giovedì 31 dicembre 2009

After Xmas (dopo Natale)

(c) renee french


Renee French.
Intuizione autobiografica.

Auguri a tutti!

Harry

venerdì 25 dicembre 2009

Mater Morbi


Bello questo nuovo numero di John Dog.
Belli, espressivi, feroci, sexy i disegni di Carnevale.

La genesi di Mater Morbi è raccontata da Recchioni nel suo blog.
La storia è costruita su un equivoco: di malattia si è parlato dall'alba dei tempi, e alla madre di tutte le malattie sono state tirate, più che dedicate, numerose poesie e numerosi scritti. Esistono moltissimi libri esoterici che affrontano il rapporto dell'uomo con la malattia. Ci sono infinite espressioni poetiche. Ma ci torno sotto.

La storia funziona su alcuni livelli, soprattutto quello “autoriale”. La fatica autobiografica che tanto viene messa in evidenza, in primis dall’editor di Dylan Dog (ancora Marcheselli?), che tanto pizzica di questa storia, come un graffio sul viso, segna un passaggio per Recchioni. Perché lo sceneggiatore romano, alla sua seconda prova lunga con John Dog, si cimenta per la prima volta nella (non)fiction, con inquietanti parallelismi con la propria vita personale. In epoca di onnipresenza visiva, il tutto si colora di reality, e lo specchio tele-mediatico via blog della (non)fiction amplifica in un cortocircuito quello che in Mater Morbi appare appena. E la storia tocca più di quel che potrebbe, isolata, a sé. È intelligenza fine, questa. A partire dall’intuizione di Carnevale e Marcheselli che hanno proposto a Recchioni l’idea in prima battuta.
Ma ci siamo. Scatta un meccanismo nuovo. Recchioni mette un po' di realtà in quello che racconta. Un po' della realtà che conosce e tocca con le sue mani. Non solo fiction della fiction, non solo videogiochi, sesso o fumetti di fumetti. Insomma, un passo avanti per rendere i suoi racconti a fumetti più tangibili, meno inconsistenti, meno divertiti e facili.

Ciò non confonda, ché sul piano strettamente narrativo, Mater Morbi risente di troppe parole in didascalia, di meccaniche prevedibilità da John Dog audience, a compiacere (meglio, a rassicurare) i tanti lettori di Dylan Dog, da un lato, e di John Doe dall’altro.
Insomma, qui si legge una (discreta) storia di John Doe che rassicura i fan di Dylan Dog, per quanto Recchioni vorrebbe convincerci del contrario. Certo, è vero, Dylan Dog parla come Dylan Dog, reagisce come Dylan Dog, pensa come Dylan Dog, ha i riferimenti di Dylan Dog. Ma è John Doe.
E a meno che Recchioni non voglia fare come Gaiman, dovrà decidere di cambiare tematiche e trucchi, prima o poi, altrimenti sarà già vecchio prima ancora di crescere.


Torniamo al tema della malattia. Recchioni lo reifica, lo incarna (banalmente nella solita, bellissima donna), gli dà voce per … terrorizzare il lettore o per normalizzarne l’inquietudine? John Dog dice che Malattia è sola, disprezzata e mai cantata. Eppure il tema della malattia accompagna il percorso dell’uomo da sempre, come dicevo. Aggiungo che malattia e morte sono sempre state strettamente correlate, al punto da confondersi l’una con l’altra.
C’è un fumetto, un piccolo gioiello, che della malattia più terrificante del vecchio secolo, il tumore, racconta senza mediazione e con ironia. Si tratta de Il cancro mi ha reso più frivola di Miriam Engelberg . Per il lettore, l’incontro con una persona malata e il suo percorso (ahimé) definitivo è ben più terrificante dell’incarnazione in un’entità astratta.

Uno dei maggior poeti italiani del Novecento, Guido Gozzano, scrive la poesia Alle soglie, quando si scopre malato di tisi. Ascolta come risuonano la splendida ironia a proposito del rapporto con i dottori e i versi finali, con quella strana devozione da novizio per la nuova sposa.

Alle soglie

I.
Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d'esistere al mondo,
pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori
sovente qualcuno che picchia, che picchia... Sono i dottori.
Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,
m'auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.
E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.
"Appena un lieve sussulto all'apice... qui... la clavicola..."
E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.
"Nutrirsi... non fare più versi... nessuna notte più insonne...
non più sigarette... non donne... tentare bei cieli più tersi:
Nervi... Rapallo... San Remo... cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia..."

II.
O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,
la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?
Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,
trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace
e l'ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco
disegna il profilo d'un bosco, coi minimi intrichi dei rami.
E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.

III.
Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d'esistere al mondo,
mio cuore dubito forte - ma per te solo m'accora -
che venga quella Signora dall'uomo detta la Morte.
(Dall'uomo: ché l'acqua la pietra l'erba l'insetto l'aedo
le danno un nome, che, credo, esprima un cosa non tetra.)
È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.
Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.
Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;
ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.
Ti svegli dagl'incubi innocui, diverso ti senti, lontano;
né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.
Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,
sereno come uno sposo e placido come un novizio.


Leggi poi questa breve intervista ad Alda Merini, recentemente scomparsa, lungamente in lotta con la malattia psichica.

La malattia è come un periodo di transito, ma anche di blocco, a volte quasi di paralisi [...] Ricordo di una violenta cefalea, insopportabile, incoercibile. Pregavo, ma intanto allattavo e contemporaneamente deperivo. Ho avuto un dimagramento importante. Di sicuro uno stato del genere non ti porta alla poesia, se non in una rielaborazione molto successiva.[…] La malattia può porre in una situazione di «grazia» cosmica, quasi di comunione cosmica, di sintonia con l'universo: però nessuno la va a cercare per fare opere d'arte. Meglio essere felici. […] E qualche volta la malattia diventa un canto catartico e liberatorio di disperazione. Per fortuna ci sono i meccanismi compensativi: la natura risponde così ad apparenti deficit: c'è una restituzione in altri ambiti.


E non dimenticarti di Emily Dickinson, che alla malattia è sempre stata vicina.
La malattia modifica la propria consapevolezza, il rapporto con il proprio corpo, il rapporto di sé con il mondo.

The first Day's Night had come -
And grateful that a thing
So terrible - had been endured -
I told my Soul to sing -
She said her strings were snapt -
Her Bow - to atoms blown -
And so to mend her - gave me work
Until another Morn -
And then - a Day as huge
As Yesterdays in pairs,
Unrolled it's horror in my face -
Until it blocked my eyes -
My Brain - begun to laugh -
I mumbled - like a fool -
And tho' 'tis Years ago - that Day -
My Brain keeps giggling - still.
And Something's odd - within -
That person that I was -
And this One - do not feel the same -
Could it be Madness - this?

(trad.)
La Notte del primo Giorno era arrivata -
E grata che una cosa
Così terribile - fosse stata sopportata -
Chiesi alla mia Anima di cantare -
Rispose che le sue corde si erano spezzate -
L'Archetto - in atomi dissolto -
E così aggiustarla - mi diede da fare
Fino ad un nuovo Mattino -
E poi - un Giorno tanto immenso
Quanto una coppia di Ieri,
Mi srotolò in faccia il suo orrore -
Fino a bloccarmi gli occhi -
Il mio Cervello - cominciò a ridere -
Balbettavo - come un idiota -
E nonostante sia Anni fa - quel Giorno -
Il mio Cervello ha quel riso ebete - ancora.
E Qualcosa di strano - dentro -
La persona che ero -
E questa - non sembrano la stessa -
Potrebbe essere Follia - questa?

