mercoledì 28 gennaio 2009

Fumetti e concetti


Ci sono autori di fumetti che non sanno cosa dire della loro arte.
Di fronte a un fuoco di domande sul significato di certe scelte si sentono in imbarazzo. Nel migliore dei casi dicono non ci avevo pensato. Nel peggiore dicono non mi interessa.
Non per questo sono autori meno bravi. Anzi!
Il loro approccio è molto utile per ricordarci che prima ancora che un lavoro concettuale, quello del fumettista è un lavoro che ha molto più a che fare con il fare. Le sperimentazioni partono spesso da tentativi ed errori realizzati direttamente sulla carta. Molto meno da astrazioni e riflessioni anteriori.
Il lavoro di Gipi ne è un esempio. Come ammette brevemente nel suo blog, di fronte alla mia recensione (e a quella del valido Oliva su UBC) si sente quasi impreparato. Il nostro lavoro è concettualizzare, quello degli autori è fare. In effetti, diffido molto degli "artisti" che parlano più di quanto fanno. Giovanni Allevi è uno di questi. A sentirlo parlare sembra il nuovo Beethoven, a sentirlo suonare sembra l'Eros Ramazzotti del pianoforte (con tutto quel che di negativo si può accostare al nome Ramazzotti).

Quindi, il fumetto si fa. Quindi, il mestiere lo si impara in "strada", sporcandosi le mani.
Per questa ragione, parlando con diversi autori, troverete che hanno cercato di risolvere gli stessi problemi narrativi ognuno con modalità diverse, proprie. Ognuno con il proprio ingegno e la propria fatica. Una bella dispersione di energie, no?
Ma anche una bella sfida sempre nuova. Credo sia anche per questo che il fumetto presenta così tante possibilità espressive diverse, perché è ancora un territorio poco esplorato sul piano concettuale. Certo, c'è alla base un problema legato all'insegnamento del fumetto, così come una latitanza evidente di parte della critica specializzata. Ma sono convinto che si tratti di una caratteristica genetica del fumetto.

Mi ricorda un po' il jazz. Fino agli anni '70 le cose stavano proprio nello stesso modo. L'approccio dei musicisti era prevalentemente espressivo. Le esplorazioni nascevano dal suonare, dalle alchimie di esperienze diverse che si fondevano per creare qualcosa di imprevedibile e unico. E poi?
Lo sviluppo di scuole specializzate, di modelli espressivi riconosciuti, di una critica sempre più affermata e preparata e la stratificazione delle esperienze ha portato un forte inaridimento. Tutto sembra già fatto, suonato, sperimentato. Concettualizzato.
E chi prova ad esprimere qualcosa di originale e sentito, nel jazz, sembra spesso muoversi per differenze o per contrasto rispetto a precisi modelli.
Succederà lo stesso nel fumetto? Mi auguro di no. Le due forme espressive hanno molti aspetti comuni ma molti più aspetti che le differenziano.
Forse un giorno approfondirò le assonanze, potrebbe essere un buon esercizio.

In ogni caso, se qualcuno fosse interessato a leggere una (non)intervista che ben rappresenta un autore della categoria di cui sopra, consiglio quella contenuta nel numero 294 del Comics Journal al grande autore norvegese Jason. L'intervistatore ci prova in ogni modo e Jason risponde continuamente non so, l'ho fatto e basta. Diventa quasi snervante! Non avrei voluto essere nei panni dell'intervistatore.



Ultima nota: anche Gipi ha l'onore (e l'onere) di essere intervistato dalla più importante rivista di critica statunitense. La trovate sul Comics Journal 295.

