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giovedì 6 gennaio 2011

Fuori dalle scuole?

(c) will eisner



Sergio Brancato chiacchiera con Davide Occhicone su LoSpazioBianco. Un'intervista densa e stimolante.
Prima, un chiarimento semplice quanto necessario, a proposito della critica amatoriale, che condivido completamente, perché in fondo è di questo che parlo ogni giorno:
I gior­na­li­sti che scri­vono per i gior­nali sono molto pochi, quindi la cri­tica diventa sem­pre più, oggi, un eser­ci­zio ama­to­riale. Atten­zione: non dilet­tan­ti­stico, ma ama­to­riale nel senso di moti­vato pas­sio­nal­mente, di un desi­de­rio di inte­ra­zione con la comu­nità di rife­ri­mento. 

La chisura dell'intervista, che riflette sullo specifico del fumetto nel mondo odierno, mette in luce la sua caratteristica meticcia e, forse con un moto di orgoglio quasi eccessivo, ne evidenzia una portata proto-rivoluzionaria
[...] il fumetto rie­merge in nuove forme, ad esem­pio come labo­ra­to­rio spe­ri­men­tale sot­to­stante l’evoluzione del cinema e degli audio­vi­sivi in gene­rale. Oppure, come sostiene Daniele Pane­barco, leg­gen­da­rio comic-maker degli anni ’70, intro­du­cendo nella cul­tura di massa quella moda­lità di rac­conto iper­te­stuale, basata sul costante rimando tra diversi codici di comu­ni­ca­zione, che è alla base dei lin­guaggi digi­tali. In altri ter­mini, senza la pre­e­si­stenza del fumetto, dif­fi­cil­mente si sareb­bero svi­lup­pate le forme di comu­ni­ca­zione attual­mente in voga presso i gio­vani.
Un sotto-testo culturale, quindi, quello fumettistico, che secondo Brancato sarebbe stato funzionale all'evoluzione dell'era digitale.

Infine, riprendo un passaggio che non mi sento di condividere, e che è figlio di un pessimismo educativo che potrebbe essere superato:
No, non credo che por­tare il fumetto nelle scuole por­te­rebbe grandi van­taggi, fini­rebbe per diven­tare come la Divina Com­me­dia, un’opera bel­lis­sima ed entu­sia­smante che abbiamo dav­vero sco­perto, da soli, dopo che aveva finito di essere un obbligo didat­tico.
Secondo questa logica, l'insegnamento scolastico andrebbe via via impoverendosi sempre più, senza alcuna possibilità di rinnovarsi al passo con i tempi. Piuttosto che non far entrare il fumetto nelle scuole, sarebbe importante formare gli insegnanti affinché lo sappiano insegnare. Se non è raro trovare insegnanti inadeguati a trasferire le emozioni di alcuni capolavori (come la Divina Commedia citata da Brancato), ritengo che la scuola sia ancora oggi un luogo dove i giovani possano ricevere stimoli, fascinazioni e vocazioni per il loro futuro. Non togliamo a priori questo potenziale. Piuttosto, ripensare alla scuola pubblica, senza maschere ideologiche a coprire tagli indiscriminati, potrebbe comprendere anche riflettere sul ruolo del fumetto come materia di studio e/o come strumento di insegnamento.

Harry

(tutta l'intervista qui)