Infine, una poesia di Giacomo Bergamini.

Dei luoghi del sole

scrivo del sole
come scrivo del vento o del
vuoto
e del nido
umido
parlo del sangue che gratta
i ricordi
del morbo che morde
e non imita mai
il sonno dei cerchi
perché il sole più non incanta
anche se sale le salme
nidificando

per la regia dei re magi
cauta e memore
al telefono
doppi viaggi e comete
e non ricordi le cadute
e i rovinosi inciampi
infernali
non rievochi nemmeno
la nausea
mentre raccogli
l’utero dal fango
si confermano così
malintesi
e si ritagliano
ritagli

è passato
un mattino
sui legami
della lingua
e le parole
già raccontano
un libro
imitando
il calpestio
costante
di noi annoiati
testimoni

la peste ramifica
la penna
e viene a cancellare
i nostri fastosi
luoghi
con verbo
lascivo

scrivo del sole
e del suo gusto a sconfinare
dalle distanze e del suo
quieto miniare
dei suoi versi infantili
e del suo riso
delle sue moine e dei suoi
mille natali
parlo del suo saluto augurale
della menzogna
di questi versi
e di questa recita
abituale



Harry.

giovedì 24 dicembre 2009

A Natale si può fare di più

(c) Altan


A Natale si è tutti più buoni.
Auguri!

Nella fila produttiva dei fumetti sta accadendo qualcosa. È come il nulla de La Storia Infinita, che lentamente ma inesorabilmente inghiotte la luce.
In Italia, i fumetti si fanno in tre modi (semplifico, banalizzo): si producono da zero all’interno di un sistema aziendale strutturato (Bonelli, Astorina, Disney, …); si producono da zero in meccanismi vicini all’autoproduzione, o pubblicando lavori realizzati nei ritagli di tempo da autori più o meno bravi, più o meno importanti; si adattano, traducono e stampano lavori realizzati all’estero (sono la maggioranza).

Nel terzo caso, pubblicare un fumetto implica un lavoro di traduzione della lingua, di adattamento grafico (lay-out di pagina, balloon, onomatopee, …), di impaginazione e di supervisione complessivo al lavoro degli specialisti (traduttori, letteristi, …).
Il prezzo finale del fumetto che stringiamo concupiscenti tra le mani deriva da tutti questi fattori, più il costo della stampa, che è legato alla tiratura e alla qualità dei supporti (carta, rilegatura, ecc.), più la distribuzione, più la pubblicità, più i costi redazionali fissi, ecc.

Lo so, ci sono un sacco di inesattezze e di eccetera in questa mia rapida descrizione.
Quello che mi preme dire è che l’indotto (si chiama così) derivante dalla pubblicazione di un singolo albo o volume a fumetti originariamente pubblicato all’estero dà lavoro a molte persone e incide in modo significativo sul costo finale del prodotto e, specularmente, sugli utili che quel prodotto garantisce alla casa editrice (quando gli utili ci sono).
Alcuni fatti recenti stanno progressivamente riducendo i soldi per pagare parte della filiera. Se i costi di stampa si possono ridurre solo parzialmente, si può però cercare di pagare meno i traduttori, i letteristi, i supervisori. Ciò vuol dire, da un lato, strozzare il collo a chi quel lavoro lo fa da anni; dall’altro, dare lavoro a forze giovani, alle prime esperienze professionali, che pur di entrare nel mercato svendono la loro professionalità nascente innescando un circolo vizioso al ribasso. Sia chiaro, non è un fatto nuovo nel mercato del lavoro. Nel mondo della grafica pubblicitaria, per esempio, avviene la stessa cosa da anni.
Il meccanismo ha almeno due conseguenze: professionisti anche affermati che si trovano a dover cambiare lavoro o integrare la propria professionalità con altri lavori e lavoretti; un crollo verticale della qualità dei prodotti.

Ci sono grosse case editrici che sono diventate celebri (famigerate) per gli errori all’interno dei propri albi: traduzioni fatte male, balloon in lingue diverse da quella italiana, errori di ortografia, impaginazioni sbagliate. Hanno tempi produttivi velocissimi (perché stampano molte, moltissime pagine al mese) e pagano pochissimo. Gioco al ribasso, prendere o lasciare.
Ci sono case editrici che cambiano di colpo service o gruppo di redazione perché troppo costoso, per lavorare con i loro assistenti, più economici e meno esperti.
Ci sono altre case editrici che vedono l’andazzo e provano ad adeguarsi tagliando i costi in modi similari in nome della concorrenza.
Ci sono altre case editrici che semplicemente non pagano, o pagano a distanza di molti mesi da quando pattuito (e solo dopo incalzanti e costanti richieste da parte di chi quei soldi li deve avere per diritto).
Qualcuno mi ha detto: è l’Italia, è così per ogni settore produttivo.
Io penso che una china come questa nell’ambito del fumetto negli ultimi anni non si sia mai vista. Anche perché si associa a una produzione quantitativamente molto elevata. In sostanza, non si sono mai prodotte e stampate così tante pagine di materiale estero come negli ultimi tre anni (comics, manga, bd). E le vendite, che io sappia, non sono in espansione.

Tutto questo meriterebbe una bella indagine. Credo che valorizzerebbe qualunque rivista di critica e giornalismo sul fumetto. Creandosi un sacco di antipatie, certo. E denunce? Non so. Ci vogliono le spalle grosse per questo tipo di lavoro? O forse soltanto pazienza e tempo e vocazione?

Harry.

lunedì 21 dicembre 2009

Dal 2009


Ci avviciniamo alla fine dell’anno.
Mi viene l’idea di proporre una sequenza di letture per ripercorrere un anno di fumetti, ma ci ripenso. Basta sfogliare il mio blog per farlo almeno parzialmente.
Ho letto parecchio quest’anno, ma sono molti, moltissimi i fumetti che attendono sugli scaffali di casa. Per cui non posso dire di avere una visione esaustiva. Forse esausta.
Forse, seguendo il consiglio di Cioran (o era Kraus, dovrei chiedere alla Bambina Filosofica?!), potrei provare a recensire un fumetto prima di averlo letto, in modo da non farmi condizionare. Potrebbe essere Pluto di Urasawa che non ho ancora avvicinato.

Nelle pagine di Pluto, Urasawa riprende magicamente le intuizioni del maestro Tezuka, che ha celebrato l’umanità androide in Astro Boy. Urosawa sa creare tensione e incollare il lettore alla pagina con un ritmo avvolgente, attraverso tavole curate al dettaglio, taglienti ed espressive. In Pluto l’uomo si rispecchia nelle proprie creature robotiche, riscoprendosi più malvagio e infernale di esse…

Bah, insomma, a parte le sciocchezze, non l’ho ancora letto, ma Pluto è necessario.
È che muoversi tra Morti di Sonno, La Signorina Else, Unknown Soldier, Echo, La Storia di Carrie in Caravan #4, Hanzo, Interno Metafisico con Biscotti, The Boys, … lascia l’impressione che il fumetto, con tutte le sue incertezze imprenditoriali ed editoriali, sia più sano che mai.
Forse la cosa più bella che ho letto però è inedita in Italia. Si chiama Asterios Polyp e ne ho parlato. E David Mazzucchelli dovrebbe essere l’esempio da seguire, sopravvissuto al fumetto mainstream e rinato autore completo e autonomo. Ma non mi fermo a lui. Perché da David mi aspettavo questo. In questo modo.
Per cui, mi limiterò a indicare il fumetto che più mi ha sorpreso, io che seguo a fatica la BD, in lingua italiana o inglese, io che mai avevo avuto il piacere di leggere Denis. Ecco, siamo arrivati. Qualche mese a l’Amelie di Jean Claude Denis è il fumetto più impressionante che ho letto quest’anno. Probabilmente per le ragioni sbagliate, ché adesso non ho voglia di spiegarmi e raccontare. Ma nelle pagine di questo libro mi sono perso, nell’inquietudine dei sentimenti. Era il periodo in cui leggevo con insofferenza Final Crisis di Morrison, e ho scoperto con gioia un altro autore, di cultura totalmente diversa, che ha affrontato il mistero della narrazione e del meta-testo senza cadere nel tranello dell’intellettualismo. Che ha saputo usare la finzione delle scatole cinesi come provocazione emotiva, contenitiva, accumulativa, riverberante.
Fidatevi, e non fidatevi di queste parole. Leggete Qualche giorno a l’Amelie e, forse, ne sarete piacevolmente sorpresi e toccati. Per il resto c’è tempo.

