venerdì 27 novembre 2009

Nuova cura editoriale per Dylan Dog


"- Bruno, senti, ehm, questa tavola non funziona, secondo me. Ecco, potresti modificarla?
- No.
- ... OK ... Grazie. [Che schifo di lavoro!]"

(la notizia)


Harry

sabato 21 novembre 2009

Scappatelle esistenziali


La copertina inganna: le scappatelle del sigor Lopez non è un fumetto erotico.
Si tratta dell’ennesimo gioco narrativo del maestro argentino Carlos Trillo.
È una semplice opera di ingegno, che si basa su un meccanismo preciso: il frustrato e depresso signor Lopez, isolato da una realtà che non sa affrontare, si rifugia regolarmente in bagno, dove la sua fantasia e la sua azione muta, si personalizza, si chiarisce.
Si sa, il bagno è l’unico luogo in cui si può stare da soli con se stessi.
Ed è vero, le bellissime donne di Horacio Altuna con le quali spesso Lopez si rifugia offrono una facile interpretazione onanistica (esplicitata in una storia in cui il protagonista compra un numero di Playboy in edicola).
Ma la necessità di un rifugio per Lopez è soprattutto un’esigenza sociale. L’immaginario con il quale giocano Trillo e Altuna (già insieme nell’indimenticabile Loco Chavez) è quello della repressione politico-militare, dell’anomia esistenziale, dell’incomprensione familiare, dell’apatia lavorativa.
Uno dei racconti più efficaci ha a che fare con l’arte. Un gruppo di artisti è seduto al tavolino di un bar. Lopez con loro. Discutono del conflitto tra libertà di espressione e limitazioni sociali (ed economiche). Il protagonista, annoiato, si rifugia nel bagno. Incontra un pittore in lotta con sconosciuti. Lopez lo aiuta a liberarsi. A quel punto l’artista riesce a completare il suo enorme dipinto. Un albero. E infine vi si impicca.
Libertà espressiva come nichilismo?

L’ironia e la dolcezza in Lopez si uniscono a una feroce idea di inadeguatezza alla vita e all’incapacità di ritrovarsi al passo con i tempi, agli inizi degli anni ’80, in un mondo in veloce trasformazione e sempre più ricco di contraddizioni.

La formula a lungo andare stanca? A me piacciono queste premesse lineari e semplici, che aprono la strada alla fantasia più libera.

L’ottimo volume è pubblicato da Planeta De Agostini e costa meno di quanto sareste disposti a pagarlo.


Harry.

giovedì 19 novembre 2009

Pinched wednesday (mercoledì ossuto)

(c) Renee French



Renee French.
Ci torno giornalmente.

Harry

mercoledì 18 novembre 2009

Jimmy Corrigan e Padre Pio



Volevo spiegarti come Chris Ware ha lavorato al suo capolavoro Jimmy Corrigan, The Smartest Kid On Earth (da poco in vendita in edizione italiana per Mondadori), per cui ti faccio un esempio. Siamo nel campo della finezza psicologica e culturale.

Pensa a un’impresa edile italiana, una qualunque. Poni sul cartello dei lavori di questa impresa, in una strada qualunque di una città qualunque, accanto al logo, l’immagine sofferente di Padre Pio. Innesca un piccolo corto circuito logico e il gioco è fatto.
L’immagine di Padre Pio e l’impresa edile in quale mondo di relazioni si trovano? Come muta, si trasforma l’idea di Padre Pio associata all’idea di una comune impresa edile?
Come muta tale idea in base all’informazione che segue (da Wikipedia)?

Dal 24 aprile 2008 al 23 settembre 2009 a San Giovanni Rotondo è stata esposta la salma di Padre Pio, all'interno di una teca di cristallo costruita appositamente. Essa in realtà è stata poco visibile: il volto, conservato solo nella parte inferiore, è ricoperto da una maschera di silicone che ne riproduce le sembianze. La salma poggia su un piano di plexiglas forato e rivestito di tessuto. Al di sotto ci sono due contenitori in pvc pieni di gel di silice per la regolazione dell’umidità. Nella teca è stato immesso azoto per evitare ulteriori decomposizioni. Il 23 settembre 2009, nell'anniversario della morte, si è conclusa l'esposizione del cadavere con una solenne cerimonia.

