venerdì 25 giugno 2010

Educazione (alla lettura) - prima parte



Leggi. Segna un punto a tuo favore! Passaparola.

Nella televisione generalista, alle 8 di mattina, mi capita di vedere una pubblicità (al link è possibile vederla).
Un gruppo di pre-adolescenti, all'interno di un campo di basket, si passa di mano in mano a turno un libro, un fumetto (?!), un quotidiano finché, di fronte al canestro, tensione, un ragazzino lancia il quotidiano e segna. La frase riportata in apertura è il claim che chiude lo spot.
Cosa suggerisce questa pubblicità?
Di primo acchito, che leggere è una barba, che è molto più divertente giocare a basket e che le riviste e i libri possono finire in un cestino.

Leggere non è semplice e non è riposante. Leggere è impegnativo. Soprattutto per i bambini. Richiede di fermare la propria attività fisica, di assumere posizioni scomode, di concentrarsi, di decodificare, di interpretate, di ricordare, ...
Una tale attività viene fatta se ottengo qualcosa di importante in cambio. Trattandosi di bimbi, la soddisfazione deve essere quasi immediata: creatività, immaginazione, evasione, manipolazione fantasiosa della realtà, apprendimento divertente. il bimbo può imparare che dalla lettura può ottenere questo e altro, partecipando di un immaginario straordinario e potenzialmente infinito, ovvero senza limiti.
Su un piano prettamente fisico, la lettura di un libro è molto più impegnativa e più statica: le parole sono un mare infinito, le pagine si voltano molto lentamente, l'occhio si stanca e si addormenta. Un fumetto ha un potenziale molto maggiore, rimanendo strettamente sull'aspetto esperenziale, perché l'occhio è stimolato in modo più ricco e vario, c'è movimento, le pagine si attraversano e superano più velocemente. Sul piano psicologico ed emotivo naturalmente le cose variano a seconda del tipo di libro e del tipo di fumetto. Ed è una storia che affronterò un'altra volta.

Ma tornando alla pubblicità di questa mattina, trovo assurdo che vengano usati i "codici" di una partita di basket per invogliare alla lettura, che gioca su piani totalmente diversi. Per stimolare alla lettura sarebbe importante suggerire la ricchezza potenziale che si aprirebbe al nostro immaginario attraverso le pagine stampate, un "codice" che suggerisca libertà, creatività e fantasia. E non di buttare un giornale in un cestino!

Harry

Perdiamo spazio (e tempo)



Ho parlato e continuo a parlare di spazio (e tempo).
Per un approccio opposto a quello di Robin Wood nel suo Dago settimanale (o Ristampa che dir si voglia), puoi leggere l’ultimo Texone in edicola, I Ribelli di Cuba, con soggetto di Nolitta (Sergio Bonelli), sceneggiatura di Boselli e disegni di Suarez. Soffermati su tutta la prima parte, ambientata negli Stati Uniti, e capirai chiaramente la necessità di “perdere tempo”, di “riempire spazio”. Se tu fossi un provetto sceneggiatore seriale, che devi macinare centinaia di pagine a numero, faresti lo stesso? È una forma mentis, un’esigenza legata alla prassi, ai meccanismi produttivi. Se quella stessa parte fosse stata sintetizzata maggiormente, Nolitta e Boselli avrebbero dovuto trovare una nuova idea per occupare lo stesso spazio, o allungare ulteriormente la successiva ambientata a Cuba. È un fatto di economicità, prima ancora che di equilibrio narrativo. Perché quella dilatazione iniziale non trova alcuna motivazione intrinseca all’intreccio.
Rifletti su questo, e sulle opportunità che si perdono.
Se, come dice Barbieri, Dago funziona grazie al ritmo e al rito, in questa "super" storia di Tex il ritmo è zoppo e il rito... il rito è inutile.
Mi scuserai l’eccessivo schematismo della segnalazione.

Harry.

mercoledì 23 giugno 2010

Delle umane passioni



Ancora a proposito di Dago.

C'è una domanda che mi pone Daniele Barbieri. Del perché dopo tanti anni, dopo che Robin Wood ha percorso e ripercorso le stesse vicende con le sue (in)finite varianti, Dago sia ancora una delle letture più interessanti del panorama seriale italiano. Si può rispondere in molti modi. E il primo, quello più competente, sarebbe nell'analisi del modo, della tecnica, degli espedienti narrativi messi in atto da Wood e Gomez. Qualcosa ho accennato già. Qualcosa andrebbe approfondito, eccome.
Ma osservando da un altro punto di vista la risposta è antropologica: Wood sa raccontare la vita nei suoi bisogni primari. Prima ancora che tecnico, è un successo basato sulla sensibilità artistica dello sceneggiatore. Wood mette a nudo le dinamiche primarie che muovono le esistenze. Il filtro della guerra in forma di dramma svela gli attaccamenti, il desiderio sessuale, il bisogno di affermazione, la crudeltà, la fame, la vendetta, la sacralità della vita, e così via. Di questo Wood sa raccontare alla perfezione. E ogni tassello, ogni ritorno, ogni variazione, offrono un'opportunità di comprensione. Il gioco funziona, insomma, per forza dell'occhio con cui Wood osserva e della sua forza evocativa. Doni rari.