Harry

sabato 19 dicembre 2009

The Comics Journal non più journal


The Comics Journal, storica rivista di cultura e critica statunitense sul fumetto, ha recentemente comunicato di interrompere la propria pubblicazione quasi mensile (8-10 numeri l’anno) per trovare una nuova veste e una nuova casa in internet. La pubblicazione cartacea sarà saltuaria, con 2 numeri l’anno, in un formato tabloid di grande dimensione, che renda speciale ogni uscita. L’ultimo numero della precedente incarnazione, il 300, non è ancora nelle mie mani, per cui è presto per lasciarmi andare a qualunque manifestazione di malinconia o rimpianto (ah, i ricordi!).
Ma la nuova trasformazione virtuale è già in atto, e mi ritrovo senza la voglia di leggerne le pagine. Riflettendoci, capisco la fatica di chi segue la critica on-line. Per quanto ci convinciamo del contrario, non ci piace leggere pezzi lunghi o densi al pc. Probabilmente, non siamo percettivamente fatti per questo. Non ancora.
Non vorrei sembrare nostalgico o anacronistico. Ma ricordo che il primo piacere che provavo nell’avere il nuovo Comics Journal tra le mani era sfogliare le pagine, leggiucchiare, depositare. Riprendere, segnare, rileggere. Un piacere che il nuovo sito offre con difficoltà. Ma è una difficoltà mia, sia chiaro.

Diverso è ragionare sul tentativo che Fantagraphics Books, Gary Groth e compagnia stanno cercando di sviluppare. Un paio di anni fa, TCJ aveva sviluppato un’inchiesta sulla critica e il giornalismo on-line, che aveva evidenziato molti dei limiti di cui si parla anche in Italia: volatilità delle informazioni, difficoltà di fare approfondimento, mancanza di autorevolezza percepita, incongruenza di informazioni con spiccata tendenza al chiacchiericcio e al sentito dire, ecc. Si concludeva dicendo, in estrema sintesi, che il giornalismo on-line sul fumetto funziona per quanto riguarda news e gossip, meno per tutto il resto.
Scegliere di andare on-line, potenziando un sito che era, finora, solo (o quasi) vetrina della rivista cartacea, per renderlo struttura informativa, giornalistica e critica autonoma e autorevole, nasce io credo anche da quelle considerazioni. Dalla volontà di superarle.

Nella presentazione ufficiale si dichiarano alcuni intenti importanti:
- Tutto il contenuto del sito sarà gratuito. Non ci saranno aree riservate a chi sottoscrive un abbonamento.
- Le novità del sito saranno sviluppate lentamente, per non nutrire false attese e non fare il passo più lungo della gamba, ritrovandosi con rubriche e contenuti troppo onerosi da gestire.
- Si porrà attenzione a nuovi editorialisti e nuovi blogger che saranno parte strutturante del sito.
- Verrà rilanciato l’archivio audio del sito e saranno valorizzati tutti i contenuti che non erano presentabili in una rivista cartacea: video, gallerie di immagini, disegni inediti, e blog (di nuovo).

Tra le motivazioni del cambiamento, la prima esplicitata è la necessità di essere più al passo con i tempi e le notizie: produrre materiale che sia in “diretta” con l’evoluzione del medium. Inoltre, dare spazio a più voci contemporaneamente, in una prospettiva più aperta e plurima, organica, verrebbe da dire.
È ovvio pensare che dietro a questa scelta ci sia anche una nuova valutazione dei costi. La rivista perdeva lettori e appariva sempre più un baluardo, una fortezza di difficile accessibilità. Di fronte alla possibilità di effettuare un rilancio di impostazione della rivista, con il rischio di non ottenere riscontri reali, Groth ha deciso di rivoluzionare tutto.
La domanda che Ruperth Murdoch potrebbe fare a Groth è da dove prenderanno i soldi per la nuova incarnazione. Come e quanti soldi si aspettano di fare producendo una rivista on-line. Quali sinergie vogliono sviluppare, affinché la rivista possa generare utili per Fantagraphics o quanto meno pagare le spese di gestione del sito, dei contributi dei collaboratori, ecc.
La scommessa è (anche) questa.
La scommessa è (anche) quale forma assumerà nel tempo una delle più importanti e riconosciute espressioni di critica del fumetto occidentale.
Spero mi venga presto la voglia di leggere.

Harry.

giovedì 17 dicembre 2009

Cucina. L'ingrediente segreto


Nella musica classica occidentale era uso fare esercizio di parodia. L’esempio più celebre è il lavoro di Johann Sebastian Bach sullo Stabat Mater di Pergolesi. Ma gli esempi non si contano, soprattutto in ambito liturgico e lirico. Gioacchino Rossini, noto per la velocità con la quale componeva le sue opere, era un maestro della parodia, perché riprendeva brani e musiche proprie e altrui ricucendole all’interno di un contesto nuovo. Si dice, forse a ragione, che Rossini fosse una sorta di juke box di arie celebri.
Parodiare, quindi, nella musica cosiddetta colta, non aveva nulla a che fare con lo sberleffo o con la copia. Ma sottintendeva un processo di lavoro basato sulla rielaborazione e la ri-contestualizzazione.
Se ci fermiamo a questa definizione, possiamo trovare esempi di parodie riuscite in moltissime opere a fumetti. Non so perché, ma l’esempio più immediato che mi è saltato in mente è Ronin di Frank Miller. L’autore statunitense ha parodiato apertamente Lone Wolf and Cub, di Koike e Kojima.

(c) koike e kojima

Il tentativo di Miller, parzialmente riuscito ma senza dubbio seminale, agiva su diversi livelli: il più immediato è quello visivo, nel tratto, nel disegno e nella costruzione della tavola; il secondo, più sottile, è tematico e concettuale. È il tentativo di trasformare un’antica storia di samurai orientale in una moderna favola post-industriale occidentale.
Insomma, da questo punto di vista, Ronin è una parodia che lavora sia sul piano dei codici utilizzati che su quello dei contenuti narrativi, delle suggestioni e dei contesti culturali.

(c) Frank Miller

Il fumetto, arte povera per eccellenza, arte del rimescolamento, della rimasticazione, della macellazione del suino, si è evoluta negli anni mantenendo un sottile equilibrio tra parodia, citazione, omaggio e copia. Se ne è parlato a proposito del recente inciampo nel quale Panini Comics è incappata con la realizzazione del fumetto Le Cronache Del Mondo Emerso, dove Ferrario, il primo disegnatore del progetto, ha riutilizzato, copiandoli, pezzi di fumetti e anime di altri autori, per lo più orientali.
Era parodia, questa?
Era omaggio?
Era pigrizia?
Era furbizia?