Aggiungi un risvolto culturale che deriva dalla conoscenza del lavoro edile in Italia, ovvero subappalti, lavoratori extracomunitari in nero e sottopagati, le squadre di reclutamento nei mattini umidi dell’autunno novembrino. Associa un’idea di città che riconosci, un incrocio, i cartelli, grigi palazzi immobili, una fermata dell’autobus, l’insegna di un McDonald’s in lontananza. Coniuga queste percezioni e sensazioni con la tua progettualità del momento, ovvero il motivo per cui ti trovi a passare di lì in quel momento, dove stai andando, cosa devi fare, quali preoccupazioni si collegano al tuo fare.
Respira.
Che significato assume, per te, in questo preciso momento, l’immagine di Padre Pio?


Ware sviluppa una narrazione nella quale nulla è neutro o indifferente. Ogni oggetto e contenuto di una vignetta, di un’inquadratura, di una scena è sottoposta a un preciso processo di soggettivizzazione. Ogni rappresentazione visiva rimanda a un significato simbolico altro che è proprio del protagonista della storia, che racconta della sua esperienza di vita, delle sue emozioni. L’immagine su un cartello stradale di un alce porta alla mente di Jimmy Corrigan l’idea di non aver mai visto dal vero un animale simile. Un poster in una stanza rivela ricordi passati, o un’idea nuova del proprio padre. I simboli, poi, si spostano, attraversano le vignette e le pagine. La posizione di una mano stilizzata di una persona in una vignetta viene riproposta identica, ma attaccata a una seconda persona in un contesto diversissimo, eventualmente dal contenuto emotivo opposto al precedente. Flashback, sogni, pensieri astratti si associano allo scorrere degli eventi senza soluzione di continuità, perché è in questa nuvola assordante e cacofonica di associazioni mentali che siamo immersi ogni istante della nostra vita.


Padre Pio, nell’immaginario italiano, ha quindi la stessa forza iconica dell’insegna di McDonald’s, e come tale vive indipendentemente da un preciso contesto religioso e ancor più al di là della reale esistenza su questa terra di Francesco Forgione.


Da questo punto di vista, il lavoro di Ware rivela moltissimo del potenziale espressivo del fumetto, ed è un’opera di ingegno senza eguali. Il che non vuol dire esprimere una valutazione necessariamente ed esclusivamente positiva di Jimmy Corrigan come fumetto, perché la cacofonia percettiva si traduce anche in un’esperienza di lettura a tratti estenuante, involuta e macchinosa. Ma questa non vuol essere una recensione in due righe su Jimmy Corrigan (lo specifico perché qualcuno potrebbe fraintendere), quanto una riflessione sui processi psicologici e culturali che danno vita al suo incredibile meccanismo narrativo.


Harry





nota: esclusa quelle di Padre Pio, tutte le immagini sono (c) di Chris Ware

martedì 17 novembre 2009

Supereroi e strisce. Parte 2 - La libertà delle strisce

- ehi, cosa sta succedendo?!
- ho subaffittato metà del nostro spazio a una striscia di avventura.
avevano bisogno dello spazio e noi avevamo bisogno dei soldi.



Intro.
Prima parte.

Torno a parlare di supereroi e strisce, le forme popolari per eccellenza del fumetto statunitense. Oggi parliamo di libertà espressiva nelle strisce.

Sulle strisce si è costruita la storia, la prima, del fumetto statunitense. Ancora oggi, sono un patrimonio straordinario di idee, approcci differenti, quotidiani ritorni.
La striscia funziona così, più o meno da sempre: la si trova su un giornale, quello che leggi, una al giorno, e la si assapora una dose alla volta, regolarmente. Negli anni in cui i quotidiani vendevano molto di più, 50, 100 volte tanto, le strisce migliori diventavano oggetto di vere dispute e di conflitti editoriali, di marketing ed economiche. Perché il meccanismo della quotidianità della striscia era uno dei motivi per i quali un lettore tornava, giornalmente, a comprare quel quotidiano piuttosto che un altro. Peccato perdere un numero, perché voleva dire bucare una puntata della tua striscia favorita.
Il termine, strip-striscia, dice tutto del formato e nulla del contenuto. Non proverò ora a raccontarne le caratteristiche e l’evoluzione. Ma mi preme evidenziare un’idea: detto della presunta rigidità della forma, del contenitore, il contenuto ha negli anni mostrato massima flessibilità. Tanto da spingere Mort Walker, noto e anziano fumettista, a dichiarare in una recente intervista del Comics Journal (#297; qui un estratto) curata da R. C. Harvey:

As a personal enterprise for a cartoonist, the comic strip is one of the few media that allows one person to express his philosophy, his anger, his joy, and his disappointment without outside restriction. It is one of the purest forms of art and expression that exists.

(Per un autore di fumetti, come impresa personale, la striscia
è uno dei pochi mezzi di comunicazione che permette a una persona di esprimere la propria filosofia, la propria rabbia, la propria gioia e la propria delusione senza restrizioni esterne. È una delle forme d’arte ed espressive più pure che esistono.)

Walker ha più di ottant’anni, ha un’impresa familiare che produce strisce (sei dei suoi figli sono impegnati lì, insieme a un gruppo ormai storico di collaboratori) ed è un perfetto esempio di self-made man americano. Dall’intervista di Harvey, molto dettagliata e documentata ma fin troppo compiacente, Walker si configura come un uomo affabile, sempre sorridente, abile imprenditore di se stesso, amato da tutti, con molte idee, predestinato alla realizzazione. Questo suo ottimismo, dall’alto dei suo anni, è senza dubbio giustificato dal successo di almeno due delle tante strisce che ha realizzato, ovvero Beetle Baily e Hi and Lois, che hanno visto la luce agli inizi degli anni ’50 e tuttora in produzione. Ma non è per queste due strisce che vi parlo di Walker, bensì per l’ottima e innovativa Sam’s Strip, realizzata agli inizi degli anni ’60 con il fondamentale contributo del disegnatore Jerry Dumas.



Sam’s Strip è una striscia che parla di strisce. È uno dei primi lavori popolari statunitensi squisitamente meta-fumettistici, anche se episodi (saltuari) di questo tipo si erano già visti altrove (per esempio sulla misconosciuta, in Italia, Pogo di Walt Kelly, che meriterebbe un giorno una ristampa organica). Sam’s Strip ebbe due anni di vita, prima di morire per il poco interesse dei giornali e del syndicate che la distribuiva (ebbe poi una nuova incarnazione, Sam and Silo, ma senza la stessa efficacia). In quei due anni, Walker e Dumas sperimentarono in completa libertà e svelarono al pubblico molti dei meccanismi che reggevano le strisce (umoristiche) fino a quegli anni. Alcune idee sono davvero efficaci, divertenti, e frutto di pura invenzione iconica. C’è il ripostiglio delle onomatopee usate nelle strisce, c’è la riflessione sulla gabbia, sulle proporzioni e le inquadrature, sulle tecniche per lavorare sulla ripetizione quotidiana (che lega il pubblico alle strisce) nelle sue molteplici varianti. Dumas è un maestro del disegno e il suo processo di sintesi, che lo ha portato a conoscere perfettamente il valore comunicativo di ogni singola linea, è da studiare per ogni aspirante disegnatore. La striscia, per i limiti che la caratterizzano (sempre maggiori, visto lo spazio sempre più ridotto che hanno nei quotidiani), richiede essenzialità e massima comunicazione con poco. L’estrema parsimonia di mezzi fa di questa forma di comunicazione una specie unica e rara. E dal potenziale simbolico enorme. (Senza citare il fatto che in questa forma nacquero lavori molto più stratificati e complessi, sia sul piano dei temi trattati che dell’invenzione visiva).