Harry.

Crisi permanente



Non ti arrabbiare.

Parti dall’ovvia constatazione che ogni discussione è minata, al suo fondo, da una distorsione causata dalla necessità di avere ragione. Ogni parte in causa vuole affermare la propria posizione. C’è un’esigenza biologica primaria dietro a ciò. Quella stessa esigenza muove i nostri limiti, spingendoci al confronto, ma, ahimè, più spesso per affermarci nei nostri confini che per aprirci a nuove possibilità. La povertà della nostra ricchezza intellettuale ci rende snob e sordi. E la comunicazione è interrotta, difficoltosa e sterile. Ognuno per sé, si potrebbe dire.
La fenomenologia del dibattito fumettistico è riassunto in una parola: sordità.
E c’è molta, moltissima intelligenza nel mondo del fumetto. Quindi, più sordità intellettuale, con un bel pizzico di ipocrisia e una sana dose di insofferenza.
Concetti sordi: il fumettista giovane è giovane e non ha spazio per affermarsi, quello vecchio è vecchio e vuole approfittare della sua fama, l’editore ti vuole fottere, l’editore non ha soldi, il fumetto non vende, il distributore è cattivo, la fumetteria non sa fare il suo lavoro, la fumetteria è vittima, …, il fumetto si fa per passione, il fumetto si fa per soldi.
Nell’arena delle profezie che si auto-realizzano, se sono un giovane autore determinato, posso esordire in Bonelli, su Nathan Never, dopo una brevissima gavetta; se sono un giovane autore ricco di talento ma incerto e debole, non esordirò mai. Peggio ancora se ho velleità artistiche.
Ecco, leggo sul blog di Daniele Barbieri diversi tentativi di inquadrare il problema della questione “arte”, e mi tolgo il cappello, come farebbe Borges con Don Chisciotte e i suoi mulini. Discutere di arte nel mondo del fumetto, negli anni Duemila, per molti addetti ai lavori, assume la forma della pedanteria retrograda, del voyeurismo se non dell’onanismo. Perché, nella crisi delle idee e dei riferimenti, il tentativo di categorizzare appare futile. Ma una discussione da dove deve partire?

Sceneggiatori affermati che ambiscono al ruolo di impiegati seriali, intanto, cercano rifugio nella lode all’intrattenimento, come forma massima di impegno sociale. Verrebbe da dire, un fumetto socialmente utile, contro un fumetto artistico, pretenzioso e inutile. Ma con quale possibilità di mediazione? A difesa ognuno del proprio diritto di avere un posto ed esistere.
Le categorie sono vecchie, perché il pensiero si è fermato. Si è fermato alla “crisi permanente”.
E non mi riferisco a quella delle vendite. Non solo. Ma allo stato di crisi permanente della nostra cultura, della nostra economia, della nostra società, della nostra comunità, del nostro vicinato, del nostro senso di esistere come persone.
In un tale confine, esistenziale e culturale, diventa impossibile innanzitutto pianificare e investire per il futuro (impossibile prevedere un futuro), e soprattutto impossibile cambiare paradigma. La paura annulla il movimento, del corpo e della mente. Piuttosto che buttare a mare paradigmi che non funzionano, ma sui quali si fondano profezie, concetti sordi, rapporti di potere, sistemi aziendali e produttivi, si lotta per mantenere le posizioni. È in questo scenario, credo, che si può comprendere, per esempio, l’azione editoriale della Sergio Bonelli Editore che modifica i formati per non modificare nulla. Romanzi, maxiserie, miniserie che hanno tutte lo stesso codice, la stessa cornice testuale di riferimento. Che parlano lo stesso linguaggio ripetuto alla nausea. È alla luce del concetto di crisi permanente che si può comprendere l’idea dell’editore di produrre i fumetti come trent’anni fa, ma con un progetto a breve scadenza. Fumetti come il latte. Non certo nel tentativo di aprire nuove fasce di mercato, nuovi linguaggi, nuovi movimenti culturali e… artistici! A quale scopo, se la crisi spazzerà presto via tutto?