Qualche giorno fa, mi è stato segnalato un articolo che evidenzia il chiaro processo di ricalco, in perfetto stile copia-incolla-ribalta, che Cristiano Cucina ha effettuato per una copertina di Jonah Hex della DC Comics a partire da due copertine di Magico Vento, una a firma Andrea Venturi e l’altra Pasquale Frisenda.
L’articolo non lascia dubbi sul processo realizzativo della nuova copertina. È una parodia? Per certi versi, sì.
Il fumetto, come si sa, non è altro che una composizione di simboli. Ogni tratto all’interno di un disegno è una rappresentazione in sostituzione di qualcosa d’altro. È innanzitutto il tentativo di riprodurre la tridimensionalità in uno spazio bidimensionale. E il simbolo, come si sa, ha per sua natura la caratteristica della riproducibilità all’infinito.

le copertine di Frisenda e Cucina a confronto

Gli stivali, pezzi di gambe penzolanti, ripresi dal disegno di Frisenda, possono essere visti come un simbolo isolato, da ricomporre e riprodurre. È qui che si nasconde il problema del fumetto, che è anche la sua forza popolare; è qui che prende forma l’ambivalenza tra originalità e copia che il fumetto più di altri media vive dalla sua genesi.
Ma se il simbolo, di per sé riproducibile, può rimanere immutato in prodotti diversi, quello che è assente, nel lavoro di Cucina, è il suo segno. Se il simbolo è riproducibile all’infinito, il segno dovrebbe essere unico, personale, idiosincratico. È una prerogativa autoriale, cioè l’opportunità (la necessità) che ha l’autore di definirsi agli occhi dei lettori, di caratterizzarsi (darsi carattere) e di affermarsi. Non solo. Cucina evidenzia la propria incapacità di rielaborare e ricontestualizzare. Jonah Hex, come Magico Vento, è una serie di ambientazione western. Gli elementi copiati da Cucina non perdono minimamente il significato iniziale, ma lo mantengono in uno scenario parzialmente differente: due pistole incrociate e un teschio. La banalità della scelta simbolica di questi elementi – banalità per il genere narrativo in questione, il western – non permette a quegli stessi elementi di acquisire nuovi significati. Se ne deduce, quantomeno, una mancanza di cultura visiva del disegnatore in relazione al tema in oggetto. Alla quale si associa, probabilmente, pigrizia e una certa furbizia, essendo la copertina di Jonah Hex prodotta per un mercato differente da quello italiano.
In definitiva, quello che viene leso, in questo esempio, non è il diritto d’autore di Venturi e Frisenda, ma il diritto(dovere) di essere autore di Cucina medesimo.


Harry.

sabato 12 dicembre 2009

Padre Pio e Jimmy Corrigan


Sincronismi.
Recentemente ho parlato di come Chris Ware rielabora il nostro immaginario quotidiano in Jimmy Corrigan, utilizzando un accostamento con l'iconografia di Padre Pio.
Ebbene, oggi ricevo per posta la foto che trovate qui sopra.
Osservatela e rileggete, se vi va.

Harry.

(ovviamente ho editato il post in questione aggiungendo la stessa foto a chiusura del testo)

venerdì 11 dicembre 2009

Sigaretta


Il fatto è che devo chiudere un pezzo, una trilogia.
Cominciata con i supereroi, proseguita con le strisce.
Il fatto è che per chiuderla devo scrivere di Spiegelman, e non è mica facile.
Lui e le sue nubi, le sue sigarette e i fumetti.
Mi sto documentando, leggendo stralci di interviste e storielle.
Ci sto lavorando. Chiedo tempo.

Harry.

domenica 6 dicembre 2009

Bottero "Krazy Kat"



Alcuni mesi fa ho parlato della nomina di Alessandro Bottero a Direttore Editoriale della Free Books. In quell’occasione ho espresso alcuni dubbi e preoccupazioni in merito allo stile e alle capacità imprenditoriali di Bottero che avrebbero dovuto rilanciare le attività della casa editrice romana.
Nel frattempo sono accadute due cose, una conseguenza dell’altra.
Primo fatto: Bottero e Cagliostro E-Press hanno aperto un nuovo sito di critica fumettistica, Fumetto d’Autore. Secondo fatto: Bottero ne è il responsabile editoriale e ha iniziato a scrivere editoriali a pioggia.
La nascita di un sito come Fumetto d’Autore, a leggere gli intenti espresse dai curatori, sembrava guidata dalla volontà di esprimere un nuovo punto di vista sul fumetto a tuttotondo, con un impianto più strettamente “giornalistico” e con un approccio culturale ben caratterizzato. Un approccio che potremmo vagamente definire cattolico, liberista e, per estensione, di “destra”. Il che rappresenterebbe una novità nel panorama della critica italiana, che ha la sua matrice in una cultura diversa, che per semplificazione chiamiamo di “sinistra”.
Purtroppo Bottero ha scambiato il ruolo di editorialista con quella di blogger attaccabrighe. Il contenuto dei suoi pezzi è spesso pieno di acredine, poco circostanziato, generico e riferito a fatti conosciuti solo a chi è in un certo giro di letture (di internet). A questo si aggiungano un paio di interventi goffamente promozionali delle proprie produzioni e di quelle di Cagliostro E-Press. Detto con chiarezza, se fossi un autore pubblicato da Bottero e dalla Cagliostro non sarei molto felice di essere rappresentato in quel modo. E si torna a Free Books.

Il tenore generale degli editoriali ha questo andamento: Bottero evidenzia un dato (più o meno oggettivo, spesso mal decodificato al lettore qualunque), per lo più rappresentante il punto di vista del sistema fumetto secondo lui. A quel punto inizia una sorta di goffa invettiva, che si riassume con un più o meno soddisfacente “voi non capite nulla”, “in questo modo il fumetto andrà a picco”, “vi insegno io come si fa”. Uno degli ultimi esempi ha per oggetto due produzioni Free Books, entrambi interessanti ma molto diverse per qualità editoriale e risultato: Krazy Kat e Steve Canyon.
Sono diverse perché se la prima è proposta in volumetti filologicamente curati e ben confezionati (in tutto simili all’edizione originale di Fantagraphics Books, che vanta la veste grafica di Chris Ware); la seconda ripropone l’edizione Checker Book Publishing di Steve Canyon, poco curata per veste editoriale, con le vignette rimontate e quindi non nel formato originariamente pensato dall’autore Caniff. Sono entrambi pezzi importanti di storia del fumetto statunitense e non dovrebbero mancare nelle librerie di nessuno, ma di Steve Canyon sarebbe auspicabile un’edizione diversa, molto più appetibile per gli estimatori del capolavoro di Caniff.


Nell’editoriale Bottero evidenzia il fatto che oggi pochi o nessuno parlano di queste opere, le leggono e danno loro la giusta rilevanza. Aggiungo che con un’acuta scorrettezza, non accenna al fatto che i due prodotti sono della casa editrice di cui è Direttore Editoriale, ma il punto non è questo.
Qualcuno ha notato una diversa capacità promozionale di questi prodotti da quando Bottero è a capo delle scelte della Free Books? No. La sua intelligenza gli suggerisce di lavorare sul senso di colpa degli sfortunati avventori di Fumetto d’Autore. "Mal per te, se non conosci, non leggi e non parli di queste due opere". Tutto qui. Nell'editoriale ha forse cercato di descriverne alcuni pregi? Di motivarne la validità? Nulla.
Purtroppo non è sufficiente. Krazy Kat e Steve Canyon sono lavori storici, non di immediata fruibilità, che scompaiono in visibilità dietro alle tante novità che affollano le librerie specializzate e generaliste. Sono opere che devono circolare supportate da azioni promozionali che hanno più a che fare con la diffusione di idee e di iniziative culturali nel territorio, che possono marcare la differenza in contesti dove si voglia parlare della storia ancora viva del fumetto. Perché se portare questi lavori in Italia è più che lodevole, saperli proporre e diffondere fa la differenza tra chi l’editore è capace di farlo e chi no. Tradurre e stampare è solo un pezzo del mestiere dell’editore. Quello forse meno importante, al giorno d’oggi. E non è attraverso il vittimismo, la superficialità e l’invettiva che si convincono i lettori a leggere i fumetti. Non è attraverso il senso di colpa, per quanto sia un meccanismo tecnicamente e tenacemente cattolico-governativo, quindi ben conosciuto da Bottero. Il dubbio è che opere di tale portata siano al di là delle capacità editoriali e imprenditoriali della Free Books e delle persone che la rappresentano.