Oggi, il problema rispetto all’affermazione di Walker riportata sopra è che la libertà espressiva delle strisce è condizionato da diversi fattori, in primis la distribuzione dei quotidiani e le loro tirature (in crisi nera), e dalla politica dei syndicate che da sempre governano le sorti delle daily strip. Un esempio di libertà per così dire condizionata ce lo offre sempre Walker all’interno dell’intervista sul Journal di cui sopra.
Beetle Baily, la sua striscia più famosa, racconta le vicissitudini di uno svogliato ragazzo all’interno dell’esercito. L’idea di Wolker era di giocare con l’autoreferenzialità di quel mondo, in contrasto con la concreta idiosincrasia di un ragazzo non proprio brillante, ma che osserva quel mondo con gli occhi di chi è fuori. Criticata apertamente negli anni ’50 dall’esercito degli Stati Uniti, la strip ebbe un’impennata di vendite e di interesse pressoché immediata, che ne fece un clamoroso successo. Da lì a qualche anno, Beetle Baily venne accettata anche dall’establishment, tanto da portare Walker a ricevere premi all’interno del Pentagono! Il motivo? L’approccio neutrale o politicaly correct di Walker. A Harvey, nell’intervista, egli dichiara apertamente di non aver mai voluto prendere posizioni chiare sulle tante guerre che hanno sconvolto le coscienze civili degli americani (il Vietnam in primis) per non perdere metà dei propri potenziali lettori. Decise semplicemente di non affrontare quei temi. Ed ecco che, nel tempo, il gioco di Beetle Baily si è fatto sempre più cristallizzato, a-temporale, acritico e autoreferenziale. Lo sberleffo a un sistema è stato incorporato nel sistema stesso, rendendolo simpatico, un giocattolo comprensibile e accondiscendente.

Perché ancora, in periodo di crisi di vendite, il problema delle strisce è non avere lettori, e trovare strade per compiacerli. I giornali vendono sempre meno, riducono via via lo spazio ai fumetti perché sempre meno interessanti dal punto di vista commerciale, continuano a ristampare e ristampare le strisce long-seller (i Peanuts su tutte), pubblicano nuovi episodi di strisce antiche, su concetti antichi, realizzati dagli eredi artistici di ideatori ormai scomparsi (sono le così dette legacy strip, come Gasoline Alley, Popeye, ecc.) e perdere una fetta di pubblico per posizioni chiare sul piano ideologico rappresenta un rischio enorme (per uno scorcio piuttosto completo dello stato delle strip negli anni 2000, si legga sempre The Comics Journal, #286, ancora a firma di R.C. Harvey). Soprattutto se, a differenza per esempio del Trudeau di Doonsbury, si è cresciuti con l’idea che la soluzione migliore alla vita fosse sorridere a tutti ed essere apprezzati da più persone possibili. Insomma, in un tale contesto, lo spazio per la completa libertà espressiva nelle strisce appare essere, questa sì, una vera posizione ideologica che richiede un numero piuttosto alto di compromessi e di colpi di fortuna. Lo spazio perché nuove idee e nuovi autori provino la loro fortuna è sempre minore, e il livello di rischio che i syndicate vogliono prendersi è sempre meno.
Ma se la fotografia che ci offre l’intervista a Walker appare quanto meno sfocata, in particolare se rapportata all’oggi, è indubbio che la fucina delle strisce ha dato spazio e risalto a idee, protagonisti e autori straordinari, da recuperare, studiare, amare.


Harry.
(continua e finisce)


sabato 7 novembre 2009

Supereroi e strisce. Parte 1 - Omologazione supereroistica




Mi ero preso un impegno, che mantengo con la prima di tre parti.

