è una vocazione del prodotto popolare, dietro a essa si deve respirare il pensiero, l’intelligenza, la partecipazione e la naturalezza. Tutte caratteristiche che mancano alla maggior parte dei prodotti popolari, fumettistici e non. Perché per costituzione e per necessità, il prodotto popolare è contaminato, improprio, derivativo, meticcio … tutti aspetti che ne fanno un “oggetto non identificato”, che richiede una straordinaria capacità di sintesi e di comprendere il clima socio-culturale in cui si vive.
E a chi non piace sentire ancora oggi parlare di etichette quali “popolare” dico solo che il linguaggio dell’uomo funziona perché si definiscono, implicitamente o non, delle convenzioni. E mi sento ancora oggi in diritto di far mia tale convenzione: per cui, spero sia chiaro a tutti cosa intendo quando parlo di fumetto popolare. Non è una definizione di merito, né un giudizio implicito. Ha più a che fare con il pubblico di riferimento e i meccanismi produttivi che generano tali prodotti.

E di fumetto popolare torno a parlare oggi a proposito di Caravan, la nuova maxi-serie della Sergio Bonelli Editore, ideata e sceneggiata da Michele Medda, con l’apporto artistico di autori conosciuti come Roberto De Angelis (ai disegni nel primo numero) e in costante crescita come Emiliano Mammucari (copertinista della serie).
Non so cosa sia Caravan, narrativamente parlando. Non ho avuto voglia di leggere anteprime, interviste, comunicati stampa. Ho comprato il primo numero al buio. Perché di Medda mi fido. Perché a Medda attribuisco senza dubbio le qualità dell’intelligenza, della professionalità non sterile ma “germinale”, dell’autonomia di pensiero e della passione per il medium fumetto.
Per cui, l’unica cosa che vi so dire di Caravan, interpretando i presupposti del primo numero, è che si tratta di un’avventura on the road, con più o meno chiari riferimento catastrofistici, con una conduzione corale e non incentrata su un singolo protagonista. E ciò vi basti.

Caravan esordisce in modo impeccabile. Il movimento della sceneggiatura è naturale, coerente, senza increspature inutili e senza automatismi necessari alla risoluzione della trama. I personaggi hanno voce propria, le vicende hanno spazio e il lettore partecipa della storia con trasporto.

(c) De Angelis

Merito della buona riuscita è da attribuire anche all’ottimo lavoro di De Angelis, che mette a frutto la sua esperienza e la grande intesa con lo sceneggiatore, consolidata in anni e anni di Nathan Never. Le inquadrature, le scelte di ritmo, tagli, “movimenti di camera” hanno una connotazione decisamente fumettistica, per quello che il fumetto, certo fumetto realistico, è diventato negli anni: di nuovo, un prodotto derivativo ma non spersonalizzato, che del cinema imita la forma sostituendola con la propria, così come imita il movimento dalla staticità di una tavola disegnata.
Ecco, direi che il punto di forza di Caravan è il senso del movimento. E per una serie on the road è un risultato importante.

La copertina di Mammucari pone già le premesse di un prodotto nuovo, pur nella continuità del fumetto di avventura realistico di casa Bonelli. Il tratto e la posa dei due personaggi, che ricordano Adam Kubert, nascono da una sintesi che rielabora senza forzature il linguaggio visivo dei comics statunitensi. La scuola Kubert, ricordiamolo, prima ancora che dal fumetto di supereroi, ha le proprie radici nel fumetto di guerra e dell’avventura esotica (le foreste di Tarzan, il passato remoto della preistoria di Tor). Non so dire con quale consapevolezza, Mammucari cita e rielabora, in una semplice tavola, tutto quel mondo che ai lettori italiani è conosciuto e lontano al tempo stesso. Una buona premessa, una buona metafora del contenuto di Caravan.