Harry.

mercoledì 2 dicembre 2009

Gualdoni e Dylan Dog - mi spiego




Giovanni Gualdoni è un giovane sceneggiatore italiano con all’attivo una lunga lista di opere, rispetto al suo relativamente breve periodo di attività, prodotte per lo più per il mercato francese e successivamente pubblicate anche in Italia. L’ultima sua fatica che ha destato piuttosto interesse in Italia è stata Wondercity, Il Collegio delle Meraviglie, miniserie incentrata su giovani personaggi con poteri sovrumani.
Nessuno dei lavori che ha sinora pubblicato sono imprescindibili per gli amanti del fumetto. Si è spesso parlato di essi come di opere fresche, anzi freschissime. Come si sa i prodotti freschissimi hanno alcuni pregi ma un caratteristico difetto, scadono in fretta. E in effetti, i lavori di Gualdoni, riletti a distanza di qualche tempo, appaiono superficiali e poco incisivi.
Da circa tre anni Gualdoni è entrato a far parte del gruppo dei redattori della Sergio Bonelli Editore, affiancandosi a Mauro Marcheselli nella cura editoriale di Dylan Dog; un ruolo di rilievo, quindi, soprattutto alla luce del recente annuncio del ritiro di Marcheselli dalle sue incombenze per la casa editrice milanese.

A questo punto si pongono alcune domande. Detto dello stato quasi catatonico in cui versa da anni la serie di Dylan Dog, mi chiedo quale progettualità si potrà sviluppare con il passaggio di testimone. Da alcune parole espresse da Paola Barbato nel suo blog, sembra che ci sarà un maggior impegno di pianificazione nella realizzazione delle storie, che ricadrà meno sulla fiducia e l'esperienza del redattore che tutto coordina e tutto sa (del personaggio).
In effetti, i redattori esperti, che conoscono il personaggio e che sono figure riconosciute da anni, possono quasi da soli tenere insieme le sorti di una testata. Ricordo che, prima della chiusura, Nick Raider era tenuto in piedi dalla cura editoriale di Renato Queirolo, che faceva sforzi enormi nel dare una struttura e una coerenza a una serie senza più padre e che mostrava una preoccupante e (definitiva) deriva di autori. Le prove di Alberto Ongaro (firmate Alfredo Nogara) per il primo giallo Bonelli sono assolutamente da dimenticare, sia sul piano della trama che della caratterizzazione dei personaggi. La mia sensazione è che in Dylan Dog si sia lavorato negli ultimi anni in modo similare, contando troppo sull'esperienza di Marcheselli e poco su un reale, costante investimento personale degli sceneggiatori coinvolti. Aggiugno che il parco sceneggiatori, per quanto senza dubbio preparato sul piano tecnico, ha mostrato non poche debolezze sul piano dell'efficacia narrativa e della personalità. Pasquale Ruju è un autore prolifico quanto inefficace (come dimostrato dalla sua prova a solo su Demian), le poche prove di Tito Faraci sono sempre state fuori sintonia e meccaniche, Michele Medda ha mostrato professionalità e idee, ma con alcune cadute di tono dimenticabili. E la lista potrebbe continuare. La stessa Paola Barbato, chissà perché indicata da quasi subito come presunta erede di Tiziano Sclavi (erede di cosa, poi?!), ha mostrato il fianco per un approccio al personaggio forte ma sfocato.
Se da Gualdoni ci si aspetta una migliore programmazione di uscite, una maggiore attenzione alla coerenza interna, un maggior rispetto di impegni e scadenze, non ho dubbi che possa svolgere positivamente il suo lavoro.

Diverso è chiedersi se Gualdoni abbia una sua idea del personaggio da sviluppare con gli autori nel corso dei prossimi anni. Non leggo, nella biografia dello sceneggiatore, un percorso che possa garantire tale fondamentale ruolo strategico, ammesso che l’ingombrante ombra di Sclavi (che pesa più per la sua assenza, direi) lo permetta.
A giudicare dalle sparute prove che Gualdoni ha fatto sul personaggio come autore, viene il dubbio che egli creda davvero nel suo potenziale narrativo, considerate la leggerezza e l’inconsistenza di tali storie (e qui si aprirebbe un altro capitolo, inerente le discutibili scelte delle storie per “eventi” annuali quali il Color Fest e i Giganti).
Per il futuro sembra che la redazione intenda puntare sulle qualità di Roberto Recchioni, anche se Mater Morbi, il numero in uscita in dicembre che rappresenta la sua seconda prova sulla serie regolare, crea aspettative soprattutto per i disegni di Carnevale. Recchioni è la promessa per Dylan Dog, almeno dalle attese cresciute in questi mesi, anche se l’arrivo dello sceneggiatore in Bonelli è stato tutt’altro che semplice e in discesa, a quanto ci è dato sapere.

Altre domande riguardano la capacità di Gualdoni di gestire, guidare, “correggere” i nomi storici della testata, soprattutto tra i disegnatori. Basterà la sua affabilità? Aggiungo che anche qui, malgrado la caratura elevata dei disegnatori storici di Dylan Dog, si auspicherebbe un netto rinnovamento, per ritrovare freschezza, gioco e invenzione, per liberarsi da un certo manierismo che emerge in molti recenti lavori.

Infine, una battuta. Da quel che so, Gualdoni ha più volte detto di non leggere molti fumetti, per non farsi influenzare in fase creativa. Al di là della superficialità della considerazione, che da sola meriterebbe una discussione – e strappa una cupa risata – colpisce il fatto che un autore che non ama farsi influenzare dal lavoro altrui si ritrovi a fare il redattore di una testata e, di conseguenza, a leggere migliaia di pagine di sceneggiatura e di tavole di fumetti altrui ogni anno. Quando si dice la vocazione!
In tutti i casi, non ci resta che attendere e giudicare dai fatti.

Harry.

venerdì 27 novembre 2009

Nuova cura editoriale per Dylan Dog


"- Bruno, senti, ehm, questa tavola non funziona, secondo me. Ecco, potresti modificarla?
- No.
- ... OK ... Grazie. [Che schifo di lavoro!]"

