giovedì 28 gennaio 2010

Mater Morbi 2, invettiva

foto di recchioni dal blog di paola barbato


Nel difetto genetico del fumetto c’è l’invisibilità mediatica.
Migliaia di pagine all’anno passano inosservate e sottotraccia rispetto al gioco delle parti dell’informazione e della cultura nazionale. In Italia, il fumetto non ha distinzioni di genere, di cittadinanza, di umori, di gusto, di politica, di colore. È invisibile.

Come sappiamo, non c’è ingegneria genetica che possa porvi rimedio.
Il populismo finto-informativo non sa come cogliere, strumentalizzare, sodomizzare e metabolizzare l’immaginario a fumetti. Disney è l’oppio dei bimbi, Bonelli è l’avventura reazionaria di sinistra, Diabolik una necessaria evasione antieroica e antierotica, Winx è indotto, e tutto il resto, manga, supereroi, graphic novel, art comics, ecc. sono derive inutili(zzabili).
Il fumetto è corresponsabile. Spesso troppo vecchio rispetto alla giovane età anagrafica, nei meccanismi commerciali, nel modo di pensarlo e concepirlo in relazione al quotidiano. Distante.

Alcune eccezioni riguardano gli amori. Se un autore piace, provoca emozioni forti a qualcuno che ha uno spazio mediatico, può avere una luce, un occhio di bue sulla nuca per qualche minuto. Come Gipi con Bignardi.

Altre eccezioni riguardano le vendite. Se un fumetto diventa di successo, evidentemente inatteso, può diventare costume. Ed ecco che può spuntare nei giornali, da dietro le pieghe delle frasi. Come Dylan Dog.
Ma negli ultimi anni, difficilmente il giornalismo si è occupato di Dylan (nemmeno quello specializzato ne ha più molta voglia), se non in occasione di una nuova campagna animalista. Perché Dylan è ormai parte delle abitudini italiane, come un difetto sociale. E come la cultura italiana, negli anni peggiora. E non ha più nulla da smuovere o comunicare.

Poi accade che Roberto Recchioni scriva Mater Morbi, che tocchi un tema come la malattia, che lo faccia in modo diretto, intelligente, per quanto solo parzialmente efficace, e che faccia esprimere al suo John Dog alcuni pensieri. Pensare è lecito?
Pensare è creare mondi che possono essere usati in vari modi.
Ed ecco che John Dog può essere strumentalizzato.
La distrofia critica dei giornalisti che vivono in trincea la vita delle notizie li costringe, loro malgrado o no, a cercare come accattoni pensieri, idee, mondi che rafforzino il loro ruolo, le loro ideologie, il loro mandato socialmente futile che è, sempre più, quello di lanciare la palla nell’arena politica che tutto sodomizza.
La domanda all’ordine del giorno è se John Dog sia o no un ideologo dell’eutanasia. Persona(ggio) di cartapesta, il suo punto di vista è più importante di quello di Recchioni (burattinaio ingenuo o fomentatore in erbe?) e soprattutto di quello che la vita vera suggerisce.
A onor del vero, la vicenda si chiude anche bene, nel momento in cui un ministro che ministra senza stronza ammette di non aver letto il fumetto, prima di commentare, ci ripensa, lo legge e ne tesse le lodi. Una correttezza che fa il paio con il partito dell’Amore del nuovo millennio.

Tutto questo mi suggerisce:
- che gli autori di fumetti sono inutili, soggettivamente parlando
- che i personaggi di fumetti hanno valore iconografico quando vengono strumentalizzati e sodomizzati
- che Bonelli avrà un picco di vendite eccezionale, e lo avrà per le ragioni sbagliate, ma che importa
- che l'invisibilità del fumetto è utile e necessaria a tutti (altrimenti non avremmo potuto leggere serenamente Preacher di Garth Ennis)
- che Recchioni ha colto nel segno, forse al di là delle sue previsioni, quando ha compreso alcuni semplici ma efficaci meccanismi di rimbalzo mediatico e mimetico e ha deciso, anni addietro, di offrirsi al gioco della rock star kiss-anal, e nella querelle in questione si muove da maestro
- che non c’è distinzione tra cultura di massa ed elite, tra popolare e autoriale inteso come valore di merito, tra cultura alta e cultura bassa, perché l’inutile e l’utile si abbracciano suadenti come John Dog con Mater Morbi
- che la grande livella, prima della morte, è l’informazione coatta dell’a-morale politica

Di questo, si dovrebbe essere consapevoli per ripensare a una funzione sociale del fumetto. Nelle idee e nelle azioni.
L’intelligenza e la buona fede non bastano, per quanto rare.