La crisi come valore diviene il motivo di azione dei piccoli editori, laddove si investe in proprio per realizzare un prodotto che non verrà promosso, sviluppato nel tempo, traghettato al lettore. Siamo nel cuore del concetto di tempo breve. Lo sforzo editoriale si esaurisce con la stampa del prodotto. La crisi giustifica l’inazione, l’inerzia, l’assenza di progettualità, l’impossibilità di pensare a sinergie nuove ed evolute.
E i fumettisti non sanno di quale crisi perire. Quella della rassicurante ripetizione infinita di modelli logori e culturalmente (artisticamente) sterili. Quella della coraggiosa e militante lotta dei modelli instabili della piccola produzione, nell’idealismo espressivo dell’artista romantico, solo, incompreso e… tristemente ignorato dai lettori.
Usciamo dalla crisi.
La critica ha una grande responsabilità: quella di suggerire altri possibili paradigmi. Di tornare a discutere del rapporto tra forma di espressione, arte (grazie Barbieri), serialità, formati, meccanismi di mercato. Di essere da esempio per un confronto aperto e non schierato su pregiudizi e posizioni di potere. Di sostenere e promuovere iniziative culturali rilevanti, opere e autori nuovi. Di riportare al centro del dibattito le contraddizioni di una forma di espressione impura, puttana e meticcia, che più di altre può (potrebbe) interpretare questo tempo impuro, puttano e meticcio e mettere al sicuro un patrimonio artistico che è misconosciuto, in Italia, da un’assenza generale di interesse per la cultura (assenza sociale, politica, educativa - comics day?) e da un’incapacità diffusa di pensare al fumetto come arte viva e virale. Io sono contrario alle vaccinazioni. I virus culturali, artistici e comunicativi non devono avere un antidoto già sintetizzato. Questa è la scienza medica della paura. Della crisi programmata. Io voglio essere contaminato e diffondere quel virus ad amici, parenti, conoscenti, riconoscenti e indifesi immunitari.
La vita è una crisi permanente. Iniziamo a parlare del fumetto come di fronte alla vita. Senza prenderci per il culo.

Harry.

martedì 22 giugno 2010

Non perdiamo spazio (e tempo)



Tornando a parlare di Dago Ristampa, c’è un aspetto sul quale vorrei soffermarmi.
La cosa riguarda lo spazio e, necessariamente, il tempo.
Se il volumetto da edicola si presenta in formato Bonelli (quaderno, b/n, 96 pagine) la sua realizzazione nasce altrove, nasce nei brevi capitoli di 12 pagine per il settimanale.
L’albo della Ristampa subisce quindi una trasformazione importante, perché si caratterizza come una raccolta di racconti. In questa distinzione si profila una diversa gestione dello spazio da parte dello sceneggiatore rispetto a un qualunque altro albo in formato Bonelli. E questa differenza pesa.

Robin Wood ha operato una scelta chiara: ogni capitolo di 12 pagine deve essere un racconto autonomo, con un inizio, uno svolgimento e un finale adeguato. Ma ogni singola storia deve essere il tassello di una narrazione più ampia, che fluisce naturalmente capitolo dopo capitolo. Il meccanismo è tipico del fumetto seriale, ma si caratterizza come unico nell’ambito del fumetto popolare da edicola. Per la verità, quasi tutte le serie prodotte specificamente per il settimanale dell’editore romano utilizzano questa formula (per vederne le molteplici varianti, è possibile recuperare la bellissima serie de I Giganti dell’Avventura), ma Dago Ristampa è l’unico che ha goduto regolarmente negli anni di una serializzazione mensile in quel formato.

Sul piano narrativo, l’obbligo dei racconti brevi costringe Wood a utilizzare almeno tre espedienti importanti: la ricerca di un’idea forte per ogni racconto, con lo sviluppo di una dinamica drammatica, obbligata dallo sviluppo rapido della risoluzione; un’estrema sintesi nelle scelte dei contenuti propri del fumetto, dai testi asciutti e taglienti, ai disegni evocativi e simbolici, per quanto realistici; infine, una gestione dei tempi degli avvenimenti varia e disomogenea, che alterna passaggi di azione molto bruschi con cambi di scena repentini, a momenti nei quali lo sviluppo sembra sospendersi, per accrescere la forza evocativa delle scene (il contrasto è spesso marcato).

Non si discutono l’abilità e l’intelligenza con le quali Wood utilizza i diversi meccanismi a sua disposizione. La sua prosa lirica ma non retorica è perfetta nell’evocare suggerendo, accanto alla forza del disegno di Gomez che appare chiaro, deciso nelle scelte espressive e nelle intenzioni. Dago è un fumetto adulto, che utilizza un linguaggio adulto, che richiede una discreta alfabetizzazione fumettistica. D’altra parte, tali scelte trovano un efficace equilibrio con la leggibilità e la linearità vitali per un fumetto a larga diffusione, dalla vocazione popolare.