(la notizia)


Harry

sabato 21 novembre 2009

Scappatelle esistenziali


La copertina inganna: le scappatelle del sigor Lopez non è un fumetto erotico.
Si tratta dell’ennesimo gioco narrativo del maestro argentino Carlos Trillo.
È una semplice opera di ingegno, che si basa su un meccanismo preciso: il frustrato e depresso signor Lopez, isolato da una realtà che non sa affrontare, si rifugia regolarmente in bagno, dove la sua fantasia e la sua azione muta, si personalizza, si chiarisce.
Si sa, il bagno è l’unico luogo in cui si può stare da soli con se stessi.
Ed è vero, le bellissime donne di Horacio Altuna con le quali spesso Lopez si rifugia offrono una facile interpretazione onanistica (esplicitata in una storia in cui il protagonista compra un numero di Playboy in edicola).
Ma la necessità di un rifugio per Lopez è soprattutto un’esigenza sociale. L’immaginario con il quale giocano Trillo e Altuna (già insieme nell’indimenticabile Loco Chavez) è quello della repressione politico-militare, dell’anomia esistenziale, dell’incomprensione familiare, dell’apatia lavorativa.
Uno dei racconti più efficaci ha a che fare con l’arte. Un gruppo di artisti è seduto al tavolino di un bar. Lopez con loro. Discutono del conflitto tra libertà di espressione e limitazioni sociali (ed economiche). Il protagonista, annoiato, si rifugia nel bagno. Incontra un pittore in lotta con sconosciuti. Lopez lo aiuta a liberarsi. A quel punto l’artista riesce a completare il suo enorme dipinto. Un albero. E infine vi si impicca.
Libertà espressiva come nichilismo?

L’ironia e la dolcezza in Lopez si uniscono a una feroce idea di inadeguatezza alla vita e all’incapacità di ritrovarsi al passo con i tempi, agli inizi degli anni ’80, in un mondo in veloce trasformazione e sempre più ricco di contraddizioni.

La formula a lungo andare stanca? A me piacciono queste premesse lineari e semplici, che aprono la strada alla fantasia più libera.

L’ottimo volume è pubblicato da Planeta De Agostini e costa meno di quanto sareste disposti a pagarlo.


Harry.

giovedì 19 novembre 2009

Pinched wednesday (mercoledì ossuto)

(c) Renee French



Renee French.
Ci torno giornalmente.

Harry

mercoledì 18 novembre 2009

Jimmy Corrigan e Padre Pio



Volevo spiegarti come Chris Ware ha lavorato al suo capolavoro Jimmy Corrigan, The Smartest Kid On Earth (da poco in vendita in edizione italiana per Mondadori), per cui ti faccio un esempio. Siamo nel campo della finezza psicologica e culturale.

Pensa a un’impresa edile italiana, una qualunque. Poni sul cartello dei lavori di questa impresa, in una strada qualunque di una città qualunque, accanto al logo, l’immagine sofferente di Padre Pio. Innesca un piccolo corto circuito logico e il gioco è fatto.
L’immagine di Padre Pio e l’impresa edile in quale mondo di relazioni si trovano? Come muta, si trasforma l’idea di Padre Pio associata all’idea di una comune impresa edile?
Come muta tale idea in base all’informazione che segue (da Wikipedia)?

Dal 24 aprile 2008 al 23 settembre 2009 a San Giovanni Rotondo è stata esposta la salma di Padre Pio, all'interno di una teca di cristallo costruita appositamente. Essa in realtà è stata poco visibile: il volto, conservato solo nella parte inferiore, è ricoperto da una maschera di silicone che ne riproduce le sembianze. La salma poggia su un piano di plexiglas forato e rivestito di tessuto. Al di sotto ci sono due contenitori in pvc pieni di gel di silice per la regolazione dell’umidità. Nella teca è stato immesso azoto per evitare ulteriori decomposizioni. Il 23 settembre 2009, nell'anniversario della morte, si è conclusa l'esposizione del cadavere con una solenne cerimonia.

Aggiungi un risvolto culturale che deriva dalla conoscenza del lavoro edile in Italia, ovvero subappalti, lavoratori extracomunitari in nero e sottopagati, le squadre di reclutamento nei mattini umidi dell’autunno novembrino. Associa un’idea di città che riconosci, un incrocio, i cartelli, grigi palazzi immobili, una fermata dell’autobus, l’insegna di un McDonald’s in lontananza. Coniuga queste percezioni e sensazioni con la tua progettualità del momento, ovvero il motivo per cui ti trovi a passare di lì in quel momento, dove stai andando, cosa devi fare, quali preoccupazioni si collegano al tuo fare.
Respira.
Che significato assume, per te, in questo preciso momento, l’immagine di Padre Pio?


Ware sviluppa una narrazione nella quale nulla è neutro o indifferente. Ogni oggetto e contenuto di una vignetta, di un’inquadratura, di una scena è sottoposta a un preciso processo di soggettivizzazione. Ogni rappresentazione visiva rimanda a un significato simbolico altro che è proprio del protagonista della storia, che racconta della sua esperienza di vita, delle sue emozioni. L’immagine su un cartello stradale di un alce porta alla mente di Jimmy Corrigan l’idea di non aver mai visto dal vero un animale simile. Un poster in una stanza rivela ricordi passati, o un’idea nuova del proprio padre. I simboli, poi, si spostano, attraversano le vignette e le pagine. La posizione di una mano stilizzata di una persona in una vignetta viene riproposta identica, ma attaccata a una seconda persona in un contesto diversissimo, eventualmente dal contenuto emotivo opposto al precedente. Flashback, sogni, pensieri astratti si associano allo scorrere degli eventi senza soluzione di continuità, perché è in questa nuvola assordante e cacofonica di associazioni mentali che siamo immersi ogni istante della nostra vita.


Padre Pio, nell’immaginario italiano, ha quindi la stessa forza iconica dell’insegna di McDonald’s, e come tale vive indipendentemente da un preciso contesto religioso e ancor più al di là della reale esistenza su questa terra di Francesco Forgione.


Da questo punto di vista, il lavoro di Ware rivela moltissimo del potenziale espressivo del fumetto, ed è un’opera di ingegno senza eguali. Il che non vuol dire esprimere una valutazione necessariamente ed esclusivamente positiva di Jimmy Corrigan come fumetto, perché la cacofonia percettiva si traduce anche in un’esperienza di lettura a tratti estenuante, involuta e macchinosa. Ma questa non vuol essere una recensione in due righe su Jimmy Corrigan (lo specifico perché qualcuno potrebbe fraintendere), quanto una riflessione sui processi psicologici e culturali che danno vita al suo incredibile meccanismo narrativo.


Harry





nota: esclusa quelle di Padre Pio, tutte le immagini sono (c) di Chris Ware

martedì 17 novembre 2009

Supereroi e strisce. Parte 2 - La libertà delle strisce

- ehi, cosa sta succedendo?!
- ho subaffittato metà del nostro spazio a una striscia di avventura.
avevano bisogno dello spazio e noi avevamo bisogno dei soldi.



Intro.
Prima parte.

Torno a parlare di supereroi e strisce, le forme popolari per eccellenza del fumetto statunitense. Oggi parliamo di libertà espressiva nelle strisce.

Sulle strisce si è costruita la storia, la prima, del fumetto statunitense. Ancora oggi, sono un patrimonio straordinario di idee, approcci differenti, quotidiani ritorni.
La striscia funziona così, più o meno da sempre: la si trova su un giornale, quello che leggi, una al giorno, e la si assapora una dose alla volta, regolarmente. Negli anni in cui i quotidiani vendevano molto di più, 50, 100 volte tanto, le strisce migliori diventavano oggetto di vere dispute e di conflitti editoriali, di marketing ed economiche. Perché il meccanismo della quotidianità della striscia era uno dei motivi per i quali un lettore tornava, giornalmente, a comprare quel quotidiano piuttosto che un altro. Peccato perdere un numero, perché voleva dire bucare una puntata della tua striscia favorita.
Il termine, strip-striscia, dice tutto del formato e nulla del contenuto. Non proverò ora a raccontarne le caratteristiche e l’evoluzione. Ma mi preme evidenziare un’idea: detto della presunta rigidità della forma, del contenitore, il contenuto ha negli anni mostrato massima flessibilità. Tanto da spingere Mort Walker, noto e anziano fumettista, a dichiarare in una recente intervista del Comics Journal (#297; qui un estratto) curata da R. C. Harvey:

As a personal enterprise for a cartoonist, the comic strip is one of the few media that allows one person to express his philosophy, his anger, his joy, and his disappointment without outside restriction. It is one of the purest forms of art and expression that exists.