Harry

mercoledì 27 gennaio 2010

Dagli appunti di Harry



Dylan Dog 281, di Bilotta e Freghieri.
Come una fredda giornata d'inverno, in attesa che parta un treno in ritardo.
Fastidio.
Non compratelo.

Harry

domenica 24 gennaio 2010

Dagli appunti di Harry

(c) jason lutes


Ricordarsi di parlare di Berlin 2 di Jason Lutes, di qualcosa che ha a che fare con le idee sulla libertà, l'emancipazione, le aspettative di vita e i tradimenti derivanti dalle ideologie.
Ricordarsi di parlare della precisione del segno, quando l'intenzione che muove la mano è chiara e netta.
Ricordarsi di parlare del tempo che passa.

Harry

lunedì 18 gennaio 2010

Fare e disfare


In un mondo che teme le divaricazioni e ama le certezze, il noziosismo, le pareti spesse della conoscenza sterminata ed enciclopedica, mi limito a fare e disfare nell'atto ingeneroso della critica.
Ogni nuova esperienza (di lettura e non) modifica le mie convinzioni e le mie idee.
Non fidarti di quello che scrivo.
Impara a scegliere e sii molto comprensivo. Come un padre con il figlio.

Harry

Città 14


Il 2010 è appena iniziato.
Non mi aspettavo sorprese. E non ci sono sorprese. Se non che leggendo Città 14 mi viene voglia di cambiare di nuovo città. Gli Stati Uniti sono grandi.
Mi colpisce, di questo fumetto francese pubblicato da Planeta De Agostini, l’abilità con la quale gli autori hanno miscelato di tutto: fantapolitica, steampunk, cospirazionismo, gangsterismo, supereroismo, melodramma, funny animals.
Il tratto semplice, chiaro e stratificato di Romuald Reutimann sa raccontare al pieno servizio della storia. La sceneggiatura di Pierre Gabus è originale, si muove senza particolari guizzi, ma ha spazi accoglienti e aperture fantasiose.
Sono giorni in cui fatico a soffermarmi, ma il sincretismo di Città 14 mi ha trattenuto per un po’, con le sue dinamiche da romanzo di appendice, i suoi colpi di scena meccanici alla fine di ogni capitolo, sgraziati dal tratto anti-drammatico di Reutimann, ricco di ironia e di riferimenti iconici.


Viene da chiedersi che prodotto sia questa storia minore e divertente, pubblicata originariamente in Svizzera in piccoli albi a un piccolo prezzo e riproposta in Italia in un volume che raccoglie 14 capitoli. Senza dubbio non è liquidabile come un semplice divertissment, ché dimostra una passione per il racconto e per la rielaborazione della narrazione di genere poco comuni.
Potendo, lo si può offrire a chi di fumetti è digiuno come esempio della capacità della nona arte di assorbire, rimasticare, ingoiare e sputare fuori tutto. Non una bella metafora. Ma rende l’idea.

Harry

venerdì 15 gennaio 2010

Un problema di spazio

(c) Gino D'Antonio

Ha più bisogno di spazio l’avventura o l’intimismo?
Due mondi: la dilatazione Bonelli, formato quaderno, dalle 100 alle 300 e passa pagine; la dilatazione affettiva di graphic novel voluminose, a la Blankets di Craig Thompson.
Art Spiegalman si schiera a favore della sintesi. Si dice allergico alla storia che lo vorrebbe fondatore del formato graphic novel, e con l’esempio e la parola sostiene l’importanza della sintesi più raccolta nelle storie a fumetti.

I Bonelli hanno bisogno di spazio per ridurre al minimo la molteplicità e l’ambiguità dei codici. Il segno e le sceneggiature vengono esplicitate al limite della ridondanza e della didascalia. Eppure, un certo approccio cinematografico richiede movimenti di “camera” e tempi dilatati, in un processo a fisarmonica dove le scene passano dal singolo dettaglio (una lotta che si parcellizza nei singoli pugni, calci e spari) alla sincope, con interruzioni improvvise per passare ad altri avvenimenti o sovrapposizioni di più scene (una condotta coi disegni, una con il testo), dando al lettore la responsabilità di riempire il non detto di senso. Due buoni esempi di questi meccanismi: qualunque Julia in edicola e l’ultimo speciale di Brad Barron.

