mercoledì 23 giugno 2010

Crisi permanente



Non ti arrabbiare.

Parti dall’ovvia constatazione che ogni discussione è minata, al suo fondo, da una distorsione causata dalla necessità di avere ragione. Ogni parte in causa vuole affermare la propria posizione. C’è un’esigenza biologica primaria dietro a ciò. Quella stessa esigenza muove i nostri limiti, spingendoci al confronto, ma, ahimè, più spesso per affermarci nei nostri confini che per aprirci a nuove possibilità. La povertà della nostra ricchezza intellettuale ci rende snob e sordi. E la comunicazione è interrotta, difficoltosa e sterile. Ognuno per sé, si potrebbe dire.
La fenomenologia del dibattito fumettistico è riassunto in una parola: sordità.
E c’è molta, moltissima intelligenza nel mondo del fumetto. Quindi, più sordità intellettuale, con un bel pizzico di ipocrisia e una sana dose di insofferenza.
Concetti sordi: il fumettista giovane è giovane e non ha spazio per affermarsi, quello vecchio è vecchio e vuole approfittare della sua fama, l’editore ti vuole fottere, l’editore non ha soldi, il fumetto non vende, il distributore è cattivo, la fumetteria non sa fare il suo lavoro, la fumetteria è vittima, …, il fumetto si fa per passione, il fumetto si fa per soldi.
Nell’arena delle profezie che si auto-realizzano, se sono un giovane autore determinato, posso esordire in Bonelli, su Nathan Never, dopo una brevissima gavetta; se sono un giovane autore ricco di talento ma incerto e debole, non esordirò mai. Peggio ancora se ho velleità artistiche.
Ecco, leggo sul blog di Daniele Barbieri diversi tentativi di inquadrare il problema della questione “arte”, e mi tolgo il cappello, come farebbe Borges con Don Chisciotte e i suoi mulini. Discutere di arte nel mondo del fumetto, negli anni Duemila, per molti addetti ai lavori, assume la forma della pedanteria retrograda, del voyeurismo se non dell’onanismo. Perché, nella crisi delle idee e dei riferimenti, il tentativo di categorizzare appare futile. Ma una discussione da dove deve partire?

Sceneggiatori affermati che ambiscono al ruolo di impiegati seriali, intanto, cercano rifugio nella lode all’intrattenimento, come forma massima di impegno sociale. Verrebbe da dire, un fumetto socialmente utile, contro un fumetto artistico, pretenzioso e inutile. Ma con quale possibilità di mediazione? A difesa ognuno del proprio diritto di avere un posto ed esistere.
Le categorie sono vecchie, perché il pensiero si è fermato. Si è fermato alla “crisi permanente”.
E non mi riferisco a quella delle vendite. Non solo. Ma allo stato di crisi permanente della nostra cultura, della nostra economia, della nostra società, della nostra comunità, del nostro vicinato, del nostro senso di esistere come persone.
In un tale confine, esistenziale e culturale, diventa impossibile innanzitutto pianificare e investire per il futuro (impossibile prevedere un futuro), e soprattutto impossibile cambiare paradigma. La paura annulla il movimento, del corpo e della mente. Piuttosto che buttare a mare paradigmi che non funzionano, ma sui quali si fondano profezie, concetti sordi, rapporti di potere, sistemi aziendali e produttivi, si lotta per mantenere le posizioni. È in questo scenario, credo, che si può comprendere, per esempio, l’azione editoriale della Sergio Bonelli Editore che modifica i formati per non modificare nulla. Romanzi, maxiserie, miniserie che hanno tutte lo stesso codice, la stessa cornice testuale di riferimento. Che parlano lo stesso linguaggio ripetuto alla nausea. È alla luce del concetto di crisi permanente che si può comprendere l’idea dell’editore di produrre i fumetti come trent’anni fa, ma con un progetto a breve scadenza. Fumetti come il latte. Non certo nel tentativo di aprire nuove fasce di mercato, nuovi linguaggi, nuovi movimenti culturali e… artistici! A quale scopo, se la crisi spazzerà presto via tutto?