Harry.

martedì 6 gennaio 2009

Esordienti



Sarà che ho appena terminato di sfogliare per l'ennesima volta Dream Of A Rarebit Fiend di Winsor McKay, sarà che non sono contento di come stanno andando le cose nella Striscia di Gaza e come (non) interviene il nostro governo del neopresidente Obama... sarà, ma ripensavo a casa Bonelli con un certo rammarico.
Il mese di dicembre ha visto l'esordio su due testate ammiraglie, Nathan Never e Dylan Dog, di due nuovi sceneggiatori: il poco conosciuto Davide Rigamonti sulla prima, il più che noto Roberto Recchioni sulla seconda. Entrambe le prove, lo dico subito, sono decisamente deludenti.
Del Dylan Dog di Recchioni ho già scritto.
Del Nathan Never di Rigamonti accenno solo che si tratta di una storia con un soggetto debolissimo e trito (che reinterpreta per l'ennesima volta un certo immaginario a la Psyco), una trama noir che si risolve per la forma di un copertone di automobile e per il comportamento incomprensibile di un'azienda che è tangenzialmente coinvolta nella spirale di violenza. Insomma, un soggetto a dir poco stiracchiato, che appare complessivamente infantile. Ma quel che più pesa è la sceneggiatura. Lo sai, anche un pessimo soggetto può essere salvato da una buona scrittura complessiva della storia. Qui al danno si somma la beffa. Rigamonti interpreta perfettamente la parte del classico (e per classico leggasi vecchio) sceneggiatore Bonelli: i dialoghi sono stereotipati, prevedibili e impersonali, il ritmo della storia è senza guizzi, meccaniche le svolte risolutive. Quel che è peggio è leggere ancora oggi, a fine 2008, dopo migliaia di pagine popolari, quei dialoghi irrealistici tra i personaggi che servono solo a spiegare al lettore rincoglionito dal gelo cosa sta succedendo, o dare informazioni pleonastiche su personaggi, contesti, eventi (un solo esempio, il dialogo surreale tra i due guardiani dell'ospedale psichiatrico).
Che questo ti basti per dire dell'eccezionalità negativa della storia.
Trovo anche significativo che entrambi gli esordi siano accompagnati ai disegni dai due autori più rappresentativi delle serie: De Angelis e Brindisi. Di fronte a due sceneggiature simili, i due "veterani" delle serie hanno tenuto il passo, con una prova buona ma spenta. Senza entusiasmo, si direbbe. Ma la scelta di casa Bonelli è testimonianza quanto meno di una cosa: che sui due esordienti si è deciso di investire, eccome. E veniamo al vero problema.
Temo che la responsabilità maggiore per l'insuccesso di questi due esordi non sia dei due sceneggiatori, ma della redazione o, forse, delle logiche che guidano il lavoro di redazione. Tanto che non credo sia possibile dividere tra le colpe reali del meccanismo intrinseco Bonelli e le responsabilità degli autori che ad esso si adeguano a priori, per non rischiare, si direbbe.
Fatto sta che, non volendo scoprirsi e scorpire la propria voce di autori, Recchioni e Rigamonti interpretano un cliché, fanno la parte degli autori automi, generando mostri invece che gemme.
Lo sai, non mi riferisco alla necessità di realizzare rivoluzioni o trasformazioni del personaggio. Quanto di offrire una propria interpretazione che non parta dalla rimasticazione di vecchie storie o vecchie modalità, ma dalla voglia di offrire un punto di vista vivo e vitale di quel personaggio. Se su Dylan Dog, schiavo del meccanismo sclaviano del buonismo e orfano del suo tempo, ciò appare assai difficile, Nathan Never, grazie alle sue continue evoluzioni e al coraggio di altri autori di sviluppare storie più al passo coi tempi, le possibilità le offrirebbe eccome.
Ma il meccanismo è lì. Ed è quello che spegne la forza narrativa di altri validi autori (Diego Cajelli?) o che porta l'ottimo Boselli a realizzare le sue migliori storie su Tex (destino che forse, a breve, condividerà anche Manfredi).
Sono il solo a pensare che qualcosa non funziona?

Hanry.


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