giovedì 22 ottobre 2009

Sporchiamo il fumetto di reale


Prima di tornare a parlare di cose futili, apro una nuova parentesi; mi piace divagare – chiusa parentesi (come nei blues di Jimi Hendrix dove la sua chitarra improvvisa per divagazioni che si sa quando iniziano ma non quando terminano).
Ho parlato della necessità di intellettuali, della necessità che i fumetti parlino dell’oggi, che facciano opinione e cultura, della necessità che i fumettisti incontrino il mondo fuori, gli intellettuali altri, quelli che, ancor poco, contano. Qualcosa succede, è successo.
A Milano in questi giorni (da ieri a domenica) apre le porte un nuovo festival, Streep, che sembra anch’esso una divagazione: una parentesi prima della grande mostra-mercato di Lucca (che cambia nome in festival, una sciccheria, diventa europea, ma non cambia pelle, per fortuna); una parentesi nell’anonimato e nell’invisibilità della scena culturale e fumettistica milanese.
A inizio ottobre, poi, c’è stata una festa (non un festival) di Internazionale a Ferrara, dove il fumetto, anche lì, si è aperto all’altro, si è fatto conoscere.
La matrice comune sembra essere il comics journalism, di cui è più facile tracciare un’evoluzione (non una storia) che una definizione, come ci hanno mostrato Stefanelli e Interdonato sul primo volume di Doonsbury, l’Integrale. Il giornalismo a fumetti, in questi anni di crisi mondiale del giornalismo, dove si colloca? Cosa rappresenta? In quale relazione con il reale? È questo il fumetto che parla dell’oggi di cui rivendico l’assenza, ma che vedo come una delle più grandi potenzialità della nona arte?
Se nel comics journalism si nasconde Gipi, insieme a Spiegelman, insieme a Parisi, insieme a Munoz, insieme a Chapatte e a Sacco… mi chiedo cosa differenzia l’autobiografia, dalla testimonianza, dall’inchiesta, dal racconto storico-biografico, dalla verosimiglianza, …?
Non confondetevi. Pensate al termine comics journalism, così come lo sentiamo in questi giorni, come a un grosso contenitore, un’etichetta che contiene più di quanto esclude. Bene, pensiamo per canoni inversi e lasciamoci sorprendere, da Deaglio che intervista Spiegelman (era ieri sera), da Robecchi che intervista Gipi, dagli incontri, dal fumetto (senza eccezioni, senza etichette) che incontra il reale. Da qui possiamo partire, per arricchire di contenuti il contenitore di cui sopra, e scoprire, pian piano, nel tempo, che il giornalismo a fumetti è forse più un mezzo dialettico che una definizione, un veicolo. Perché Parisi che disegna il jazz di Coltrane non è giornalismo, come non lo è il suo libro, se non fosse che, guarda caso, la musica di Coltrane ha avuto (ha?) una portata culturale, politica, sociale, esistenziale, esoterica, … che si rinnova continuamente, in ogni rielaborazione e rievocazione. Almeno quanto la voce inconfondibile e provocatoria del “complice” Ornette Coleman, che ancora oggi, grazie al cielo, suona e produce (music journalism). Una testimonianza.
Sporchiamo il fumetto di reale.
Solo l’inizio?

Harry


venerdì 18 settembre 2009

E se si incontrassero?


Ricordate cosa scrissi a proposito del fumetto e degli intellettuali? Probabilmente no. Potete rileggerlo qui, oppure accontentarvi di questo: la nostra attualità ha bisogno di nuovi intellettuali, e ha bisogno del fumetto come forma di “arte povera” che sappia reinterpretare la nostra realtà, fuori dai soliti “canoni” e schemi. Secondo me, le due cose potrebbero muoversi di pari passo.

Il fumetto appare e scompare dalla nostra cultura e dalla “società civile” come un fantasma. Sembra mancare di sostanza e di solidità. Striscia come un topo nel buio, all’ombra dei muri della letteratura e del cinema. Poi qualcosa accade, e del fumetto tutti parlano, per un giorno o due. Quando Disney compra Marvel, quando Batman muore, quando la Fiera del fumetto di Lucca registra uno straordinario record di affluenza. È febbre, come l’influenza. Si prende la medicina e si ritorna tranquilli, nell’ombra.

Esistono decine di fiere del fumetto ogni anno in Italia che passano inosservate, che muovono poco o nulla, e soprattutto che non fanno cultura. Poche, pochissime fanno incassi, nessuna fa cultura.

Unica eccezione, forse, BilBOlbul della benemerita Associazione Hamelin, un festival del fumetto all’interno della città di Bologna, che di Bologna valorizza spazi e luoghi e forme, che avvicina studenti universitari ad autori affermati, che presenta altri fumettisti, nuovi, giovani e straordinari. Attraverso uno sforzo organizzativo di rilievo, mostre, rinfreschi, interviste, workshop si susseguono per giorni. Ne parlano i giornali locali, ne parla qualche rivista, ma non riesce, il festival del fumetto, a superare la barriera dell’indifferenza.