Alessandro Di Nocera, nel suo Supereroi e Superpoteri (Castelvecchi), cerca di convincerci della validità e dell’importanza sociale e culturale della metafora dei supereroi. In un excursus amplio e piuttosto completo traccia l’evoluzione di un genere, che rappresenta IL fumetto popolare statunitense.
Purtroppo la sua analisi è ingabbiata, perché riesce solo parzialmente a contestualizzare i mutamenti in relazione ai contesti sociali, produttivi ed editoriali che li hanno condizionati. E ancora, Di Nocera osserva con un’analisi evoluzionista, adorniana, secondo la quale contano i punti di svolta, le innovazioni e le crescite dell’essere “vivente” che è il genere supereroistico, senza tuttavia metterlo in relazione agli altri generi. La sua attenzione ai salti evolutivi non mette in risalto un aspetto piuttosto avvilente: che gli anelli distintivi dello sviluppo di quel genere all’interno di un medium ben più ampio come il fumetto sono davvero pochi, rispetto alle migliaia e migliaia di pagine stampate in sessant’anni di storia. Inoltre, sono convinto che alcuni dei momenti significativi evidenziati da Di Nocera nel suo volume saranno nel tempo ampiamente ridimensionati. Infine, osservando il genere dal di fuori, ci si accorge della portata spesso decisamente ridotta che tali innovazioni hanno avvuto per il fumetto nel suo complesso.
Il punto è che, in anni e anni di monopolio (bi-polio) imprenditoriale e culturale, il fumetto di supereroi ha tenuto in ostaggio l’intero mercato, con meccanismi che vanno dalla saturazione degli spazi (espositivi, distributivi, mediatici, ecc.) a veri e proprie azioni di boicottaggio e di soprusi (ancora oggi gli eredi di storici autori aprono dispute legali con Marvel e DC Comics per la questione dei diritti d’autore). Di questo, Di Nocera non fa cenno, perché il suo sguardo è orientato esclusivamente all’interno.

All’esterno, ma con pensiero mimetico verso l’interno, con ironia e cinismo, guarda invece Daniel Clowes con Pussey, una delle opere a fumetti che lo hanno fatto conoscere a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Clowes finge di essere parte di quel meccanismo e di quel sistema culturale e produttivo, per metterne in luce gli aspetti più insopportabili e ridicoli.
Sembrano lontani quegli anni, oggi, e molte cose si sono mosse, ma è importante non dimenticare: il fumetto indipendente era quasi assente dalle fumetterie, tanto più dalle librerie di varia; i volumi (ristampe in paperback o graphic novel che fossero) erano prodotti rari, spesso invisibili, cose da veri appassionati o da collezionisti. Certo, negli anni ’80 l’esplosione del fenomeno dei fumetti in bianco e nero aveva lasciato alcuni validi eredi (Cerebus e Bone su tutti) ma la caduta a precipizio di questa prima, malata bolla speculativa aveva creato più danni e perdite che altro.
Il fumetto alternativo, in quegli anni, lo si stampava in mini-comics e lo si distribuiva ad amici, conoscenti ed editori. Era un vero sottobosco, dove solo alcuni editori cercavano di differenziarsi (Fantagraphics Books, per esempio, ma non va dimenticato che proprio Fantagraphics è per anni sopravvissuta grazie alla stampa di prodotti pornografici e in tempi recenti, sull’orlo della bancarotta, si è salvata grazie alla ristampa dei Peanuts in splendidi volumi curati graficamente da Seth – un clamoroso successo editoriale). Per il resto, erano le superstar dei supereroi a far parlare di sé, i Jim Lee e i Todd McFarlane che innovavano senza aggiungere nulla a un genere che tornava ripetutamente su se stesso. Il punto non è se dalla produzione mainstream sia o meno uscito, negli anni, qualcosa di buono, interessante e persino eccellente (la risposta è certamente sì), ma quanto essa abbia immobilizzato il medium, generando l’autoreferenzialità di cui spesso si parla e l’allontanamento dei lettori (per prime le donne).
Purtroppo, i supereroi come sistema di mercato si sono mossi da sempre per omologazione e piccole, spesso marginali differenze. La strategia è spesso stata quella di insinuare l’illusione della novità più che la realtà di un cambiamento tematico, narrativo. Quel che sappiamo oggi, anche grazie a opere come Pussey, è che il fumetto può muoversi in territori molto differenti, può parlare di altro e toccare sensibilità diverse.

Clowes non usa mezzi termini. Il protagonista, Dan Pussey, grazie alla forza editoriale del Dottor Infinity, che fa del potere, del ricatto e della mistificazione il suo modus operandi, si ritrova improvvisamente al centro della scena fumettistica. È la star del momento, il nuovo Jim Lee. Dietro al successo, si nasconde una ridotta conoscenza del medium, la necessità di scimmiottare e riprodurre il già edito, di ridicolizzare i concorrenti e, soprattutto, l’assoluta incapacità di offrire un proprio punto di vista originale sul mondo. Pussey è l'autore che, di fronte alla possibilità di raccontare una propria storia originale, rimane spiazzato e senza parole. Pussey è l’autore/farfalla che si sviluppa dal bruco/appassionato, che di quel mondo mainstream si è nutrito e che per tutta l’adolescenza ha lavorato sodo per diventarne parte riconosciuta e di successo. E che non conosce il fumetto al di fuori di quel microcosmo.
L’autore inscenato da Clowes con quelle sue vignette statiche, gelide ma di grande leggibilità, curate nei minimi particolari, è una meteora che scomparirà proprio in ragione dei meccanismi che lo hanno posto al centro del firmamento.