Pensare in termini di 12 tavole alla volta costringe Wood a essere sintetico, a lasciare da parte dialoghi, didascalie, eventi, disegni e rappresentazioni inutili. Da questo punto di vista, la sintesi diviene vero e proprio esercizio di stile, che obbliga al pensiero creativo e laterale, cercando sempre nuovi spunti e possibilità per non annoiare il lettore. Di questo esercizio avrebbero bisogno molti degli sceneggiatori Bonelli, che si abituano a ragionare in termini di quasi cento tavole alla volta per raccontare una storia. Lo spazio condiziona il tempo narrativo, e laddove Wood si trova costretto a escludere necessariamente azioni inutili (tempo inutile), gli sceneggiatori che hanno di fronte cento tavole bianche da creare ogni mese sono spinti spesso dalle necessità opposte, allungare, riempire, “occupare spazio”, “perder tempo”. Fino a debordare! Tanto che alcuni sceneggiatori sentono l’esigenza di avere albi di più di cento pagine, oppure di sviluppare le proprie storie in più numeri della serie. Un processo che, superficialmente, appare ingiustificato e inaccettabile. Più analiticamente, è certo che le storie lunghe hanno al loro interno esse stesse dei sottocapitoli drammatici, che permettono uno svolgimento interessante per il lettore, che gli autori possono gestire liberamente, controllando tempi e momenti. Tuttavia, essere “costretti” a raccontare in capitoli obbligati di 12 pagine è certamente “antieconomico”, perché richiede uno sforzo creativo e una fantasia sempre rinnovata, a differenza di una narrazione decompressa di cento pagine. Come più di uno sceneggiatore seriale ha ammesso, infatti, uno degli aspetti più complessi di questo lavoro è trovare qualcosa che valga la pena raccontare, idee che diventino storie, mese dopo mese dopo mese. 

Nell’esercizio di stile di Dago Ristampo Wood utilizza un altro espediente che è complementare alla sintesi di cui sopra, ovvero la reiterazione che procede per accumulazione. Capitolo dopo capitolo tornano alcuni temi e alcune dinamiche narrative, spesso sottotraccia, cioè non esplicitate al lettore attraverso strumenti tradizionali quali riassunti o richiami diretti a fatti già avvenuti. Wood procede per analogie (situazioni, emozioni, passaggi nella prosa che assomigliano ad altri già usati in racconti precedenti) e per accumulazione, favorendo l’orientamento del lettore che legge i capitoli settimanalmente e creando un efficace effetto drammatico per il lettore che legge i capitoli in fila nel mensile.

Queste caratteristiche svelano l’intelligenza con la quale lo sceneggiatore gestisce e supera i vincoli imposti dal formato, trasformandoli in opportunità narrative. E rivelano nuovamente quanto sia importante il formato nel determinare modi, spazi e tempi di una narrazione a fumetti. Una scuola che manca terribilmente nella scena italiana del fumetto popolare è quella del racconto breve. L’intenzione e l’efficacia narrativa ne gioverebbero moltissimo. E questa debolezza si rivela in modo palese nelle rare occasioni nelle quali gli autori sono chiamati a scrivere storie brevi, come avviene, per esempio, nel Dylan Dog Color Fest, una delle collane più interessanti nelle premesse, e più avvilenti nei risultati, del panorama italiano.

Harry.

venerdì 18 giugno 2010

In ricordo di Al Williamson


. . In the old days, virtually every comics company had a big room where all the artists and writers sat together, creating their works of four-color wonder. Creative folks generally being the garrulous sort, typically, quite a bit of "bull" got tossed around these legendary rooms, so the nickname "bullpen" was a natural. . . . At any rate, these days, most comics artists and writers prefer to work in their own studios, but, still, here at Marvel, we have a big room, a production bullpen, where all of our art/production people work doing our paste-ups, lettering corrections, art corrections, and such — and even though the editorial folks are bunched in small offices off to the sides we still refer to the whole shebang as the Marvel Bullpen. It's a tradition dating back to the days when we actually were a one-room operation!
Jim Shooter


