Visualizzazione post con etichetta amore. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta amore. Mostra tutti i post

mercoledì 4 maggio 2011

Dylan Dog e le donne (1) - gelosia e perfezione



Il Dylan Dog Color Fest, albo fuori collana con cadenza variabile, è stato finora un contenitore vuoto e privo di significato. Un prodotto commerciale che ha puntato su due aspetti: il colore (non sempre utilizzato in modo efficace); la perizia grafica di alcuni disegnatori (in alcuni casi con un approccio molto particolare, come nel Color Fest umoristico di qualche mese fa). Ma che si è rilevato assolutamente piatto e monocorde dal punto di vista delle storie, delle sceneggiature, delle interpretazioni. L’ultimo esperimento, con la sesta uscita, è un Color Fest tutto al femminile, ovvero realizzato interamente da sceneggiatrici, disegnatrici, coloriste e letteriste donne.
Ma facciamo un passo indietro.

Gli sceneggiatori di Dylan Dog sono stati quasi esclusivamente uomini, a partire dal loro creatore, Tiziano Sclavi. Unica eccezione davvero rilevante, la sceneggiatrice Paola Barbato (presente anche in questo Color Fest), che per molti, ma non per il sottoscritto, ha preso il testimone creativo di Sclavi. Il padre di Dylan Dog ha dimostrato negli anni una grande capacità nel tratteggiare caratteri e sensibilità dalla spiccata vicinanza con il mondo femminino. C’è sempre stato, in Sclavi, un bisogno profondo di ricerca, di indagine che, senza mai tralasciare alcune fondamentali logiche proprie del fumetto d’avventura, ha negli anni avvicinato moltissime lettrici a Dylan Dog. Il successo, in questo senso, non è stato guidato da un’intenzione esplicita come quella di Giancarlo Berardi e la sua Julia, che dell’osservazione attraverso una sensibilità femminile fa una delle sue matrici costitutive, ma da un’innata, feroce urgenza di Sclavi, che ha saputo aprire lo sguardo e il genere, raggiungendo potenzialmente tutti.
L’assenza di Sclavi, negli anni, ha pesato molto anche in questa direzione. I vari successori non hanno saputo sviluppare uno sguardo proprio, inedito, vero. Hanno imbastito teatrini più o meno efficaci che hanno avuto per protagonista la marionetta Dylan, il suo mondo e i suoi comprimari.
Una messa in scena gelida che, salvo alcune rare eccezioni (penso in particolare ad alcuni lavori di Michele Medda) non ha mai convinto davvero. Di questo fallimento espressivo (prima ancora che narrativo o editoriale) si è detto molto senza analisi davvero efficaci. Quel che è certo è che di Sclavi Dylan Dog è stato una manifestazione forte, credibile e reale. E come sappiamo, la realtà sfaccettata dell’angoscia, del disagio e della sensibilità che Sclavi ha messo in scena hanno una forte connotazione femminina.

Torniamo al Color Fest.
C’è in Dylan Dog, il personaggio, un’impalcatura narrativa potenzialmente anti-femminina forte e radicata, che è quella del rubacuori e dell’amante sempre insoddisfatto. Su questo tema, Barbato ha più volte giocato, cercando da un lato di alleggerirlo, deriderlo e umanizzarlo, e al contempo di non banalizzarlo. Un tentativo consapevole, forse legato a un disagio che la sceneggiatrice donna si trova a dover affrontare, per andare oltre il solo meccanismo narrativo e riempirlo in qualche modo di senso. È qualcosa che gli altri sceneggiatori, uomini, per ovvie ragioni hanno tenuto in secondo piano o trattato con estrema superficialità. Ad eccezione, di nuovo, di Scalvi. Ma se per questi, il Dylan Dog amante e seduttore, oltre che un gioco al servizio della serie, è stato un efficacissimo pretesto per raccontarci vite molteplici e multiple dell’altra metà del cielo, per Barbato finora è stato un tema necessario ma scomodo.