Aggiungo solo che Mammucari aveva già dato un’ottima prova di sé nel recente quinto numero di Dix, con uno stile ancora diverso per quanto perfettamente riconoscibile, che pescava a piene mani dal genere noir, con una sensibilità poetica efficacissima. Una dimostrazione di flessibilità stilistica che dice del suo grande talento, per quanto di una personalità artistica ancora in via di definizione.

tavola da Dix 5 (c) Mammucari

In conclusione, il primo numero di Caravan rappresenta l’esordio più convincente degli ultimi anni per una (maxi)serie popolare.
Seguiamone le sorti.

Harry.

Diamond maximortal


Parlo con un autore, un certo Rick Veitch, che mi dice che la Diamond Comic Distributors, Inc. non pubblicizzerà più i suoi fumetti sul catalogo mensile che preannuncia le uscite fumettistiche in Usa (Previews).
Veitch è il noto autore di serie revisioniste quali The Maximortal, The One e Bratpack, che anni fa presero, destrutturarono e reinventarono con sano cinismo gli stereotipi del fumetto popolare statunitense, quello infarcito di supereroi in calzamaglia.

Oggi quelle storie risentono non poco del tempo passato. I concetti funzionano ancora, tanto che l’irlandese Garth Ennis, con The Boys, sembra muoversi sullo stesso confine con uno humor ancora più nero e disincantato. Ma è nelle scelte visive e narrative che i suoi lavori sono invecchiati.
Ma sono pietre miliari del fumetto statunitense. E grazie alla sua personale casa editrice, la King Hell Press, sono costantemente in stampa e facilmente reperibili. Da alcuni anni, con regolarità propria di un vero professionista, Rick presentava una o più di esse con un trafiletto all’interno di Previews, il catalogo suddetto. La visibilità, per quanto ridotta, era facilitata.

Oggi non è più così. La nuova politica della Diamond vieta a piccoli editori, con piccole vendite, di piccoli prodotti importanti, di promuoverli sul catalogo. Insomma, o vendi al di sopra di un certo numero di copie, oppure non appari. Un bel circolo vizioso. Un vero vizio di sistema che penalizza i piccoli a favore dei grandi e che è possibile solo in ragione del fatto che la Diamond è monopolista negli Stati Uniti.
Pensiamoci. Ricordiamoci che se vogliamo sapere cosa bolle in pentola in questi lidi, Previews sarà sempre meno attendibile e che il web rimane a questo punto l’unica fonte per poter (ri)scoprire questi e altri lavori.
I volumi di Veitch, in lingua inglese, li trovate qui: http://www.rickveitch.com/store/
In Italiano, Comma 22 sta procedendo a passo lento nella pubblicazione completa dell’opera di Veitch.

Chiudo con una domanda: cosa ci dice questa vicenda del mercato di fumetti in Italia? Lo sapete, vero, che agli italiani piace seguire da vicino le orme dei cugini statunitensi?
Ci torno, presto ci torno.
Harry.


giovedì 4 giugno 2009

Divulgazione

(c) Chris Ware

Poniamo che debba preparare un ciclo di incontri sul fumetto e che debba trovare dei nuclei tematici per ogni incontro. Non ho nessun obbligo né indicazioni e posso muovermi come credo. Nessun vincolo di tempo (i fumetti dell’oggi, i fumetti del passato) né di contenuto. Da dove potrei partire?

Ecco alcune possibilità:

1. Per periodi storici in sequenza cronologica. È uno degli approcci più prevedibili, chiaro e sistematico. Ci vedo alcune controindicazioni. Innanzitutto le divagazioni potrebbero essere numerose, perché i periodi storici non sono affatto omogenei. In secondo luogo si rischia di perdere il contatto con l’oggi. L’ “archeologia” fumettistica potrebbe non interessare a molti. Infine c’è il rischio di offrire un punto di vista evoluzionistico e meccanicistico. Una successione di opere che si concatenano l’una all’altra in un percorso evolutivo e didascalico. Non mi piace molto.