Resta il problema di adeguare le intenzioni a un modello rigido, quello bonelliano, che non sta solo nella griglia ma anche, banalmente, nel numero delle pagine e nelle sue dimensioni, o in questi elementi combinati insieme. Fosse concesso lavorare su singole splash page, una storia di 96 pagine sarebbe decisamente più sintetica. Si pensi a sperimentazioni simili nei lavori di Eric Drooker (Flood!, Blood Song). Oppure alla provocazione visiva delle vignette a dimensione francobollo di Renee French, in Micrographica. Non è possibile. Senza dubbio incompatibile con l’idea di fumetto Bonelli che, se ci pensate, salvo rarissime eccezioni, non ha mai messo in discussione il formato, lo standard. E l’autore Bonelli si trova costantemente alle prese con la necessità di dover riempire. Tanto che non ragiona più per sintesi, e lo spazio arriva a non bastare. Come nel paradosso Manfredi, per il quale le pagine sembrano sempre poche e i finali delle sue storie appaiono quasi sempre affrettati. E se gli autori provassero a scrivere come Gianfranco Manfredi scrive i finali?
Paradosso, appunto.
Neppure tanto. Penso che in periodi nei quali le didascalie erano più pedanti ed esplicative, tuttavia un autore come Gino D’Antonio con la sua Storia del West dava vita a veri e propri ottovolanti. Le vicende si chiudevano e aprivano in qualsiasi momento, all’interno del volume, salvo la necessaria chiusa finale, che però, spesso, era premessa di quel che sarebbe successo poi, in uno sviluppo orizzontale corale e organico. Avventatezza. Generosità di idee. Energia.

Nel fumetto intimista lo spazio serve all’esposizione dei sentimenti. Nell’apparente sintesi simbolica di Chris Ware e del suo Jimmy Corrigan, per molti versi agli antipodi di molti approcci contemporanei intimisti, c’è in realtà un uso della dilatazione, della ridondanza, della circolarità concettuale e della sinestesia che serve all’autore per sovraccaricare la percezione del lettore, disorientare la sua comprensione e, in un perfetto meccanismo di immersione mimetica, farlo partecipare dell’anomia dei protagonisti e alla parzialità dei processi mnemonici e biografici.
Per Ware, quindi, la lunghezza del racconto è determinante per la buona riuscita della sua storia, per l’integrità delle sue intenzioni comunicative e artistiche.
In altri casi, la lunghezza appare meno giustificata e, anche qui come in Bonelli, condizionata dal riferimento a un altro modello formale, quello del “romanzo a fumetti”. Un esempio è il già citato Blankets. Thompson paga anche la propria inesperienza, come comprenderà lui stesso confrontandosi con molti autori francesi della new wave, ma è difficile per l’autore allontanarsi dal condizionamento del “grande romanzo americano”. A fumetti.
Un libro recente, Swallow Me Whole di Nate Powell, cade nello stesso errore, producendo un meccanismo che si inceppa, disequilibrato e poco organico, con alcuni momenti efficaci e altri poco significativi o involuti.

In Italia le cose vanno meglio e peggio. Un buon esempio di dilatazione ambigua è Morti di Sonno di Davide Reviati, uno dei migliori libri del 2009, che fa della sua disorganicità scomposta un suo punto di forza. Strano a dirsi, è difficile decidere cosa tenere e cosa buttare di un libro di memorie che appare una discarica abusiva di eventi passati, ricordi e indecisioni. Il libro è scomposto, lo stile diseguale, ma supportato da una sensibilità decisa e senza mediazioni, da una chiara visione delle cose, da un’urgenza narrativa che colpisce, senza impallidire. Poteva essere più breve? Poteva, Reviati, raccontare quelle vicende diversamente? Forse no, pena la perdita della voracità dell’istinto narrativo.

In ogni caso la narrazione intimista ha bisogno di spazio per fermarsi, per lasciare che il lettore recuperi da sé le proprie emozioni, possa entrare in sintonia, partecipare, osservare. L’estrema sintesi narrativa brucerebbe i momenti, le sensazioni, le evocazioni. Negli esempi più riusciti, gli autori lavorano in modo obliquo, e lo spazio permette di non prendere gli eventi direttamente, di girare intorno, e offrire punti di vista inediti al lettore. Lo fa Gilbert Hernandez nella sua Zuppa dei Cuori Infranti (Love & Rockets) e non ha molti eguali in questo.
Non lo sa fare Davide Toffolo con i suoi lavori, dove l’uso del simbolo appare troppo funzionale a un sentimentalismo egoico e virtuosistico. E l’attesa e il vagare faticano a coinvolgere il lettore più smaliziato.