I comics di supereroi statunitensi sono inseriti in una catena produttiva che negli anni è passata da logiche “artigianali” a logiche “industriali”. Le virgolette sono necessarie, ma, in massima sintesi possiamo dire che la consapevolezza dei sistemi di mercato e produttivi, i meccanismi legati all’indotto e alle produzioni parallele a quella caratteristica (merchandising, cinema, romanzi, ecc.) delle case editrici hanno messo in atto questo passaggio già alcuni decenni fa.
C’è un pregiudizio valoriale in merito ai due concetti di artigianale e industriale che ha a che fare con l’immaginario e il simbolico: “artigianale” richiama alla mente idee quali caldo, personale, umano, vicino, familiare, creativo, …; “industriale” si collega a idee quali meccanico, ripetitivo, freddo, lontano, impersonale o spersonalizzato, …
Eppure, per certi versi i comics statunitensi sono stati da sempre un prodotto “industriale”, almeno per quanto potesse esserlo la catena produttiva dell’editoria di allora, e le logiche produttive e creative sviluppare da Stan Lee negli anni ’60 assomigliavano in modo inquietante (sempre sul piano simbolico) a quelle delle catene di montaggio. Al contempo, oggi, e sempre più in relazione al divismo a cui si sottopongono molti autori del fumetto popolare (che ha avuto negli anni ’90 la sua manifestazione più eclatante e destrutturante), i comics non possono che mantenere elementi essenziali di “artigianato” artistico, dove la mano, lo stile e il carattere degli autori fanno la differenza. È un’ambivalenza tipica delle attività produttive che hanno a che fare con le forme espressive e comunicative, in particolare in ambiti dove sia essenziale la riproduzione del prodotto, la massificazione, la distribuzione.

Questa ambivalenza, sul piano strettamente artistico, assume spesso tratti grotteschi. Perché la forza idiosincratica delle produzioni artistiche ha permesso di far emergere talenti come quello di Jim Lee, per esempio, che ha marcato con il suo stile non solo un’epoca, ma un gruppo fondamentale di personaggi della Marvel Comics: gli X-Men. L’originalità, la caratterizzazione, la personalità sono tratti propri della produzione di Jim Lee negli anni ’90 (e ancora in anni recenti, se pensiamo per esempio ai suoi lavori su Batman). Tali caratteristiche sono state la fortuna della Marvel Comics, dei Mutanti e del mercato di comics. Raggiunto il successo, il processo di industrializzazione e normalizzazione ha costretto lo “stile Jim Lee” a diventare da unico e personale a standardardizzato e meccanico, spersonalizzato. Ancora oggi, le serie mutanti subiscono l’onda lunga di questo processo, e la casa editrice ha rinnovato questo “incantesimo” investendo su giovani ragazzi che hanno clonato più o meno efficacemente quello stile.
Come detto, un’ambivalenza grottesca. Sul piano simbolico, che più mi interessa, l’esempio ci dice due cose: che il mercato di comics necessita di talenti unici per soddisfare l’interesse e il bisogno adrenalinico di novità degli appassionati; che esso si struttura e mantiene nel tempo attraverso la ripetizione stilistica e la rassicurazione dei lettori. Di questa ambivalenza, credo abbia da sempre vissuto ogni forma espressiva. Ma nel mercato dei comics di supereroi, che ha una storia così breve a fronte di una produzione di pagine impressionante, tale contraddizione appare quasi una caratteristica genetica, amplificata dai meccanismi narrativi retorici, cacofonici e ridondanti propri del genere.

Uno degli elementi che struttura tale ambivalenza, spesso accentuando l’aspetto simbolico “industriale” di omologazione e ripetizione automatica, è determinato dalla consuetudine di utilizzare dei team creativi che producono le singole storie: uno sceneggiatore, un matitista, un inchiostratore, un letterista, ecc. coordinati da un editor. Tornando all’esempio di Jim Lee, negli anni della diaspora delle star della Marvel Comics verso la nascente Image Comics, sulle fragili spalle di molti inchiostratori ricadde il peso di mantenere una presunta omogeneità stilistica con i lavori precedenti, forzando lo stile dei sostituti delle star, spesso giovani poco esperti. Il risultato, cercando di illudere i lettori che nulla sarebbe cambiato, fu disastroso. E non per colpa degli inchiostratori, vittime loro stessi, ma di scelte sconsiderate (ma necessarie?) della casa editrice.
I team creativi garantiscono la catena produttiva e il rispetto dei tempi. Sono sempre esistiti nei comics di supereroi e, superato il piano simbolico, non appartengono né a un meccanismo industriale né artigianale. O meglio, appartengono a entrambi, connotati in modo diverso. Stan Lee, con il celebre Marvel Bullpen, ovvero il gruppo di autori stabili che ha creato migliaia di pagine di supereroi negli anni ’60, un vero gruppo di lavoro dove i compiti erano perfettamente distribuiti ma anche in buona parte intercambiabili in funzione delle necessità, è stato il primo manager del fumetto a concepire questo meccanismo come un sistema e una rilevanza, dandogli piena visibilità e, perché no, valore.

