David Murphy 911, disegno di Gabriele dell'Otto
L’ultima nata è Rourke (Star Comics), di Federico Memola, che esordisce poco dopo la chiusura della sua serie “storica”, Jonathan Steele (che per dovere di cronaca prosegue in albi extra con cadenza più dilatata). Rourke è un fumetto horror. Il primo numero è disegnato maluccio (tempi di realizzazione inadeguati?) ma è soprattutto deludente sul piano del soggetto e della sceneggiatura. La conduzione è prevedibile, meccanica. Le fasi decisive del racconto non colpiscono. I personaggi non graffiano, non escono dall’anonimato, malgrado le parolacce. È forse presto per dirlo, ma Rourke più che un horror sembra essere un fumetto noioso. Lontano dalle inquietudini dell’oggi, all’inseguimento di clichè ormai superati, attaccato a una new wave horror che ha generato più mostri che non.
Diciamo la verità, in un mercato editoriale mondiale straordinario per varietà delle proposte e, in molti casi, per qualità delle stesse, il fumetto popolare italiano non dà buona prova di sé. Negli ultimi anni abbiamo visto parecchie nuove proposte che, mi spiace dirlo, languono miseramente. E questo soprattutto al di fuori della casa editrice principe, ovvero la Bonelli.
Per una volta, quindi, togliamo il dito da casa Bonelli e vediamo cosa succede altrove.
Il gioco è sempre lo stesso, con alcune variazioni sul tema: produrre un fumetto di 96 pagine in bianco e nero di tipo avventuroso con segno realistico (o quasi). Le variazioni sono la formula in miniserie; le modalità produttive (invece di un unico disegnatore per albo, o di una sola storia per albo, più disegnatori e più storie per albo, o una delle possibili varianti di tale meccanismo); l'idea di base o il concept (il riferimento ai telefilm di nuova generazione, il richiamo dello scrittore famoso, il pretesto narrativo delle forze dell’ordine, ecc.).
In questo scenario, le novità che funzionano si contano sulle dita di una mano. O meglio, non si contano. Mi soffermerò solo su alcune.
Per una volta, quindi, togliamo il dito da casa Bonelli e vediamo cosa succede altrove.
Il gioco è sempre lo stesso, con alcune variazioni sul tema: produrre un fumetto di 96 pagine in bianco e nero di tipo avventuroso con segno realistico (o quasi). Le variazioni sono la formula in miniserie; le modalità produttive (invece di un unico disegnatore per albo, o di una sola storia per albo, più disegnatori e più storie per albo, o una delle possibili varianti di tale meccanismo); l'idea di base o il concept (il riferimento ai telefilm di nuova generazione, il richiamo dello scrittore famoso, il pretesto narrativo delle forze dell’ordine, ecc.).
In questo scenario, le novità che funzionano si contano sulle dita di una mano. O meglio, non si contano. Mi soffermerò solo su alcune.
L’ultima nata è Rourke (Star Comics), di Federico Memola, che esordisce poco dopo la chiusura della sua serie “storica”, Jonathan Steele (che per dovere di cronaca prosegue in albi extra con cadenza più dilatata). Rourke è un fumetto horror. Il primo numero è disegnato maluccio (tempi di realizzazione inadeguati?) ma è soprattutto deludente sul piano del soggetto e della sceneggiatura. La conduzione è prevedibile, meccanica. Le fasi decisive del racconto non colpiscono. I personaggi non graffiano, non escono dall’anonimato, malgrado le parolacce. È forse presto per dirlo, ma Rourke più che un horror sembra essere un fumetto noioso. Lontano dalle inquietudini dell’oggi, all’inseguimento di clichè ormai superati, attaccato a una new wave horror che ha generato più mostri che non.
Cornelio (ancora Star Comics) è la serie di e con Carlo Lucarelli. L’idea di base è interessante, e fare del celebre autore anche un’icona a fumetti poteva essere un colpo di grande efficacia narrativa, nonché commerciale, nelle mani di abili autori. Cosa che non avviene. Qui ci troviamo nel pieno del qualunquismo narrativo. Superficialità, mancanza di identità (che sceneggiatura voglio? Che sviluppi voglio? Più molte altre domande a caso di questo tenore), nessuno spunto che valorizzi il medium per il quale è realizzato il progetto. Sembra un fumetto/redazionale, ovvero un prodotto pubblicitario senza anima. È il perfetto esempio del fumetto/non fumetto, realizzato senza la minima consapevolezza delle potenzialità del fumetto stesso, dove le 96 pagine non sono sfruttare per quello che potrebbero essere, ma sembrano spazi vuoti da riempire fino alla parola fine. Uno strazio.