Il richiamo alla sintesi di Spiegelman, d’altra parte, appare più didattico che funzionale. I suoi lavori escluso Maus rischiano di apparire semplici spunti di idee non elaborate. Giochi creativi pigri, dove pigrizia sta per mancanza di rielaborazione, appunto. Spiegalmen rischia di essere visto come l’autore da un’opera sola, e di rimanere imprigionato nell’incantesimo underground anche quando l’underground è concettualmente morto, finito e liquefatto, persino ai suoi stessi occhi. Troppo consapevole per cadere ingenuamente in questo gioco, credo tuttavia che l’autore viva una conflittualità interna che lo spinge a minimizzare sforzi e mezzi. Per fuggire a un confronto?
Fatto è che alcune storie di Spiegelman appaiono gioielli formali appoggiati su ottime idee, ma che non respirano per davvero. Al lettore non viene offerto letteralmente lo spazio per divagare, recuperare, evocare, soffermarsi, compatire, partecipare. Il lettore usa la testa o perde. Il lettore deve adeguarsi alle condizioni che l’intransigente Spiegelman pone.
Intransigenza artistica. Non per forza un limite o un peccato.
Ci tornerò su.


Harry


(c) Art Spiegelman

giovedì 14 gennaio 2010

Canone Milleriano


Paolo Interdonato, aka Sparidinchiostro, nel suo blog, decide di essere buono e parlare di supereroi. Di alcune storie di supereroi che ama.
Non sto qua a riflettere sull’utilità o meno della premessa – la presunta bontà – che rivela, non so, un disagio intellettuale…? O un semplice gioco catartico?

Mi colpisce, piuttosto, la chiusa a proposito del Devil di Brian Michael Bendis, nella quale Interdonato evidenzia la validità della matrice originaria del personaggio, che è caratterizzata dalla conflittualità tra giustizialismo (dei vigilanti) e giustizia (dell’avvocatura). Riflettendo sulla natura di Daredevil e le sue prime storie, del sempre presente Stan Lee, mi vien da chiedermi se tali potenzialità non derivino, più che dalle idee originarie, dal canone Milleriano, dal lungo ciclo recentemente ristampato da Panini che ha letteralmente reinventato il personaggio.
Miller ha visto e glorificato quel che già c’era in Devil, o ha creato da zero un personaggio (prima) anonimo e inconsistente?
Certamente, l’incapacità di Devil di affermarsi nell’immaginario statunitense (prima di Miller), ha dato la possibilità alla Marvel di lasciare che il personaggio venisse rinnovato radicalmente.
Cosa che, per esempio, non fu mai possibile con Spider-man, dove ogni tentativo di allontanamento si è rivelato in fin dei conti un timido giro di boa.

È da Miller che riparte Bendis, o da Daredevil?
In effetti, la domanda potrebbe essere pleonastica.
E ammetto di non ricordare le storie di Gerber.
Ma quelle di O’Neil e McKenzie sì. Ahimé.


Harry.

Incipit


Sono affascinato dagli inizi. Sento il bisogno di iniziare la lettura di nuove storie, quasi ogni giorno.
Mi piace aprirmi alla sorpresa, della prosa, dei disegni, dell’inatteso. Gli svolgimenti, come nella vita, sono sempre più prevedibili e noiosi.
Perché definiti da regole più precise, da abitudini consolidate, da aspettative granitiche.

Si può decidere di rompere qualche tabù in più?

Harry

martedì 12 gennaio 2010

(In)fedele



Per chi, come me, conosce e ricorda le storie di Tex che hanno fondato le sue origini e, perché no, la sua longevità, quelle scritte da Gianluigi Bonelli e da un eccellente staff di disegnatori, di "artigiani e impiegati" del tavolo da disegno, sa che la loro forza principale era il movimento.
Al puro servizio della fantasia, dell'invenzione e dell'avventura, Bonelli portava Tex e i suoi amici in giro attraverso eventi in continua, soprendente successione. Un po' l'opposto, paradossalmente, del Tex concepito dall'ultimo Claudio Nizzi che appare stanco e statico quanto lo scrittore.
Questa caratteristica, il dinamismo, si manifesta attraverso un'attenta costruzione della sceneggiatura e un processo di sintesi narrativa che è un difficile equilibrio tra familiarità delle situazioni, eventi inattesi, movimento di "camera", cura dei particolari e rappresentazione simbolica del mondo "western all'italiana" e dei suoi "abitanti".