Il team creativo è, ancora sul piano simbolico, la negazione stessa del carattere artistico delle produzioni a fumetti. Artigianale o industriale che sia, tale struttura ha due obiettivi fondamentali: rispettare i tempi di produzione, come detto; garantire omogeneità stilistica. Ma poiché tutte le vicende umane, in ambito espressivo e creativo, si basano su sinergie esplosive e imprevedibili, la catena produttiva nei comics ha in alcuni casi rappresentato una straordinaria possibilità: che il risultato del gruppo fosse più della somma delle parti. Due esempi eclatanti sono accaduti nella stessa testata della Marvel Comics, Daredevil: si tratta della coppia Frank Miller (sceneggiatura, matite) e Klaus Janson (inchiostri e colori) e del connubio straordinario tra John Romita JR. (matite) e Al Williamson (chine), con le sceneggiature di Ann Nocenti.
Di Miller (e Janson) si sa molto, moltissimo e rimando alla lettura del volume Panini Comics recentemente prodotto che raccoglie tutto lo storico ciclo di Daredevil dove i due autori hanno mostrato tutta la loro bravura. Di JR JR e Williamson si è parlato meno, ma il loro lavoro in coppia rappresenta uno dei vertici assoluti dei comics di supereroi. Il culmine della loro collaborazione si può osservare nella ri-narrazione delle origini di Devil sceneggiata da Frank Miller, ma qui ci troviamo già al limite del manierismo. Le storie eclatanti sono quelle della serie regolare di Daredevil, dove passo a passo è possibile osservare l'evoluzione del connubio artistico.


Al Williamson è recentemente scomparso all'età di 79 anni. Il suo uso del tratteggio, la sua capacità di valorizzare le matite di JR JR senza nasconderle, ma personalizzandole, sono tra i migliori esempi di come possa, debba lavorare un inchiostratore su matite altrui. Ma Williamson è andato oltre, con JR JR ha dato vita a un equilibrio artistico irripetibile. Il lavoro dei due artisti è stato un costante dialogo, un work in progress che ha permesso, da un lato, al giovane Romita di arrivare a una precisa definizione del proprio stile e della propria personalità, e al veterano Williamson di lavorare di dettaglio, mostrando l’importanza e la delicatezza della scelta dei tratteggi e delle campiture, della funzione narrativa nel determinare pieni e vuoti della pagina, anche in previsione della successiva colorazione, nel connotare emotivamente la messa in scena dei personaggi, dei loro corpi e delle loro caratterizzazioni.

Williamson ha dato molto al fumetto e alla sua maturazione come mezzo di comunicazione, e certamente non solo da inchiostratore. Era un artista completo straordinario. A partire dagli anni '80 si è dedicato all'inchiostrazione perché i suoi tempi di lavorazione della pagina da artista finito non erano adeguati ai tempi di produzine seriale (industriale?). Ma non di un semplice compromesso si è trattato. Perché Williamson ha mostrato a tutti l'importanza e la qualità del suo approccio al fumetto. Oltre a ciò, ha dato senso e rilevanza al significato del lavorare in team, al di là di qualunque pregiudizio e interpretazione valoriale.


Harry

martedì 15 giugno 2010

Fu-manga

A una cara amica regalo Contratto con Dio di Will Eisner.
Bello, mi dice, così leggerò per la prima volta un fumetto.
Finora ho letto solo manga.

Harry

martedì 8 giugno 2010

L'esercito imperiale è entrato a Roma


L’esercito imperiale è entrato a Roma.
Una frase breve. Poche parole messe insieme per esprimere un concetto.
Ma sotto questo concetto, c’è un incendio infernale, che illumina il mondo intero.