Il momento più intenso e riuscito dell’opera di Clowes è senza dubbio la conferenza di premiazione curata dal Dottor Infinity, dove la celebrazione si configura via via come un’orazione funebre piena di menzogne. Dietro alla presunta libertà di espressione e alle intuizioni di un genio (sempre sorridente, come Stan Lee) si nascondono continui soprusi ad altri autori, mai riconosciuti per i loro reali contributi, né economicamente né moralmente. Con il Dottor infinity, in una persona sola, Clowes riassume gli atteggiamenti di un gruppo di autori più furbi e attenti nel comprendere il potenziale economico di un mercato nascente, come il già citato Lee o il celeberrimo Bob Kane, il creatore di Batman che per anni ha firmato, solo, opere realizzate con il fondamentale contributo di altri.
Per comprendere il tono caustico e irrispettoso di Clowes sarà sufficiente riportare le parole con le quali il Dottor Infinity presenta la storia di Dan Pussey a inizio volume:

Comics... sono troppo spesso disprezzati come cose irrilevanti e banali per ritardati mentali, e sono il primo ad ammettere che osservando i comics nel loro complesso questa affermazione possa avere qualche validità (anche se non posso non chiedermi cosa ci sia di male nel fare qualche soldo nello sfruttare le represse urgenze omosessuali di menti adolescenti sottosviluppate) (soprattutto quando appartengono a persone di 37 anni!). Tuttavia, nella storia del nostro medium è sempre esistito un piccolo gruppo di autori con una diversa aspirazione: creare miti moderni per adulti, o per lo meno per gli studenti del college. Uno di loro è il signor Pussey, ed è per questo che lui e i suoi pari rappresentano i veri campioni di questa industria! Io ti imploro, caro lettore, nel leggere questa storia, di portare per il nostro giovane protagonista lo stesso rispetto che avresti per qualunque altra leggenda (come gli sceneggiatori di Hollywood, i direttori di videoclip, gli sviluppatori di videogiochi, ecc.) Dopo tutto... se non noi, chi altri? Se non ora, quando?

Insomma, secondo Daniel Clowes, la storia del fumetto di supereroi è costruita sulla menzogna, la finzione e l'iperbole. A pensarci, questa parte della verità sulla storia dei comics statunitensi è la piena attuazione nella vita vera dell’autoreferenzialità: l’isolamento narrativo e culturale del genere è speculare all’isolamento (dorato) nel quale gli autori e gli editori hanno vissuto per decenni.
Harry
(continua, parlando di strisce)


Peccati di gioventù

Avevo già parlato di Ciucci: disegni d'infanzia di autori famosi. Un'idea semplice quanto interessante.
Ora Marta Cerizzi pubblica qualcosa che assomiglia a un mio vecchio scritto.
Gli errori ci sono tutti ma in qualcosa non mi sbagliavo.
Leggete qui!

Harry.

martedì 3 novembre 2009

Strade contrapposte


Osservando Lucca Comics da lontano mi arrivano alla mente alcuni pensieri.
Come noto, Lucca è la manifestazione che richiama più pubblico in Italia, è tra le prime in Europa, ed è determinante nella quadratura del bilancio di molti editori. È anche il momento dell’anno in cui si concentrano la maggior parte delle pubblicazioni. Un flusso che genera una vera e propria saturazione, una bolla che prima di scoppiare si ridimensiona grazie al successivo, progressivo e lento defluire del flusso nelle librerie. Spesso, mi duole dirlo, nell’indifferenza generale.