Nel Color Fest, Barbato torna a giocare su questo tema ribaltando abilmente la prospettiva. Osserviamo il bisogno di Dylan, un bisogno tutto maschile, potremmo dire etologico (o nevrotico?), attraverso gli occhi di un’amante quasi perfetta e gelosissima. Si dice che la gelosia sia prima di tutto un sentimento femminile. Vero in parte. Le tradizioni culturali e la cronaca nera ci dicono di molti e spaventosi modi di agire la gelosia da parte dell’uomo (dalla possessività, alle violenze fisiche, allo stalking, ecc.). Eppure, la gelosia come forma subdola e invadente, ossessiva, che non si manifesta apertamente, ma lavora nel profondo e in territori immaginari prima che reali, sembra essere più vicina all’universo femminile. È di questo sguardo che Barbato ci parla, con l’aiuto di Lola Airaghi alle chine, sempre con notevole divertimento e gioco ma anche con una chiarezza dell’intenzione narrativa che coinvolge e incuriosisce. Airaghi si presta all’esperimento con buona padronanza e guardando, stilisticamente, al canone di Bruno Brindisi. Per inciso, un tratto meno derivativo sarebbe stato ancora più efficace nel raccontare questa piccola storia.
Certo, l’amante assassina di Barbato e Airaghi alla fine del racconto ricorda fin troppo una maschera del mondo psicotico di Batman, eppure è l’insieme sintetico ma chiaro delle reazioni di Dylan Dog che risulta efficace e credibile, per quanto estremo, fino al tradimento da lui agito nei confronti della presunta amante perfetta. L’idea della perfezione è forse una delle paure più angoscianti della nostra vita. E l’ossessione del controllo uno degli specchi nevrotici più pervasivi.

Harry
(continua con l’amabile Vanna Vinci…)

sceneggiatura di paola barbato, disegni di lola airaghi

martedì 19 aprile 2011

Palmiro è il nome mio



Ero convinto di averti già parlato di Palmiro.
Ma ho controllato e non l'ho fatto. E se non l'ho fatto è colpa di Palmiro. Lo sai, è un tipo così, che si dimentica. Di Palmiro c'è una storia editoriale, una storia sentimentale, una storia cronologica e una storia diacronica.
Le sue tracce più recenti e consistenti le trovi in due libretti pubblicati da Double Shot, si intitolano My Name Is Palmiro 1 e 2, una cosa semplice, che dimentichi.

Ti parlerò di quel che trovi nel primo libro. Il secondo è una storia a parte, forse anche più bella e sarà per un'altra volta. Ma il primo ha una copertina gialla, ha per sottotitolo A la recherche du temps perdu, in francese, così come vuole il poeta, ed è un piccolo viaggio nel tempo.
Il libretto ha molti strati, come le cipolle.
Primo strato, le singole strisce di Palmiro, il paperotto sfortunato, idolo delle fidanzate lontane. E ci sorridi.
Il secondo, è una ricostruzione sentimentale della storia di Palmiro, come è diventato quel che è, ovvero un perdente in amore, e come è nata la sua relazione a distanza. Ci sorridi meno. Perché ti immedesimi.
Il terzo, è un percorso editoriale, implicito, sghembo, su come Palmiro il personaggio a fumetti è nato e si è evoluto. E qui, a posteriori, ti chiedi come il suo papà Ciantini sia riuscito a coniugare Kandinsky e Barks, ma te lo chiedi con quel sorrisino compiaciuto che nasconde un pensiero: certo, è un fumetto, è naturale che succeda. Il fumetto è proprio questo (e se non sei convinto, chiedi a Faeti e te lo sa spiegare molto bene). Palmiro, insomma, è una scoria di immaginario che esiste perché Ciantini lo ha generato, perché Double Shot lo ha riproposto in libro.
Il primo libro ha un gusto leggero, divertito, vagamente ma radicalmente metanarrativo, che ricorda (anticipa) uno stile narrativo leggero divertito e metanarrativo che ritrovi per esempio in Makkox e in autori così, quelli che non stanno tanto a farsi le menate sulla complessità di una produzione, di quelli che improvvisano, che lasciano che le cose gli accadano, le invenzioni arrivino. Ci sono molti precedenti, ci sono alcuni esempi recenti. Palmiro è lì, forse a marcare un segno in questa direzione.
E forse potremmo parlare anche del quarto strato, che è filosofico, che ha a che fare con la crescita, con il nichilismo post-adolescenziale che rimugina sugli amori inutili dell'adolescenza. Oppure fermarci al gioco linguistico della variazione sul tema, di come la ricorsività si rinnova, striscia dopo striscia. Ma preferisco fermarmi qui, anche perché alla fine arriva il colore e poi il secondo volume che, come ti ho detto, è una storia diversa.
Ed è vero, anche le cipolle fanno scendere le lacrime quando le sbucci, ma purifica, serve a purificare.