Panini Comics non è famosa per le sue produzioni italiane. L’unica eccezione finora da elevare a capolavoro è Rat-Man di Leo Ortolani. Ma qui il coraggio di Lupoi e compagni è stato quello (non da poco, lo ammetto) di voler puntare sull’autore e di saperlo valorizzare come merita. Sul piano progettuale e produttivo, tuttavia, i meriti della casa editrice sono pressoché nulli. Hanno preso il “prodotto” fatto e finito, un fumetto già efficace, già rodato, già vincente.
Recentemente, Panini ha però dato la luce a David Murphy 911 di Roberto Recchioni e Matteo Cremona. La miniserie di 4 numeri pesca nell’immaginario dei telefilm di azione e di certi comics mainstream statunitensi (a metà tra l’autoriale Vertigo e la new wave supereroistica). Il risultato non convince appieno. La miniserie è solida, sceneggiata con discreta consapevolezza e buon mestiere. I disegni peggiorano col progredire della miniserie, perché laddove il giovane Cremona migliorava con l’esperienza andava peggiorando con le scadenze troppo ravvicinate. Anche qui, un errore grossolano di progettazione dell’impianto produttivo della serie. Si paga l’inesperienza Panini. Si paga l’eccessivo entusiasmo degli autori.
Detto questo, quel che funziona sul piano della narrazione complessiva, purtroppo crolla miseramente sul piano della definizione del soggetto e del concept della miniserie. Murphy 911 è vuoto narrativo. Puro pretesto per un presunto virtuosismo visivo e dialogico. Siamo di fronte al prodotto ben realizzato senza alcun tema da narrare. È questo l’intrattenimento del nuovo millennio? È possibile pensare che la fruibilità, la leggerezza, il divertimento siano associati anche alla possibilità di offrire un punto di vista su quel che ci succede intorno? Al contrario, qual è il senso di leggere 4 albi di 96 tavole ognuno al termine dei quali non resta nulla, se non la sensazione di essere stati ammansiti?
Concludo con un altro albo Star Comics, Trigger di Ade Capone. Anch’esso una miniserie, ha una struttura particolare perché ruota intorno a più personaggi che si muovo ognuno in uno scenario diverso, legati da un filo comune. Ogni personaggio ha un suo disegnatore/copertinista dedicato ed è legato a un genere narrativo differente. Questo l’impianto. Dopodichè Ade Capone lavora per ritagli e ricomposizioni, come un clochard che rovista nella spazzatura. L’autore rovista tra i telefilm, come Lost, che viene citato più e più volte, e rovistando costruisce. Non ci sarebbe nulla di male, molta della “pop-art” di cui il fumetto fa parte lavora in questo modo, spesso con risultati sorprendenti. Ma non in Trigger. Cambiare registro narrativo richiede una grande abilità, innanzitutto per non perdere omogeneità e compattezza, in secondo luogo per riuscire ad essere efficace in ognuno dei generi affrontati. Trigger fallisce in entrambi gli aspetti. E ciò malgrado la buona prova dei disegnatori che, tuttavia, sembrano essere i primi ad affrontare il lavoro con scetticismo e, di conseguenza, senza cuore.
Quel che meno piace è ritrovare, per l’ennesima volta in un prodotto seriale, l’esigenza di dover esplicitare tutto, di spiegare il superfluo, generando noia e insofferenza nel lettore. Ritengo sia davvero avvilente e fuori tempo massimo vedere personaggi che si comportano, “parlano” e agiscono in un certo modo solo per esplicitare al lettore certi temi o accadimenti. Perché si desume che il lettore a cui è destinato il lavoro non avrebbe la capacità di comprendere da solo, per intuizione; perché si capisce che nello sceneggiatore manca l’abilità per arrivare allo stesso risultato narrativo con modalità diverse, più efficaci, meno banalizzanti.
C’è un filo rosso dietro a tutte queste pubblicazioni. Da un lato lo sforzo di voler essere attuali, di rielaborare temi o concetti efficaci e di successo in altri ambiti (che sia la televisione, o i comics, o la new wave horror statunitense, …); dall’altro il fallimento di questo stesso tentativo. Gli autori del fumetto popolare italiano non sembrano in grado di personalizzare e restituire ai lettori tematiche derivative. Il collage diventa una deriva all’insegna della banalizzazione e della noia. Si attendono tempi migliori e una sensibilità più autentica. Si spera in un cambiamento di prospettiva: dalla definizione di un prodotto in funzione di una possibile audience, alla costruzione di una storia a partire da un’idea solida, da una motivazione autentica a narrare, pur all’interno di un contesto popolare e seriale.