L’altro giorno è venuto a trovarmi un amico, inconsapevole lettore occasionale di fumetto popolare. Lui, che lotta con la moglie per poter riempire la propria libreria di tre, quattro pubblicazioni mensili, nascondendosi dietro all’idea del collezionismo e di una presunta e fittizia rivalutazione dei fumetti che accumula. Lui, che dice alla moglie, compro fumetti nella speranza che un domani valgano di più. La moglie non è convinta, ma si confonde con la collezione di monete di suo marito, che a quanto pare conosce più trucchi di me. Lui, che entrato in casa mia è rimasto stupefatto dal numero di pubblicazioni, dalla varietà dei generi, dalla bellezza delle confezioni, dall’infinità mutevole degli stili. C’è una linea pressoché invalicabile tra il lettore comune e l’appassionato. Proprio come nella collezione di monete, o di francobolli.

Ma torniamo a Lucca. In questa impermeabilità culturale e, perché no, percettiva, gli editori cercano di trovare strade per sopravvivere. Le più impervie. Le più improbabili, a volte. Mi è stato raccontato di editori che hanno fatto bella mostra di sé con stand di rilievo, con un fiorire di nuove pubblicazioni (superiore alla decina di nuovi volumi), con gli autori provenienti da tutta Europa, se non da tutto il mondo, a dedicare i propri libri, dimostrando un dispiego di forze economiche e organizzative importanti. Mi è stato detto che questi stessi editori spesso non pagano i propri collaboratori occasionali, letteristi, traduttori, grafici. Vale a dire, coloro, i collaboratori, che cercano di muoversi in un sottobosco di prestazioni traballanti per trovare un’indipendenza economica all’interno di un mercato editoriale ridicolo. La scelta di questi editori è chiara e avvilente. L’autore in palmo di mano, i collaboratori come ultima ruota del carro. E se non piace, se ne cercano altri. C’è una professionalità editoriale che tarda a definirsi, ad affermarsi, per colpa di un contesto lavorativo da terzo mondo. I libri guadagnano poco, perché se ne vendono pochi, per cui si cerca di tagliare il più possibile sui costi fissi di produzione.

Ma il mercato è spaccato in due. Perché accanto a queste piccole realtà, che realizzano ottimi volumi con modalità discutibili, abbiamo professionisti che stanno sviluppando sinergie nuove, e passaggi che guardano al futuro. È l’esempio di Lizard/Rizzoli, che vende migliaia di copie con Taglia e Cuci di Satrapi, che sa valorizzare il patrimonio artistico di Pratt e sviluppa volumi da libreria che sanno attrarre il lettore occasionale (di libri, non di fumetti popolari). Questa apertura è tanto più importante quando si pensa che il bacino reale di potenziali lettori per i volumi a fumetti non è quello dei lettori di fumetto popolare, ma più probabilmente gli accaniti lettori di romanzi. A Lucca abbiamo visto anche la prima tappa dell’incontro tra Coconino Press e Fandango, che non potrà che far fare un deciso salto di qualità a Coconino in termini di visibilità, distribuzione e sinergie editoriali e promozionali. E mentre Giochi Preziosi Publishing realizza i primi passi con scelte non certo semplici, Kappa Edizioni torna a pubblicare volumi dopo quasi un anno di stop che non era passato inosservato. Il nuovo libro di Vanna Vinci, che ancora non ho in mano, è l’apice di un ritorno che spero duraturo. E tra Planeta, Panini, Bonelli, Star Comics non dobbiamo dimenticare quanti piccoli editori basano la loro esistenza sul proprio lavoro di service per questi editori, attività che permette a pubblicazioni di “resistenza” di poter vedere la luce, ma che sono appese a un filo, nella più totale incertezza economica. Basta stracciare un contratto, magari per ragione di un meccanismo di concorrenza sleale, per ritrovarsi immobilizzati. Nel vuoto.

Di tutto questo, Lucca Comics rappresenta una faccia, un anello. Tanto è rilevante la mostra mercato, o festival che dir si voglia, tanto è fragile e schizofrenico il sistema sul quale si innesca. E al lettore inconsapevole resta ancora, soltanto, la possibilità di inventare strane storie per motivare i propri acquisti regolari di fumetti.
O no?

Harry



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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.