Il bonellide più straordinario che si trova nelle edicole italiane da anni è senza dubbio Dago Ristampa. Ma non farti ingannare. Se il formato editoriale è in tutto e per tutto simile a un prodotto Bonelli, la sua costruzione, le tematiche, la sua origine e direi quasi tutti i dettagli lo differenziano da esso.
L’Eura Editoriale, bruciata come Roma e rinata come Aurea, ha da anni investito su uno dei migliori sceneggiatori di fumetti del mondo, dal nome Robin Wood, uno di quelli che se gli commissioni un Dylan Dog Gigante è capace di dare una sua interpretazione del personaggio efficace, personale e contemporaneamente centrata. Uno di quelli che sa muoversi tra tragedia, commedia, realismo storico e caricatura senza perdere un grammo di originalità e forza evocativa. Uno di quegli autori dalla conoscenza enciclopedica e dalla sensibilità unica, che con Mojado, per citare un'altra sua celebre creatura, sa raccontare l’emarginazione e la disperazione della vita di frontiera messicana e, contemporaneamente, solide storie di avventura.
L’Eura/Aurea, dicevo, chiede da anni a Wood una breve storia di 12 pagine da pubblicare su un suo settimanale. I brevi capitoli compongono un mosaico esteso, un fluire infinito di avventura e tragedia, nei bagliori di fiamma del Sedicesimo secolo.
Prendo un numero a caso, il 31° uscito nel dicembre 2004, da cui è tratta la citazione iniziale. Wood è coadiuvato ai disegni dall'ottimo e fedele Carlos Gomez. L’occupazione di Roma da parte dei lanzichenecchi del Sacro Romano Impero in cui Dago si trova coinvolto è pretesto per gli autori per rappresentare in chiave simbolica il crollo di ogni freno morale e di ogni limite alla crudeltà. Le guerre esasperano la perversione, e la vita è costantemente in pericolo. Qualcosa di simile a quanto espresso con altrettanta urgenza in chiave letteraria da Uomini e No di Elio Vittorini o da La Pelle di Curzio Malaparte (a proposito della Seconda Guerra Mondiale).
Le didascalie sono secche, dirette e liriche. I disegni, con primi piani inquietanti, tagli di prospettive dal basso, movimenti sincopati da una vignetta all’altra, una cura maniacale per i dettagli, traghettano l’esperienza del lettore dalla superficie realistica del tratto alla profondità impressionista del messaggio. Ogni situazione, ogni azione, ogni immagine di queste pagine ha un valore innanzitutto narrativo/descrittivo e contemporaneamente simbolico/evocativo.
È questa doppia valenza la quintessenza di Dago e dei migliori lavori di Robin Wood. È questa attenzione alle emozioni, questa capacità di distaccarsi dalle sole esigenze di sviluppare una trama, a distanziare completamente Dago da altri fumetti di medesimo “formato”. L’apparente realismo nasconde altro proprio come il formato (e la forma) dimessa che si rifà alla tradizione Bonelli svela un contenuto molto più ricco.
Sono passati molti anni e Dago Ristampa è ancora in cima alle mie letture preferite. Wood lo si osserva muoversi con la stessa intelligenza, pieno di energia e di inventiva, pur nei suoi luoghi narrativi tanto familiari. Un patrimonio artistico che non deve passare inosservato e di cui, in fondo, ogni potenziale lettore dovrebbe gioire.
(Se solo la grafica di copertina e la cura editoriale fossero più accattivanti e al passo coi tempi!)

Harry

mercoledì 2 giugno 2010

Eisner sequenziale



Osservo e leggo i due saggi sul fumetto di Will Eisner, Comics and Sequential Art e Graphic Storytelling and Visual Narrative, appena ristampati in un unico volume da Rizzoli. L’organicità e la discorsività del lavoro sono l’ennesima conferma dell’intelligenza dell’autore. Ho invece dei dubbi sull’efficacia “didattica” di queste pagine. Credo che Eisner abbia voluto lavorare soprattutto sulla consapevolezza, ricordando ad autori affermati e aspiranti tali alcune delle molteplici possibilità del fumetto, attraverso numerosi esempi ripresi soprattutto da proprie opere. Ma il percorso analitico è talmente idiosincratico da farmi dubitare della capacità di trasmettere insegnamenti “generali” di tecnica e approccio al fare fumetti.
E in questa "debolezza" sta anche la grandezza dell’opera (e dell’autore): questo volume sembra un catalogo ragionato del percorso espressivo di Eisner; una dimostrazione, una testimonianza del suo lavoro intellettuale e creativo.
Qualunque autore che volesse provare, oggi, a realizzare un volume di questo tipo, dovrebbe produrre pagine e pagine di fumetto ex-novo per esemplificare ciò di cui parla, oppure pescare dai tanti, stratificati lavori di altri ottimi artisti. Eisner no. Avendo da sempre (o quasi) ragionato in termini di sviluppo delle potenzialità del mezzo espressivo, l’autore statunitense di origini ebraiche ha semplicemente riproposto per lo più sequenze o episodi completi delle sue storie, dal primo e seminale The Spirit, ai successivi lavori “autoriali”.
Una dimostrazione di autentico amore per la sua “arte sequenziale”.

Harry

martedì 1 giugno 2010

Ombre e luci

(c) jim valentino


Le letture si condensano.

Insieme al recupero di Savage Dragon, sto tornando al passo anche con Invincible  di Robert Kirkman e in parallelo mi ritrovo a leggere Shadowhawk Chronicles di Jim Valentino.
La vecchia e la nuova Image supereroistica si incrociano allo specchio in narrazioni diverse ma simili.