Harry.
Detto questo, quel che funziona sul piano della narrazione complessiva, purtroppo crolla miseramente sul piano della definizione del soggetto e del concept della miniserie. Murphy 911 è vuoto narrativo. Puro pretesto per un presunto virtuosismo visivo e dialogico. Siamo di fronte al prodotto ben realizzato senza alcun tema da narrare. È questo l’intrattenimento del nuovo millennio? È possibile pensare che la fruibilità, la leggerezza, il divertimento siano associati anche alla possibilità di offrire un punto di vista su quel che ci succede intorno? Al contrario, qual è il senso di leggere 4 albi di 96 tavole ognuno al termine dei quali non resta nulla, se non la sensazione di essere stati ammansiti?
Concludo con un altro albo Star Comics, Trigger di Ade Capone. Anch’esso una miniserie, ha una struttura particolare perché ruota intorno a più personaggi che si muovo ognuno in uno scenario diverso, legati da un filo comune. Ogni personaggio ha un suo disegnatore/copertinista dedicato ed è legato a un genere narrativo differente. Questo l’impianto. Dopodichè Ade Capone lavora per ritagli e ricomposizioni, come un clochard che rovista nella spazzatura. L’autore rovista tra i telefilm, come Lost, che viene citato più e più volte, e rovistando costruisce. Non ci sarebbe nulla di male, molta della “pop-art” di cui il fumetto fa parte lavora in questo modo, spesso con risultati sorprendenti. Ma non in Trigger. Cambiare registro narrativo richiede una grande abilità, innanzitutto per non perdere omogeneità e compattezza, in secondo luogo per riuscire ad essere efficace in ognuno dei generi affrontati. Trigger fallisce in entrambi gli aspetti. E ciò malgrado la buona prova dei disegnatori che, tuttavia, sembrano essere i primi ad affrontare il lavoro con scetticismo e, di conseguenza, senza cuore.
Quel che meno piace è ritrovare, per l’ennesima volta in un prodotto seriale, l’esigenza di dover esplicitare tutto, di spiegare il superfluo, generando noia e insofferenza nel lettore. Ritengo sia davvero avvilente e fuori tempo massimo vedere personaggi che si comportano, “parlano” e agiscono in un certo modo solo per esplicitare al lettore certi temi o accadimenti. Perché si desume che il lettore a cui è destinato il lavoro non avrebbe la capacità di comprendere da solo, per intuizione; perché si capisce che nello sceneggiatore manca l’abilità per arrivare allo stesso risultato narrativo con modalità diverse, più efficaci, meno banalizzanti.
C’è un filo rosso dietro a tutte queste pubblicazioni. Da un lato lo sforzo di voler essere attuali, di rielaborare temi o concetti efficaci e di successo in altri ambiti (che sia la televisione, o i comics, o la new wave horror statunitense, …); dall’altro il fallimento di questo stesso tentativo. Gli autori del fumetto popolare italiano non sembrano in grado di personalizzare e restituire ai lettori tematiche derivative. Il collage diventa una deriva all’insegna della banalizzazione e della noia. Si attendono tempi migliori e una sensibilità più autentica. Si spera in un cambiamento di prospettiva: dalla definizione di un prodotto in funzione di una possibile audience, alla costruzione di una storia a partire da un’idea solida, da una motivazione autentica a narrare, pur all’interno di un contesto popolare e seriale.
Harry.
Sottoscrivo qusi tutto, e soprattutto la critica alla mancanza di coraggio con cui idee neanche male (sono un acquirente-confesso di CORNELIO) vengono appiattite e banalizzate. E alcuni dialoghi di TRIGGER sembrano usciti da ZAGOR.
RispondiEliminagrazie andrea.
RispondiEliminaharry
I motivi della scarsa qualità delle serie che hai analizzato sono ben visibili, e ce li hai direttamente nei tag di questo post.
RispondiEliminaPer qualche imperscrutabile motivo certe case editrici si ostinano ad accettare storie da sceneggiatori come Recchioni, Capone, Memola, Aromatico, che hanno sempre avuto buone idee a fronte di una scarsa conoscenza delle strutture narrative.
Di sceneggiatori bravi ce ne sono in giro tanti, perché incaponirsi con questi? Boh, forse costano poco.
Paolo M.
Mi correggo: Recchioni le strutture narrative le conosce. Peccato che non le sappia applicare.
RispondiEliminaE mi ri-correggo: dubito che Recchioni costi poco. Gli altri probabilmente sì.
Paolo M.
boh, per me hai esagerato troppo con le critiche su Trigger e David Murphy
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