2. Per generi. È un secondo approccio piuttosto comune. Si individuano alcuni generi. All’interno di quelle etichette di genere si inseriscono alcune opere. In ogni incontro si affronta un gruppo specifico. Anche qui, alcuni problemi. Primo, il genere è un demarcatore semplicistico. Secondo, il genere è molto selettivo, se a qualcuno il tema (per es. la fantascienza) non interessa si perde parte degli astanti. Terzo, si rischia di non saper inquadrare le opere più ricche, che come spesso accade, trascendono i generi o quanto meno li travalicano. Quarto, il fumetto è uno dei mezzi di comunicazione più meticci e quindi trans-gender che ci siano. Riflettendo, si potrebbe usare il genere come punto di partenza per un superamento della divisione in genere.

3. Per nazionalità, con un’opzione fondamentale: ridurre la visione all’oggi, ai fumetti attualmente reperibili e realizzati, poniamo, negli ultimi venti anni. Altrimenti, si rischia di cadere nel punto uno e di entrare in un mare magnum infinito. È utile analizzare le arti per nazionalità? Forse si, nel caso del fumetto seriale. Gli spunti non mancherebbero. Per esempio è possibile riflettere sui meccanismi produttivi, sulle dinamiche dei diversi mercati, sui formati. Di nuovo però è una visione riduttiva, soprattutto oggi, in un mondo globalizzato, dove si comunica a continenti di distanza, dove le scuole e le derive si muovono oltre qualunque confine nazionale, dove il confine stesso appare un concetto banalizzante, utile per lo più alla propaganda politica. Non alla cultura.

4. Per sollecitazioni idiosincratiche. Quali sono i marcatori significativi che fanno del fumetto un mezzo di comunicazione unico, con innesti mobili ma con tratti distintivi? Potrei muovermi così, (in)seguendo il segno, l’ambientazione, le tecniche di story-telling, l’impianto realistico o “simbolico”, ecc. È un approccio aperto e forte. Le attenzioni andrebbero nel delimitare bene i temi, per non creare caos in chi ascolta. Non perdersi in eccessivi tecnicismi. Non chiudersi in un’analisi autoreferenziale.

5. Per opera/autore. In ogni incontro, analizzare un singolo lavoro. Oppure un singolo autore. La selezione fa tremare i polsi. Sarebbe utile evidenziare eventuali collegamenti a fonti di ispirazione, opere collegate e contesto socio-culturale in cui ha avuto forma. Il rischio è presentare una visione molto parziale del fumetto, in un approccio riduttivo. Favorisce d’altra parte l’approfondimento e aiuta il partecipante nella selezione dei titoli. Potrebbe avere una chiara indicazione di lettura.

6. Per avvenimenti o situazioni legate alla nostra quotidianità. Cercare collegamenti tra specifiche opere (o parti di esse) con fatti pescati da quello che si muove intorno a noi. I fumetti non dovrebbero necessariamente essere di oggi, ma attuali per chiavi di lettura e collegamenti. Sarebbe un buon modo per mettere in luce la forza del fumetto nell’ interpretazione del quotidiano e del reale. Controindicazioni? Tutte quelle che nascerebbero da collegamenti forzati. Possibilità? Pressoché infinite.

Questo il mio contributo fino a qui. A qualcuno vengono in mente altri spunti?

Ogni suggerimento sarebbe gradito.
Grazie,

Harry.

lunedì 1 giugno 2009

Invocazione


Autoritratto di Seth, particolare (c) Seth


Ricordatelo, ogni tanto: in un fumetto, quello che il vostro occhio interpreta sono solo segni e forme bidimensionali. Ricordatelo e provate a pensare a quale meccanismo ideativo e psicologico traduce tali segni in contenuti tridimensionali, in oggetti ed eventi reali, in significato ed emozioni.
Pensate alla facilità con la quale la mente ricompone tutto, attraverso un processo di sintesi dinamica, dà direzione a un movimento (temporale e spaziale) inesistente. Con quale facilità e quale arditezza immaginativa.
Ricordatelo bene, signori autori, potrebbe aiutarvi a fare più attenzione ai particolari e ai contenuti di ogni singola tavola che realizzate. Semplificate, senza banalizzare. I simboli hanno bisogno di spazio e meno sono “realistici” e “fotografici” e più sono evocativi. Cercate modalità nuove, non laceranti o estreme, ma inedite. Cercate il gioco della scoperta mentre scrivete e disegnate, sorprendetevi voi per primi. Non lasciate che il mestiere impoverisca le vostre menti prima delle vostre opere.
Solo così i lettori saranno felici e voi godrete della vostra stessa felicità.
Ricordatelo: il fumetto è simbolo.