Harry




tutti i disegni sono di sauro ciantini

venerdì 25 febbraio 2011

L'amore immobile nello studio di Munari

 (c) alessandro baronciani

Scrivo in treno, circondato da persone che occupano la mente con giochi al cellulare talmente minuscoli da essere incomprensibili e con i quotidiani gratuiti, hai presente, quei fogli di carta che leggi per convincerti di essere aggiornato su quel che ti succede intorno.

Scrivo e rifletto su un cambiamento di paradigma. Quando osservi le donne che ti si muovono intorno, c’è un meccanismo automatico che le associa alle protagoniste dell’ultimo show televisivo o alle pornostar più in voga (che sono la stessa cosa, in definitiva). Caparezza la chiama la rivoluzione del sesso in tutto. Ne parla anche Roberto Recchioni, per qualche verso, te lo segnalo di passaggio. Anche se quello che lui indica come eversione mi sembra piuttosto una banale quanto totalizzante perversione nevrotica (e lo dico, sia chiaro, senza alcun giudizio valoriale. In chiave psicopatologica, piuttosto). In questo mi sento più vicino a Spari. Ma torniamo in tema.

Alessandro Baronciani è legato a un vecchio paradigma, quello romantico/nostalgico. Il viso di una donna, i suoi capelli, il suo passo lo riportano alle protagoniste di vecchi film francesi. Basterebbe questo a descrivere lo sguardo di Baronciani nel suo ultimo libro Le ragazze nello studio di Munari (Black Velvet). In questo lavoro appare un autore incapace di raccontare il presente, e un protagonista incapace di vivere il presente. Il libraio innamorato dell’arte di Munari e di tre donne contemporaneamente (o solo di Chiara?), che è protagonista del libro, sembra bloccato in un eterno passato, fatto di ricordi, nostalgie e malinconia abissale. Non accade nulla in questo libro. Nulla che non sia un fotogramma di un evento già chiuso, di un tempo eternamente presente ma sempre fuori fase.
 
Sono cresciuto tra le idee e i simboli di Bruno Munari. Il primo ricordo è Le favole al telefono di Gianni Rodari nella copertina di Munari. Il secondo è la scimmia Zizi, ancora oggi tra i giochi di mio figlio. Poi le sue idee, i suoi scritti sul design come nuova forma d’arte (Arte come mestiere), l'unica, a suo dire, in grado di associare la ricerca estetica con la praticità. Le sue idee sulla creatività, sull’educazione e la consistenza, sì consistenza è il termine che mi viene più utile, la consistenza dell’espressione artistica. C’è un progetto in atto da più di dieci anni a Reggio Emilia che si fa capo alla società Reggio Children che si struttura a partire dalle sue idee sulla didattica e l’educazione. Ne puoi leggere in queste riviste. Sono straordinarie, rivoluzionarie e, ahimé, totalmente agli antipodi delle idee attualmente in voga nell’arena politica sulla scuola.
Non so se Munari si sia mai interessato al fumetto, ma credo che ne avrebbe apprezzato certi sviluppi. Come il lavoro di Baronciani, e le sue trovate cartotecniche, che nascono da un’esplorazione delle possibilità artistiche del maestro. Un lavoro intelligente, ricco di cura e amore.




C’è poi un gioco di Munari che mi capita di utilizzare ancora oggi, si chiama + e – (più e meno) ed è costituito da tante carte lucide con semplici disegni stilizzati. Le carte sono sovrapponibili e il gioco consiste nell’inventare scenari e storie diverse a seconda delle molteplici composizioni di carte. C'è un filmato che ne esemplifica il funzionamento.


È con questo gioco che Baronciani apre il suo libro. Fermiamoci qui. Baronciani fa proprie alcune prospettive narrative e visive di Munari, e le ripropone in fumetto. Lo stesso fa con alcuni principi, come quello sulla risoluzione dei problemi, celebre quanto, boh, utile? Forse. La nostra mente segue percorsi misteriosi. Eppure, questo tentativo di trasformare i rapporti affettivi in design mi sembra contraddire l’essenza stessa dell’approccio di Munari. Questo soffermarsi, isolarsi nel passato, mi sembra un sentimentalismo intellettuale un po’ sterile. Manca di crudeltà, o di concretezza, c’è una suggestione intellettualistica che non mi convince. Un tentativo che forza l’occhio del creativo italiano per assoggettarlo a qualcosa di vecchio, statico, monolingue.