L'uomo di Baltimora, di Tito Faraci e Giovanni Bruzzo è, a mio avviso, un esempio di come quel modo di concepire Tex sia ancora attuale ed efficace. La classicità del personaggio passa attraverso un chiaro ritorno a quello che lo ha reso divertente e longevo, appunto. Faraci, si sa, studia Bonelli e il suo Tex da tempo. E lo fa bene, catturandone l'indole e lo spirito. Senza mediazioni e senza sentimentalismo o nostalgia.
Bruzzo, alla sua prima prova con Tex dopo anni di Mister No - pur rifacendosi a chiari riferimenti per quanto riguarda soprattutto la caratterizzazione dei volti di Tex e figlio che, ahimé, a volte appaiono fuori registro e troppo derivativi rispetto al resto - offre in ogni caso un'interpretazione dinamica e in sintonia con la sceneggiatura.
L'uomo di Baltimora è quello che, nella mia testa, dovrebbe essere la serie di Tex: diversa dallo stile drammatico del pur ottimo Boselli, un avventuroso personaggio senza mediazioni esistenziali e strutturato attraverso taglienti, rapide e centrate caratterizzazioni dei personaggi.
La strana "spalla" di questo numero, uno scrittore/disegnatore che osserva da fuori, ma senza evitare di intervenire quando serve, rappresenta l'idea stessa alla base dell'ennesima re-interpretazione di un personaggio storico, che fa dell'infedele fedeltà alla matrice originaria la sua essenza.

Harry

mercoledì 6 gennaio 2010

Circus

kusty the clown (c) matt groening


Durante le feste natalizie è tempo di circo alla televisione.
Il circo è fatto di tanti piccoli o grandi eventi eclatanti in successione: il salto dal trapezio, un passaggio di birilli, una caduta maldestra, un leone nel cerchio infuocato...
Ripenso all'importanza di una buona regia osservandone una pessima: all'ennesimo evento eclatante che mi perdo per una scena mal inquadrata, dove l'inutile movimento delle macchine annulla il reale movimento dei trapezisti, decido di spegnere e leggere un fumetto di guerra di Harvey Kurtzman.
Troppo autocompiacente, Kurtzman? Troppo consapevole dei suoi mezzi e del fumetto? Ma che regia!

Il fumetto vive di una buona scelta di momenti eclatanti in successione, piccoli o grandi che siano.

Harry

domenica 3 gennaio 2010

Il Fantastico secondo Gesù Cristo

un sorprendente ritratto di saramago

Prima premessa
: nella parentesi natalizia ho avuto l’opportunità di terminare la lettura de Il Vangelo Secondo Gesù Cristo di José Saramago, pubblicato in Italia da Einaudi.
Seconda premessa: quello che scrivo di seguito è un’intuizione legata a un sottile filo rosso.
Terza premessa: esistono infinite possibilità di esplorare l’analisi del fumetto. Ti chiedo pazienza.

Prima distinzione: Il Vangelo Secondo Gesù Cristo di Saramago è un romanzo e non un fumetto.
Seconda distinzione: ritengo che Saramago sia un autore per certi versi accostabile a un’idea di fumetto, per l’uso che fa della lingua e della sintassi. L’autore portoghese infatti ha costruito un suo modo di raccontare, di sviluppare i dialoghi, di separare linguaggio diretto e indiretto che non ha eguali nelle opere di narrativa. C’è in lui una voglia di giocare con i segni delle parole e della punteggiatura, con i simboli che nascondono e svelano, che ci dice di un approccio idiosincratico, quasi – segnico – appunto, come a dire disegnato, rappresentato visivamente.
Terza distinzione: Saramago è premio nobel per la letteratura, ha quasi ottantotto anni e scrive un suo blog in portoghese, tradotto in italiano.
Quarta distinzione: Il Vangelo Secondo Gesù Cristo non è un’opera sacra né biografica. Io la inserisco nel genere fantastico o, si sarebbe detto un tempo, epico.
Quinta distinzione: parlo di letteratura per riflettere su di un autore di fumetti che conosci bene, Neil Gaiman, che del racconto fantasy inteso in senso lato ha fatto la sua fortuna.
Sesta distinzione: Gaiman scrive romanzi e fumetti, ha quasi cinquant'anni e scrive un suo blog in inglese, tradotto in italiano.

