venerdì 15 gennaio 2010

Un problema di spazio

(c) Gino D'Antonio

Ha più bisogno di spazio l’avventura o l’intimismo?
Due mondi: la dilatazione Bonelli, formato quaderno, dalle 100 alle 300 e passa pagine; la dilatazione affettiva di graphic novel voluminose, a la Blankets di Craig Thompson.
Art Spiegalman si schiera a favore della sintesi. Si dice allergico alla storia che lo vorrebbe fondatore del formato graphic novel, e con l’esempio e la parola sostiene l’importanza della sintesi più raccolta nelle storie a fumetti.

I Bonelli hanno bisogno di spazio per ridurre al minimo la molteplicità e l’ambiguità dei codici. Il segno e le sceneggiature vengono esplicitate al limite della ridondanza e della didascalia. Eppure, un certo approccio cinematografico richiede movimenti di “camera” e tempi dilatati, in un processo a fisarmonica dove le scene passano dal singolo dettaglio (una lotta che si parcellizza nei singoli pugni, calci e spari) alla sincope, con interruzioni improvvise per passare ad altri avvenimenti o sovrapposizioni di più scene (una condotta coi disegni, una con il testo), dando al lettore la responsabilità di riempire il non detto di senso. Due buoni esempi di questi meccanismi: qualunque Julia in edicola e l’ultimo speciale di Brad Barron.

Resta il problema di adeguare le intenzioni a un modello rigido, quello bonelliano, che non sta solo nella griglia ma anche, banalmente, nel numero delle pagine e nelle sue dimensioni, o in questi elementi combinati insieme. Fosse concesso lavorare su singole splash page, una storia di 96 pagine sarebbe decisamente più sintetica. Si pensi a sperimentazioni simili nei lavori di Eric Drooker (Flood!, Blood Song). Oppure alla provocazione visiva delle vignette a dimensione francobollo di Renee French, in Micrographica. Non è possibile. Senza dubbio incompatibile con l’idea di fumetto Bonelli che, se ci pensate, salvo rarissime eccezioni, non ha mai messo in discussione il formato, lo standard. E l’autore Bonelli si trova costantemente alle prese con la necessità di dover riempire. Tanto che non ragiona più per sintesi, e lo spazio arriva a non bastare. Come nel paradosso Manfredi, per il quale le pagine sembrano sempre poche e i finali delle sue storie appaiono quasi sempre affrettati. E se gli autori provassero a scrivere come Gianfranco Manfredi scrive i finali?
Paradosso, appunto.
Neppure tanto. Penso che in periodi nei quali le didascalie erano più pedanti ed esplicative, tuttavia un autore come Gino D’Antonio con la sua Storia del West dava vita a veri e propri ottovolanti. Le vicende si chiudevano e aprivano in qualsiasi momento, all’interno del volume, salvo la necessaria chiusa finale, che però, spesso, era premessa di quel che sarebbe successo poi, in uno sviluppo orizzontale corale e organico. Avventatezza. Generosità di idee. Energia.

Nel fumetto intimista lo spazio serve all’esposizione dei sentimenti. Nell’apparente sintesi simbolica di Chris Ware e del suo Jimmy Corrigan, per molti versi agli antipodi di molti approcci contemporanei intimisti, c’è in realtà un uso della dilatazione, della ridondanza, della circolarità concettuale e della sinestesia che serve all’autore per sovraccaricare la percezione del lettore, disorientare la sua comprensione e, in un perfetto meccanismo di immersione mimetica, farlo partecipare dell’anomia dei protagonisti e alla parzialità dei processi mnemonici e biografici.
Per Ware, quindi, la lunghezza del racconto è determinante per la buona riuscita della sua storia, per l’integrità delle sue intenzioni comunicative e artistiche.
In altri casi, la lunghezza appare meno giustificata e, anche qui come in Bonelli, condizionata dal riferimento a un altro modello formale, quello del “romanzo a fumetti”. Un esempio è il già citato Blankets. Thompson paga anche la propria inesperienza, come comprenderà lui stesso confrontandosi con molti autori francesi della new wave, ma è difficile per l’autore allontanarsi dal condizionamento del “grande romanzo americano”. A fumetti.
Un libro recente, Swallow Me Whole di Nate Powell, cade nello stesso errore, producendo un meccanismo che si inceppa, disequilibrato e poco organico, con alcuni momenti efficaci e altri poco significativi o involuti.