(Per un autore di fumetti, come impresa personale, la striscia
è uno dei pochi mezzi di comunicazione che permette a una persona di esprimere la propria filosofia, la propria rabbia, la propria gioia e la propria delusione senza restrizioni esterne. È una delle forme d’arte ed espressive più pure che esistono.)

Walker ha più di ottant’anni, ha un’impresa familiare che produce strisce (sei dei suoi figli sono impegnati lì, insieme a un gruppo ormai storico di collaboratori) ed è un perfetto esempio di self-made man americano. Dall’intervista di Harvey, molto dettagliata e documentata ma fin troppo compiacente, Walker si configura come un uomo affabile, sempre sorridente, abile imprenditore di se stesso, amato da tutti, con molte idee, predestinato alla realizzazione. Questo suo ottimismo, dall’alto dei suo anni, è senza dubbio giustificato dal successo di almeno due delle tante strisce che ha realizzato, ovvero Beetle Baily e Hi and Lois, che hanno visto la luce agli inizi degli anni ’50 e tuttora in produzione. Ma non è per queste due strisce che vi parlo di Walker, bensì per l’ottima e innovativa Sam’s Strip, realizzata agli inizi degli anni ’60 con il fondamentale contributo del disegnatore Jerry Dumas.



Sam’s Strip è una striscia che parla di strisce. È uno dei primi lavori popolari statunitensi squisitamente meta-fumettistici, anche se episodi (saltuari) di questo tipo si erano già visti altrove (per esempio sulla misconosciuta, in Italia, Pogo di Walt Kelly, che meriterebbe un giorno una ristampa organica). Sam’s Strip ebbe due anni di vita, prima di morire per il poco interesse dei giornali e del syndicate che la distribuiva (ebbe poi una nuova incarnazione, Sam and Silo, ma senza la stessa efficacia). In quei due anni, Walker e Dumas sperimentarono in completa libertà e svelarono al pubblico molti dei meccanismi che reggevano le strisce (umoristiche) fino a quegli anni. Alcune idee sono davvero efficaci, divertenti, e frutto di pura invenzione iconica. C’è il ripostiglio delle onomatopee usate nelle strisce, c’è la riflessione sulla gabbia, sulle proporzioni e le inquadrature, sulle tecniche per lavorare sulla ripetizione quotidiana (che lega il pubblico alle strisce) nelle sue molteplici varianti. Dumas è un maestro del disegno e il suo processo di sintesi, che lo ha portato a conoscere perfettamente il valore comunicativo di ogni singola linea, è da studiare per ogni aspirante disegnatore. La striscia, per i limiti che la caratterizzano (sempre maggiori, visto lo spazio sempre più ridotto che hanno nei quotidiani), richiede essenzialità e massima comunicazione con poco. L’estrema parsimonia di mezzi fa di questa forma di comunicazione una specie unica e rara. E dal potenziale simbolico enorme. (Senza citare il fatto che in questa forma nacquero lavori molto più stratificati e complessi, sia sul piano dei temi trattati che dell’invenzione visiva).



Oggi, il problema rispetto all’affermazione di Walker riportata sopra è che la libertà espressiva delle strisce è condizionato da diversi fattori, in primis la distribuzione dei quotidiani e le loro tirature (in crisi nera), e dalla politica dei syndicate che da sempre governano le sorti delle daily strip. Un esempio di libertà per così dire condizionata ce lo offre sempre Walker all’interno dell’intervista sul Journal di cui sopra.
Beetle Baily, la sua striscia più famosa, racconta le vicissitudini di uno svogliato ragazzo all’interno dell’esercito. L’idea di Wolker era di giocare con l’autoreferenzialità di quel mondo, in contrasto con la concreta idiosincrasia di un ragazzo non proprio brillante, ma che osserva quel mondo con gli occhi di chi è fuori. Criticata apertamente negli anni ’50 dall’esercito degli Stati Uniti, la strip ebbe un’impennata di vendite e di interesse pressoché immediata, che ne fece un clamoroso successo. Da lì a qualche anno, Beetle Baily venne accettata anche dall’establishment, tanto da portare Walker a ricevere premi all’interno del Pentagono! Il motivo? L’approccio neutrale o politicaly correct di Walker. A Harvey, nell’intervista, egli dichiara apertamente di non aver mai voluto prendere posizioni chiare sulle tante guerre che hanno sconvolto le coscienze civili degli americani (il Vietnam in primis) per non perdere metà dei propri potenziali lettori. Decise semplicemente di non affrontare quei temi. Ed ecco che, nel tempo, il gioco di Beetle Baily si è fatto sempre più cristallizzato, a-temporale, acritico e autoreferenziale. Lo sberleffo a un sistema è stato incorporato nel sistema stesso, rendendolo simpatico, un giocattolo comprensibile e accondiscendente.

Perché ancora, in periodo di crisi di vendite, il problema delle strisce è non avere lettori, e trovare strade per compiacerli. I giornali vendono sempre meno, riducono via via lo spazio ai fumetti perché sempre meno interessanti dal punto di vista commerciale, continuano a ristampare e ristampare le strisce long-seller (i Peanuts su tutte), pubblicano nuovi episodi di strisce antiche, su concetti antichi, realizzati dagli eredi artistici di ideatori ormai scomparsi (sono le così dette legacy strip, come Gasoline Alley, Popeye, ecc.) e perdere una fetta di pubblico per posizioni chiare sul piano ideologico rappresenta un rischio enorme (per uno scorcio piuttosto completo dello stato delle strip negli anni 2000, si legga sempre The Comics Journal, #286, ancora a firma di R.C. Harvey). Soprattutto se, a differenza per esempio del Trudeau di Doonsbury, si è cresciuti con l’idea che la soluzione migliore alla vita fosse sorridere a tutti ed essere apprezzati da più persone possibili. Insomma, in un tale contesto, lo spazio per la completa libertà espressiva nelle strisce appare essere, questa sì, una vera posizione ideologica che richiede un numero piuttosto alto di compromessi e di colpi di fortuna. Lo spazio perché nuove idee e nuovi autori provino la loro fortuna è sempre minore, e il livello di rischio che i syndicate vogliono prendersi è sempre meno.
Ma se la fotografia che ci offre l’intervista a Walker appare quanto meno sfocata, in particolare se rapportata all’oggi, è indubbio che la fucina delle strisce ha dato spazio e risalto a idee, protagonisti e autori straordinari, da recuperare, studiare, amare.


Harry.
(continua e finisce)


sabato 7 novembre 2009

Supereroi e strisce. Parte 1 - Omologazione supereroistica




Mi ero preso un impegno, che mantengo con la prima di tre parti.