Per inciso, l’edizione di Shadowhawk Chronicles grida vendetta. In stile Essential della Marvel (lunghi cicli di storie in corposi volumi stampati in bianco e nero su carta di bassa qualità), le campiture di nero e i toni di grigio che “fotocopiano” in b/n i colori originali sono completamente impastati. Il tratto di Valentino, di per sé già non particolarmente efficace sul piano dell’espressività, diventa piatto e scompare in una confusione di ombre che il nome del protagonista non può giustificare. Soldi spesi male, quindi. Eppure è l’occasione per leggere di fila i primi numeri di una delle serie milionarie (in termini di numero di copie vendute) che hanno dato origine all’avventura Image negli anni ’90, insieme a Savage Dragon, a Youngblood, a WildC.a.t.s., a Spawn, ecc.

Valentino ha molti difetti, primo tra tutti quello di seguire la necessità commerciale di imitare con le nuove pubblicazioni stili e cliché propri dei più famosi gemelli supereroistici di Marvel e DC. In secondo luogo uno stile di disegno stucchevole, nei numerosi riferimenti derivativi a quegli stessi cliché, che appaiono malamente digeriti. Rimasticati è forse il termine migliore. Una narrazione visiva più semplificata, meno vagamente “spettacolare” (inquadrature sbilenche, piani scomposti, vignette scontornate, splash page) e alla moda avrebbe giovato alla storia. In particolare perché Valentino non sembra, come detto, all’altezza, al contrario per esempio del pirotecnico Erik Larsen dei primi Savage Dragon o della vuota ma seducente eleganza di Jim Lee su WildC.a.t.s. Altro difetto strutturale è quello d’identità. Shadowhawk è l’ennesima variante del giustiziere mascherato nevrotico in stile Batman post Frank Miller: il monologo interiore in seconda persona, l’ambivalenza tra giustizia e giustizialismo, il conflitto personale tra le diverse identità, il contrasto con le forze dell’ordine, e l’insieme di riferimenti alla notte, al buio e al lato oscuro dell’esistenza. Valentino strizza entrambi gli occhi ai lettori, per rassicurare e compiacere.
Eppure, magia del fumetto popolare, l’autore dimostra un senso del ritmo efficace, una buona capacità di creare pathos e di incuriosire il lettore dietro alle pieghe del già letto, del già sentito. In particolare, il substrato iconico di riciclo funziona sul piano meta-narrativo, al punto da venire accettato e accolto come necessario ai fini della conduzione della storia. In poche parole, Shadowhawk rappresenta un modello riuscito (nel gruppo di modelli non riusciti: Youngblood, WildC.a.t.s., Spawn) tra le prime proposte Image, insieme alla molto più divertente e consapevole Savage Dragon. Anche perché, a disdetta delle probabili intenzioni di Valentino, compare qua e là tra le tavole la vocazione e il passato indie dell’autore, che lo avvicinano più alle proposte in bianco e nero che invasero i negozi specializzati negli anni ’80 che alle pubblicazioni patinate degli anni ’90.


(c) robert kirkman, ryan ottley


Per quanto riguarda la Image, invece, in questo piccolo gioco di specchi, credo che la consapevolezza e la maturità facciano oggi la differenza sul piano qualitativo, se non su quello delle vendite. Non ho le idee chiare rispetto alla politica editoriale della casa editrice nel suo complesso, che mi sembra strutturata su una serie di proposte caotica e troppo frastagliata. Però è avvenuto un salto in avanti decisivo: agli esordi c’era la necessità di scimmiottare e ripercorrere modelli consolidati (e già stanchi) di Marvel e DC, sia per ragioni di mercato che per capacità degli autori coinvolti; oggi c’è l’abilità di rinnovare quegli stessi modelli attraverso proposte fresche e aperte. Kirkman in primis ha compreso perfettamente che lavorare oggi sui supereroi al di fuori dei dinosauri della concorrenza offre un’opportunità unica altrove assente: il cambiamento, la sorpresa, il ribaltamento. Con Invincible Kirkman dimostra di poter fare tutto e il contrario di tutto, attraverso repentini cambi di marcia e sconvolgimenti narrativi che non appaiono come semplici trucchi utili a dare l’impressione del cambiamento e della novità, ma mettendoli in atto realmente. L’autore ottiene così due successi: scrivere storie davvero imprevedibili; restituire al fumetto di supereroi il suo valore originario, genetico, del divertimento intelligente. Il lettore non si sente ingannato perché non si prevedono ricorrenti ritorni alle origini e perché può gustarsi quello che è l’ingrediente essenziale del fumetto avventuroso, ovvero un’adrenalinica partecipazione emotiva. Se ci pensiamo, un lusso che Marvel e DC non possono più permettersi malgrado sia stato, decenni fa, uno degli elementi cardine del loro successo (in particolare, della Marvel degli anni ’60).

Harry


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