In Italia le cose vanno meglio e peggio. Un buon esempio di dilatazione ambigua è Morti di Sonno di Davide Reviati, uno dei migliori libri del 2009, che fa della sua disorganicità scomposta un suo punto di forza. Strano a dirsi, è difficile decidere cosa tenere e cosa buttare di un libro di memorie che appare una discarica abusiva di eventi passati, ricordi e indecisioni. Il libro è scomposto, lo stile diseguale, ma supportato da una sensibilità decisa e senza mediazioni, da una chiara visione delle cose, da un’urgenza narrativa che colpisce, senza impallidire. Poteva essere più breve? Poteva, Reviati, raccontare quelle vicende diversamente? Forse no, pena la perdita della voracità dell’istinto narrativo.

In ogni caso la narrazione intimista ha bisogno di spazio per fermarsi, per lasciare che il lettore recuperi da sé le proprie emozioni, possa entrare in sintonia, partecipare, osservare. L’estrema sintesi narrativa brucerebbe i momenti, le sensazioni, le evocazioni. Negli esempi più riusciti, gli autori lavorano in modo obliquo, e lo spazio permette di non prendere gli eventi direttamente, di girare intorno, e offrire punti di vista inediti al lettore. Lo fa Gilbert Hernandez nella sua Zuppa dei Cuori Infranti (Love & Rockets) e non ha molti eguali in questo.
Non lo sa fare Davide Toffolo con i suoi lavori, dove l’uso del simbolo appare troppo funzionale a un sentimentalismo egoico e virtuosistico. E l’attesa e il vagare faticano a coinvolgere il lettore più smaliziato.

Il richiamo alla sintesi di Spiegelman, d’altra parte, appare più didattico che funzionale. I suoi lavori escluso Maus rischiano di apparire semplici spunti di idee non elaborate. Giochi creativi pigri, dove pigrizia sta per mancanza di rielaborazione, appunto. Spiegalmen rischia di essere visto come l’autore da un’opera sola, e di rimanere imprigionato nell’incantesimo underground anche quando l’underground è concettualmente morto, finito e liquefatto, persino ai suoi stessi occhi. Troppo consapevole per cadere ingenuamente in questo gioco, credo tuttavia che l’autore viva una conflittualità interna che lo spinge a minimizzare sforzi e mezzi. Per fuggire a un confronto?
Fatto è che alcune storie di Spiegelman appaiono gioielli formali appoggiati su ottime idee, ma che non respirano per davvero. Al lettore non viene offerto letteralmente lo spazio per divagare, recuperare, evocare, soffermarsi, compatire, partecipare. Il lettore usa la testa o perde. Il lettore deve adeguarsi alle condizioni che l’intransigente Spiegelman pone.
Intransigenza artistica. Non per forza un limite o un peccato.
Ci tornerò su.


Harry


(c) Art Spiegelman

4 commenti:

  1. E in tutto questo, non mi parli dei manga, di alcuni in particolare, che proprio nella gestione dello "spazio" sono maestri.
    Una singola pagina di silenzio di Adachi vale mille pagine di dilatazione Toffolo, per esempio

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  2. e c'hai ragione, sai.
    rimedierò...

    harry

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  3. hi harry. hai letto "criminal"o "gotham city" di brubaker? molte delle intuizioni di cui parli nelle sue storie le trovi applicate. ciao

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  4. ciao frenacesca.
    gotham CENTRAL è un ottimo fumetto di genere che sa trascendere i generi stessi. e sì, sia brubaker che rucka lavorano in modo strepitoso.
    la follia di joker, per es. non è mai stata così reale e spaventosa...

    harry

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