Epifania: Il Vangelo Secondo Gesù Cristo ha tutte le componenti del racconto di genere, la contrapposizione tra bene e male, le divinità che si manifestano e che guidano le scelte dell’uomo, l’uomo pedina che cerca di contrapporsi al volere degli dei, il doppio tradimento della volontà umana, illusa e derisa. Questo è solo un punto di vista sul Vangelo di Saramago, ché alcune chiavi di lettura hanno portato la Chiesa Cattolica a definirlo blasfemo. Sarà perché Gesù ha una relazione sessuale duratura con Maria di Magdala, sarà perché la madre di Gesù non era vergine e ha partorito nel dolore, sarà perché Gesù compie miracoli come Mago Merlino al tempo della tavola rotonda, in modo strumentale e spettacolare, sarà perché Gesù si contrappone apertamente e inutilmente a Dio, cercando una morte da re (mancato) piuttosto che da figlio di Dio (realizzato).
In ogni caso, l’opera di Saramago è un esempio per tutti su come si può costruire un capolavoro fantasy per adulti senza cadere nei soliti trucchetti de Il signore degli anelli, senza elfi e streghe, ma con uomini reali, in carne e ossa, e con talmente tanti livelli di lettura da nascondersi, celarsi a questa semplice constatazione. Siamo di fronte a una sfrontata allegoria, dolorosa e generosa.
Quello che, a mio avviso, dovrebbe essere un lavoro epico e fantastico, appunto. Saramago, con questo libro, ha duramente messo alla prova se stesso e le aspettative dei suoi lettori.


autoritratto di gaiman elaborato da dave mckean

Crocifissione: Un lavoro epico e fantastico è quanto Neil Gaiman ha tentato di fare con la sua fortunata serie The Sandman negli anni ’80.
Sandman è l’edificazione dell’intellettualismo a fumetti fatto a modello. Di fronte alla necessità di dare una diversa validità a un prodotto per ragazzini, i comics, la DC Comics si apre all’etichetta Vertigo e dà voce, tra le altre, alle vicende del signore dei Sogni imbastite da Gaiman (lo so, la Vertigo nasce dopo Sandman, come necessità di raccogliere sotto un cappello editoriale un gruppo di opere, tra cui Swamp Thing e Hellblazer). L’autore inglese, in un perfetto processo di popolarizzazione colta, cattura e rimescola miti delle più diverse culture, le fertilizza con la coltura dell’antieroe revisionistico post Watchmen, le normalizza per dare forma all’opera fantasy a fumetti più importante della storia del fumetto statunitense (ma Bone di Jeff Smith è di gran lunga più riuscita). Ne nasce un modello. Che a mio avviso tiene a fatica il passo coi tempi che passano, ma che ha alcuni significativi pregi, comuni, perché no, ai pregi de Il Vangelo secondo Gesù Cristo, per esempio quello di passare per qualcosa che non è e di offrire molteplici livelli di lettura. Purtroppo è schiacciato, come dicevo, da un intellettualismo da fumettisti frustrati ed egocentrici che è difficile mettere da parte. In ogni caso Sandman diventa un modello. Per molti. In primis per Gaiman, che diventa schiavo di uno stile e di un genere di successo.

Divaricazione: Saramago crea un’opera unica nella sua produzione, pur con importanti segni di continuità con altri suoi lavori, e crea un’epopea fantasy rinnovando il genere dal di fuori. Gaiman non esce più dal solco tracciato e si spegne, lavoro dopo lavoro, riciclando furbescamente per la narrativa quel che aveva raccontato a fumetti (Nessun Dove, American Gods) o, peggio, proponendosi come specialista del fumetto per le storie sulle divinità epiche (Eterni della Marvel Comics).
Accostamento: proprio come il figlio di Dio in Saramago che è legato a un destino immobilizzante, così l’autore britannico non potrà più smettere di portare i segni della propria croce e di assumersi le responsabilità per tutto quello che sarebbe venuto dopo: House of Mystery, Death, Lucifer, Destiny, The Dreaming …
Morte, distruzione e noia.

vignetta di Randy Milholland


Harry


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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.