Durante il festival del cinema di Venezia, o i festival della letteratura di Mantova e Torino, sono numerosi i collegamenti, i servizi, le interviste. Tutti più o meno per le ragioni sbagliate, per la star che piscia fuori dal vaso, per l’autore di best-seller che dichiara qualcosa di scomodo su Israele… Ma in quella cortina di fumo si celano anche buoni frutti, che basta osservare con attenzione e cogliere. La cultura di oggi si muove sempre sporcata dalla sovraesposizione e dalle sciocche mistificazioni. Esattamente come la scuola, come internet. È la logica della controcultura de-istituzionalizzata che si espande. Si può dire che oggi, qualunque forma di rappresentazione credibile della realtà, non guidata cioè da obiettivi di marketing, non pretestuosa, che sia di destra (esiste una cultura di destra al di là del marketing?) o di sinistra (e una cultura di sinistra che sappia guardare al futuro?), qualunque forma di rappresentazione, dicevo, deve essere scoperta, recuperata nel mare magnum della sovraesposizione, assumendo in questo modo una caratteristica essenziale della contro-cultura.

Ebbene, i festival del fumetto, le fiere, le iniziative dovrebbero rimbalzare tra i media, nelle radio, per le ragioni giuste o sbagliate, fino a imporre un’attenzione oggi inesistente. Ricordate Oreste Del Buono? Forse qualcuno della cultura altra, gli intellettuali che ancora esistono in Italia, i pochi, dovrebbe dare una mano al fumetto, entrandoci e, per reciprocità, facendolo uscire.

Ed allora, forse per superare questa cortina di ferro, per trovare una visibilità che superi il solo qualunquismo dei temporali estivi, ed assuma anche marginalmente un valore culturale, un primo passo sarebbe quello di far incontrare l’intelligenza sotterranea degli autori di fumetti con l’intelligenza manifesta degli intellettuali. I primi potrebbero trovare un modo per ri-emergere, ri-apparire, e i secondi potrebbero riscoprire la forza di un linguaggio e una forma espressiva viva, vivace e aperta, tremendamente aperta, come poche altre.



Harry

domenica 7 settembre 2008

Intellettuali?


In un mondo migliore esisterebbero ancora gli intellettuali.
Non quei noiosi chiacchieroni da salotti televisivi. Quelli che riempiono le tv di tutto il mondo occidentale con occhiali improbabili, pose da star e voci altisonanti da cocainomani.
Ci sarebbe bisogno di intellettuali che hanno ancora qualcosa da dire, che sono ancora in grado di interpretare la nostra attualità, di offrirne una visione provocatoria, sentita, di parte.
Intellettuali che sappiano prendere parte, appunto. È, questa, una delle più gravi mancanze del nuovo millennio.
In Italia la situazione è anche peggiore.

I nuovi intellettuali, che attendo come il sole all’alba, dovrebbero conoscere e rappresentare le arti povere. Fanculo gli intellettualismi borghesi. Spero nel ritorno all’artigianato. Manuale o virtuale, materico o informatico poco importa.
E quale, tra le arti giovani, è la più artigianale di tutte?
Senza alcun dubbio il fumetto. Sono convinto che l’unico modo che ha il fumetto per diventare adulto, per essere preso sul serio, è che venga rappresentato da autori capaci di esprimere una propria visione del mondo, che la sappiano affermare a tutti, che diano forza alla loro voce, che sappiano prendere parte. Per i nuovi intellettuali il fumetto dovrebbe essere la poesia di un tempo.
Penso che il fumetto sia una delle forme di comunicazione più efficaci per sbattere in faccia alle persone questa realtà compromessa. Per sollevare qualche velo illusorio.
E invece è così triste vedere il nostro fumetto “popolare” che si occupa di tutto tranne che di attualità, che racconta di vivisezione attraverso una favoletta preconfezionata, che punta gli occhi sul dolore senza capirlo, muovendo solo facile compassione, che si rifugia nella rassicurazione della narrazione di genere, senza guizzi né originalità. Il fumetto di genere dovrebbe essere una risorsa, una possibile metafora, non un canone da ripercorrere all’infinito, già scritto.

Il fumetto ha bisogno di intellettuali che siano nella società e dalla società alzino la loro voce.
La nostra cultura ossidata e addormentata ha bisogno del fumetto.
Harry


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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.