La crisi come valore diviene il motivo di azione dei piccoli editori, laddove si investe in proprio per realizzare un prodotto che non verrà promosso, sviluppato nel tempo, traghettato al lettore. Siamo nel cuore del concetto di tempo breve. Lo sforzo editoriale si esaurisce con la stampa del prodotto. La crisi giustifica l’inazione, l’inerzia, l’assenza di progettualità, l’impossibilità di pensare a sinergie nuove ed evolute.
E i fumettisti non sanno di quale crisi perire. Quella della rassicurante ripetizione infinita di modelli logori e culturalmente (artisticamente) sterili. Quella della coraggiosa e militante lotta dei modelli instabili della piccola produzione, nell’idealismo espressivo dell’artista romantico, solo, incompreso e… tristemente ignorato dai lettori.
Usciamo dalla crisi.
La critica ha una grande responsabilità: quella di suggerire altri possibili paradigmi. Di tornare a discutere del rapporto tra forma di espressione, arte (grazie Barbieri), serialità, formati, meccanismi di mercato. Di essere da esempio per un confronto aperto e non schierato su pregiudizi e posizioni di potere. Di sostenere e promuovere iniziative culturali rilevanti, opere e autori nuovi. Di riportare al centro del dibattito le contraddizioni di una forma di espressione impura, puttana e meticcia, che più di altre può (potrebbe) interpretare questo tempo impuro, puttano e meticcio e mettere al sicuro un patrimonio artistico che è misconosciuto, in Italia, da un’assenza generale di interesse per la cultura (assenza sociale, politica, educativa - comics day?) e da un’incapacità diffusa di pensare al fumetto come arte viva e virale. Io sono contrario alle vaccinazioni. I virus culturali, artistici e comunicativi non devono avere un antidoto già sintetizzato. Questa è la scienza medica della paura. Della crisi programmata. Io voglio essere contaminato e diffondere quel virus ad amici, parenti, conoscenti, riconoscenti e indifesi immunitari.
La vita è una crisi permanente. Iniziamo a parlare del fumetto come di fronte alla vita. Senza prenderci per il culo.

Harry.

5 commenti:

  1. Ottimo interventi. Di testa e di cuore.

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  2. Io sono pigro, solitamente intervengo in una discussione quando qualcosa non mi quadra, spinto dalla curiosita' (quando vorrei capire meglio) o dal "fastidio" (quando ,mi sembra, qualcosa proprio non funzioni).

    Normalmente non mi associo ne' agli applausi ,ne' ai fischi trovo sia pleonastico farlo (e sono troppo pigro per essere pleonastico).

    Faccio un'eccezione per questa bella riflessione.

    Applaudisco.

    Concluso l'applauso ( che faccio di cuore ), con un pizzico di pessimismo mi domando ..se,quando,dove e come si trovera' la forza per andare oltre le parole ed oltre gli applausi.

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  3. @ sette in un colpo: grazie per aver superato la pigrizia e la tua considerazione finale. andare oltre le parole. intanto credo che le parole siano azione, e che per modificare preconcetti e punti di vista si debba partire dalle parole e da un confronto autentico.
    poi, poi le azioni che pesano le possono fare solo chi concretamente si muove nel mercato, nelle istituzioni, ecc.
    l'azione "critica" è importante, ma è una leva piccola. le leve grandi le hanno in mano gli editori, i distributori, chi organizza manifestazioni nel territorio e ... gli autori.
    superiamo la crisi, per dio!

    @ il glifo e smoky: grazie

    harry

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  4. Ottimo intervento, e ottima tesi, soprattutto rispetto alla necessità di un confronto aperto e non schierato dietro i propri pregiudizi positivi o negativi che siano.
    Perché si può essere in disaccordo su tutto, ma non sull'amore e sull'impegno nei confronti del mezzo.
    Per le iniziative, i posti si trovano, le idee si possono fissare. L'importante è cominciare a mettere carne al fuoco. Possibilmente senza bruciarla.

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