Harry

Difetti d'identità

David Murphy 911, disegno di Gabriele dell'Otto


Diciamo la verità, in un mercato editoriale mondiale straordinario per varietà delle proposte e, in molti casi, per qualità delle stesse, il fumetto popolare italiano non dà buona prova di sé. Negli ultimi anni abbiamo visto parecchie nuove proposte che, mi spiace dirlo, languono miseramente. E questo soprattutto al di fuori della casa editrice principe, ovvero la Bonelli.
Per una volta, quindi, togliamo il dito da casa Bonelli e vediamo cosa succede altrove.

Il gioco è sempre lo stesso, con alcune variazioni sul tema: produrre un fumetto di 96 pagine in bianco e nero di tipo avventuroso con segno realistico (o quasi). Le variazioni sono la formula in miniserie; le modalità produttive (invece di un unico disegnatore per albo, o di una sola storia per albo, più disegnatori e più storie per albo, o una delle possibili varianti di tale meccanismo); l'idea di base o il concept (il riferimento ai telefilm di nuova generazione, il richiamo dello scrittore famoso, il pretesto narrativo delle forze dell’ordine, ecc.).
In questo scenario, le novità che funzionano si contano sulle dita di una mano. O meglio, non si contano. Mi soffermerò solo su alcune.

L’ultima nata è Rourke (Star Comics), di Federico Memola, che esordisce poco dopo la chiusura della sua serie “storica”, Jonathan Steele (che per dovere di cronaca prosegue in albi extra con cadenza più dilatata). Rourke è un fumetto horror. Il primo numero è disegnato maluccio (tempi di realizzazione inadeguati?) ma è soprattutto deludente sul piano del soggetto e della sceneggiatura. La conduzione è prevedibile, meccanica. Le fasi decisive del racconto non colpiscono. I personaggi non graffiano, non escono dall’anonimato, malgrado le parolacce. È forse presto per dirlo, ma Rourke più che un horror sembra essere un fumetto noioso. Lontano dalle inquietudini dell’oggi, all’inseguimento di clichè ormai superati, attaccato a una new wave horror che ha generato più mostri che non.



Cornelio (ancora Star Comics) è la serie di e con Carlo Lucarelli. L’idea di base è interessante, e fare del celebre autore anche un’icona a fumetti poteva essere un colpo di grande efficacia narrativa, nonché commerciale, nelle mani di abili autori. Cosa che non avviene. Qui ci troviamo nel pieno del qualunquismo narrativo. Superficialità, mancanza di identità (che sceneggiatura voglio? Che sviluppi voglio? Più molte altre domande a caso di questo tenore), nessuno spunto che valorizzi il medium per il quale è realizzato il progetto. Sembra un fumetto/redazionale, ovvero un prodotto pubblicitario senza anima. È il perfetto esempio del fumetto/non fumetto, realizzato senza la minima consapevolezza delle potenzialità del fumetto stesso, dove le 96 pagine non sono sfruttare per quello che potrebbero essere, ma sembrano spazi vuoti da riempire fino alla parola fine. Uno strazio.


Panini Comics non è famosa per le sue produzioni italiane. L’unica eccezione finora da elevare a capolavoro è Rat-Man di Leo Ortolani. Ma qui il coraggio di Lupoi e compagni è stato quello (non da poco, lo ammetto) di voler puntare sull’autore e di saperlo valorizzare come merita. Sul piano progettuale e produttivo, tuttavia, i meriti della casa editrice sono pressoché nulli. Hanno preso il “prodotto” fatto e finito, un fumetto già efficace, già rodato, già vincente.