Baronciani, d’altra parte, ha fatto ancor più personale il proprio stile, trovando un equilibrio formale appagante per il lettore. Sa commuovere, sa mostrare la fragilità degli affetti, nell’incapacità di diventare adulti. Ma se in Quando tutto diventò blu il suo sguardo algido e malinconico, in relazione alla malattia, appare felicemente delicato e anti-patetico, in Le ragazze nello studio di Munari sembra traslucido e assordante perché isolato dalla concretezza dell’esistenza. Forse è questa pellicola sottile che Baronciani dovrebbe sollevare, per trovare un rapporto con la vita che, certo, può sporcare, ma può anche permettere un deciso sviluppo delle sue potenzialità espressive.

Harry.

venerdì 1 ottobre 2010

Appunti a gran velocità


Cinquemila chilometri al secondo è storia di amori sbagliati.
L’amore come un temporale, una pioggia fitta o una leggero tamburellare di acqua primaverile.
L’amore umido, che ti piega le ossa. Che ti invecchia nell’illusione della giovinezza eterna. L’amore come impossibilità ad esserci realmente, a definire consapevolmente la propria crescita
emotiva, la propria felicità, nella maturità dei sentimenti.

Manuele Fior non sbaglia. E racconta con la chiarezza di intenti di un autore pienamente al controllo dei propri mezzi espressivi. Improvvisa sulla pagina, utilizzando il ritmo come elemento
discriminante che conduce la narrazione, un uso sapiente che ipnotizza e scuote. Utilizza il colore, non come elemento accessorio, non come vezzo banalmente bande desinee, non come maschera che copre quel che non c’è. Il colore di Fior disvela, emozioni paesaggi sotterfugi percorsi di vita. Macchia il lettore, con il suo movimento delicato, impressionista, elegante ma concreto. Sotto, dietro, c’è la linea, che si fa sempre più indefinita, rapida, essenziale… precisa. I riferimenti pittorici, di arte figurativa, sono ovunque e in tutti i modi metabolizzati, personalizzati. Ci dicono di una grande cultura visiva al servizio di una sensibilità limpida. Sensibilità per il racconto. Necessità di raccontare.


Cinquemila chilometri al secondo è la memoria dell’amore impudente dell’adolescenza, quando tutto era possibile, quando l’altra metà del cielo era poesia e timidezza, onnipotenza e impotenza. È la memoria dei pomeriggi assolati delle estati passate con l’amico a cercare un amore necessario e sfuggente. Facendo a gara con l’altro a nascondere le nostre inadeguatezze, le nostre paure, giocando agli adulti quando si è poco meno che esseri umani. Poco più che ragazzi.






Cinquemila chilometri al secondo è la sensualità che diviene consapevole gioco di inganni, allusioni al servizio di bisogni, prive di conseguenze, cariche di presagi inascoltati. È la trappola di immaginarsi al controllo della propria vita quando questa piega e si rifugia e ci sfugge.










Cinquemila chilometri al secondo è la distanza dai nostri bisogni, che ci incasinano i ricordi e ci legano a passioni che sarebbe meglio scordare, ci costringono a ricercare per anni e anni la stessa donna/madre negli occhi di altre donne/fantasmi. Non ci siamo noi dietro a quelle scelte, ma le nostre impressioni e ricerche inesauste. Le nostre contraddittorie, dolorose identificazioni. La sostituzione iconica di tratti, lineamenti, atteggiamenti, trasferelli bidimensionali su persone in carne e ossa, attraverso i sogni e le fantasie. A negare la realtà. A inseguire una realtà che sfugge.






Cinquemila chilometri al secondo è l’orgoglio personale di fronte alla sfiducia. È l’impossibilità al dialogo, alla comprensione reciproca, che ti sbatte lontano e ti porta a caccia di vita e di emozioni nuove. Nell’assenza del quotidiano. Quella frattura che piccola si allarga, e quando ti osservi in uno specchio, con i tuoi affetti, dolorosamente ammetti di non sapere più chi sei.




Cinquemila chilometri al secondo è la velocità che serve per una telefonata, per un incontro, per un amplesso in un bagno, per la delusione, per la solitudine e la morte.




Fior è uno dei più straordinari nuovi narratori a fumetti che mi sia capitato di leggere. Il suo stile è personale e privo di concessioni, determinato e gentile, in continua evoluzione. Scrittura e pensiero viaggiano insieme, a dar forma a un prodotto-fumetto trasversale che sa parlare a tutti e, permettimi, costringe a recensioni emotive e sopra le righe come questa.

Non puoi non leggerlo.

Harry.

tutti le immagini sono (c) di manuele fior


Tutti i testi di questo blog sono (c) di Harry Naybors, salvo dove diversamente indicato.
Puoi diffonderli a tuo piacere ma esplicitando sempre l'autore e/o la fonte.

La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.