Alessandro Di Nocera, nel suo Supereroi e Superpoteri (Castelvecchi), cerca di convincerci della validità e dell’importanza sociale e culturale della metafora dei supereroi. In un excursus amplio e piuttosto completo traccia l’evoluzione di un genere, che rappresenta IL fumetto popolare statunitense.
Purtroppo la sua analisi è ingabbiata, perché riesce solo parzialmente a contestualizzare i mutamenti in relazione ai contesti sociali, produttivi ed editoriali che li hanno condizionati. E ancora, Di Nocera osserva con un’analisi evoluzionista, adorniana, secondo la quale contano i punti di svolta, le innovazioni e le crescite dell’essere “vivente” che è il genere supereroistico, senza tuttavia metterlo in relazione agli altri generi. La sua attenzione ai salti evolutivi non mette in risalto un aspetto piuttosto avvilente: che gli anelli distintivi dello sviluppo di quel genere all’interno di un medium ben più ampio come il fumetto sono davvero pochi, rispetto alle migliaia e migliaia di pagine stampate in sessant’anni di storia. Inoltre, sono convinto che alcuni dei momenti significativi evidenziati da Di Nocera nel suo volume saranno nel tempo ampiamente ridimensionati. Infine, osservando il genere dal di fuori, ci si accorge della portata spesso decisamente ridotta che tali innovazioni hanno avvuto per il fumetto nel suo complesso.
Il punto è che, in anni e anni di monopolio (bi-polio) imprenditoriale e culturale, il fumetto di supereroi ha tenuto in ostaggio l’intero mercato, con meccanismi che vanno dalla saturazione degli spazi (espositivi, distributivi, mediatici, ecc.) a veri e proprie azioni di boicottaggio e di soprusi (ancora oggi gli eredi di storici autori aprono dispute legali con Marvel e DC Comics per la questione dei diritti d’autore). Di questo, Di Nocera non fa cenno, perché il suo sguardo è orientato esclusivamente all’interno.

All’esterno, ma con pensiero mimetico verso l’interno, con ironia e cinismo, guarda invece Daniel Clowes con Pussey, una delle opere a fumetti che lo hanno fatto conoscere a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Clowes finge di essere parte di quel meccanismo e di quel sistema culturale e produttivo, per metterne in luce gli aspetti più insopportabili e ridicoli.
Sembrano lontani quegli anni, oggi, e molte cose si sono mosse, ma è importante non dimenticare: il fumetto indipendente era quasi assente dalle fumetterie, tanto più dalle librerie di varia; i volumi (ristampe in paperback o graphic novel che fossero) erano prodotti rari, spesso invisibili, cose da veri appassionati o da collezionisti. Certo, negli anni ’80 l’esplosione del fenomeno dei fumetti in bianco e nero aveva lasciato alcuni validi eredi (Cerebus e Bone su tutti) ma la caduta a precipizio di questa prima, malata bolla speculativa aveva creato più danni e perdite che altro.
Il fumetto alternativo, in quegli anni, lo si stampava in mini-comics e lo si distribuiva ad amici, conoscenti ed editori. Era un vero sottobosco, dove solo alcuni editori cercavano di differenziarsi (Fantagraphics Books, per esempio, ma non va dimenticato che proprio Fantagraphics è per anni sopravvissuta grazie alla stampa di prodotti pornografici e in tempi recenti, sull’orlo della bancarotta, si è salvata grazie alla ristampa dei Peanuts in splendidi volumi curati graficamente da Seth – un clamoroso successo editoriale). Per il resto, erano le superstar dei supereroi a far parlare di sé, i Jim Lee e i Todd McFarlane che innovavano senza aggiungere nulla a un genere che tornava ripetutamente su se stesso. Il punto non è se dalla produzione mainstream sia o meno uscito, negli anni, qualcosa di buono, interessante e persino eccellente (la risposta è certamente sì), ma quanto essa abbia immobilizzato il medium, generando l’autoreferenzialità di cui spesso si parla e l’allontanamento dei lettori (per prime le donne).
Purtroppo, i supereroi come sistema di mercato si sono mossi da sempre per omologazione e piccole, spesso marginali differenze. La strategia è spesso stata quella di insinuare l’illusione della novità più che la realtà di un cambiamento tematico, narrativo. Quel che sappiamo oggi, anche grazie a opere come Pussey, è che il fumetto può muoversi in territori molto differenti, può parlare di altro e toccare sensibilità diverse.

Clowes non usa mezzi termini. Il protagonista, Dan Pussey, grazie alla forza editoriale del Dottor Infinity, che fa del potere, del ricatto e della mistificazione il suo modus operandi, si ritrova improvvisamente al centro della scena fumettistica. È la star del momento, il nuovo Jim Lee. Dietro al successo, si nasconde una ridotta conoscenza del medium, la necessità di scimmiottare e riprodurre il già edito, di ridicolizzare i concorrenti e, soprattutto, l’assoluta incapacità di offrire un proprio punto di vista originale sul mondo. Pussey è l'autore che, di fronte alla possibilità di raccontare una propria storia originale, rimane spiazzato e senza parole. Pussey è l’autore/farfalla che si sviluppa dal bruco/appassionato, che di quel mondo mainstream si è nutrito e che per tutta l’adolescenza ha lavorato sodo per diventarne parte riconosciuta e di successo. E che non conosce il fumetto al di fuori di quel microcosmo.
L’autore inscenato da Clowes con quelle sue vignette statiche, gelide ma di grande leggibilità, curate nei minimi particolari, è una meteora che scomparirà proprio in ragione dei meccanismi che lo hanno posto al centro del firmamento.

Il momento più intenso e riuscito dell’opera di Clowes è senza dubbio la conferenza di premiazione curata dal Dottor Infinity, dove la celebrazione si configura via via come un’orazione funebre piena di menzogne. Dietro alla presunta libertà di espressione e alle intuizioni di un genio (sempre sorridente, come Stan Lee) si nascondono continui soprusi ad altri autori, mai riconosciuti per i loro reali contributi, né economicamente né moralmente. Con il Dottor infinity, in una persona sola, Clowes riassume gli atteggiamenti di un gruppo di autori più furbi e attenti nel comprendere il potenziale economico di un mercato nascente, come il già citato Lee o il celeberrimo Bob Kane, il creatore di Batman che per anni ha firmato, solo, opere realizzate con il fondamentale contributo di altri.
Per comprendere il tono caustico e irrispettoso di Clowes sarà sufficiente riportare le parole con le quali il Dottor Infinity presenta la storia di Dan Pussey a inizio volume:

Comics... sono troppo spesso disprezzati come cose irrilevanti e banali per ritardati mentali, e sono il primo ad ammettere che osservando i comics nel loro complesso questa affermazione possa avere qualche validità (anche se non posso non chiedermi cosa ci sia di male nel fare qualche soldo nello sfruttare le represse urgenze omosessuali di menti adolescenti sottosviluppate) (soprattutto quando appartengono a persone di 37 anni!). Tuttavia, nella storia del nostro medium è sempre esistito un piccolo gruppo di autori con una diversa aspirazione: creare miti moderni per adulti, o per lo meno per gli studenti del college. Uno di loro è il signor Pussey, ed è per questo che lui e i suoi pari rappresentano i veri campioni di questa industria! Io ti imploro, caro lettore, nel leggere questa storia, di portare per il nostro giovane protagonista lo stesso rispetto che avresti per qualunque altra leggenda (come gli sceneggiatori di Hollywood, i direttori di videoclip, gli sviluppatori di videogiochi, ecc.) Dopo tutto... se non noi, chi altri? Se non ora, quando?

Insomma, secondo Daniel Clowes, la storia del fumetto di supereroi è costruita sulla menzogna, la finzione e l'iperbole. A pensarci, questa parte della verità sulla storia dei comics statunitensi è la piena attuazione nella vita vera dell’autoreferenzialità: l’isolamento narrativo e culturale del genere è speculare all’isolamento (dorato) nel quale gli autori e gli editori hanno vissuto per decenni.
Harry
(continua, parlando di strisce)




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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.