Recentemente, Panini ha però dato la luce a David Murphy 911 di Roberto Recchioni e Matteo Cremona. La miniserie di 4 numeri pesca nell’immaginario dei telefilm di azione e di certi comics mainstream statunitensi (a metà tra l’autoriale Vertigo e la new wave supereroistica). Il risultato non convince appieno. La miniserie è solida, sceneggiata con discreta consapevolezza e buon mestiere. I disegni peggiorano col progredire della miniserie, perché laddove il giovane Cremona migliorava con l’esperienza andava peggiorando con le scadenze troppo ravvicinate. Anche qui, un errore grossolano di progettazione dell’impianto produttivo della serie. Si paga l’inesperienza Panini. Si paga l’eccessivo entusiasmo degli autori.
Detto questo, quel che funziona sul piano della narrazione complessiva, purtroppo crolla miseramente sul piano della definizione del soggetto e del concept della miniserie. Murphy 911 è vuoto narrativo. Puro pretesto per un presunto virtuosismo visivo e dialogico. Siamo di fronte al prodotto ben realizzato senza alcun tema da narrare. È questo l’intrattenimento del nuovo millennio? È possibile pensare che la fruibilità, la leggerezza, il divertimento siano associati anche alla possibilità di offrire un punto di vista su quel che ci succede intorno? Al contrario, qual è il senso di leggere 4 albi di 96 tavole ognuno al termine dei quali non resta nulla, se non la sensazione di essere stati ammansiti?

Concludo con un altro albo Star Comics, Trigger di Ade Capone. Anch’esso una miniserie, ha una struttura particolare perché ruota intorno a più personaggi che si muovo ognuno in uno scenario diverso, legati da un filo comune. Ogni personaggio ha un suo disegnatore/copertinista dedicato ed è legato a un genere narrativo differente. Questo l’impianto. Dopodichè Ade Capone lavora per ritagli e ricomposizioni, come un clochard che rovista nella spazzatura. L’autore rovista tra i telefilm, come Lost, che viene citato più e più volte, e rovistando costruisce. Non ci sarebbe nulla di male, molta della “pop-art” di cui il fumetto fa parte lavora in questo modo, spesso con risultati sorprendenti. Ma non in Trigger. Cambiare registro narrativo richiede una grande abilità, innanzitutto per non perdere omogeneità e compattezza, in secondo luogo per riuscire ad essere efficace in ognuno dei generi affrontati. Trigger fallisce in entrambi gli aspetti. E ciò malgrado la buona prova dei disegnatori che, tuttavia, sembrano essere i primi ad affrontare il lavoro con scetticismo e, di conseguenza, senza cuore.
Quel che meno piace è ritrovare, per l’ennesima volta in un prodotto seriale, l’esigenza di dover esplicitare tutto, di spiegare il superfluo, generando noia e insofferenza nel lettore. Ritengo sia davvero avvilente e fuori tempo massimo vedere personaggi che si comportano, “parlano” e agiscono in un certo modo solo per esplicitare al lettore certi temi o accadimenti. Perché si desume che il lettore a cui è destinato il lavoro non avrebbe la capacità di comprendere da solo, per intuizione; perché si capisce che nello sceneggiatore manca l’abilità per arrivare allo stesso risultato narrativo con modalità diverse, più efficaci, meno banalizzanti.

C’è un filo rosso dietro a tutte queste pubblicazioni. Da un lato lo sforzo di voler essere attuali, di rielaborare temi o concetti efficaci e di successo in altri ambiti (che sia la televisione, o i comics, o la new wave horror statunitense, …); dall’altro il fallimento di questo stesso tentativo. Gli autori del fumetto popolare italiano non sembrano in grado di personalizzare e restituire ai lettori tematiche derivative. Il collage diventa una deriva all’insegna della banalizzazione e della noia. Si attendono tempi migliori e una sensibilità più autentica. Si spera in un cambiamento di prospettiva: dalla definizione di un prodotto in funzione di una possibile audience, alla costruzione di una storia a partire da un’idea solida, da una motivazione autentica a narrare, pur all’interno di un contesto popolare e seriale.

Harry.



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