giovedì 13 maggio 2010

Surrogati

 una finta reclame dei surrogati


Alcune idee possono andare lontano.
Quando l'autore statunitense Robert Venditti ha creato i Surrogati ha colto nel segno.
In due parole, un Surrogato è un robot che, collegato in remoto con una persona, la sostituisce nella vita di tutti i giorni. La cura nella verosimiglianza di una tale invenzione, in particolar modo sul piano delle ricadute sociali, culturali e politiche è l’elemento più apprezzabile della storia.

Nel fumetto statunitense, la ricerca di un concept originale ed efficace è il cardine che regge le sorti di molte storie. Per almeno due ragioni: la vendibilità dell’idea ad altri media, in particolar modo il cinema (e infatti da The Surrogates è stato tratto un film di successo); la vicinanza con l’impostazione concettuale delle serie televisive, alle quali i comics di questo tipo sembrano maggiormente accostarsi.
Nello specifico, l’idea fantascientifica alla base dei Surrogati non è poi così originale, perché i temi dell’immortalità, della robotica nella vita quotidiana, delle vite alternative e virtuali, sono tutti stati usati e abusati. Ma Venditti ha mostrato una buona sensibilità, nel sintetizzare queste sollecitazioni in una storia semplice, lineare e coinvolgente.

Anche se non tutto funziona, in The Surrogates.
La trama della storia non è particolarmente originale (una sorta di Legal Thriller fantscientifico) ed è condotta con alcuni salti in avanti fin troppo sbrigativi, quasi lo sceneggiatore avesse fretta di arrivare a una conclusione. L’effetto è quello di aver perso qua e là alcuni episodi, se non di leggere un riassunto degli avvenimenti. Colpa dell’inesperienza? Colpa della voglia di buttare velocemente nell’arena fumettistica il proprio forte concept, e di ricavarne il prima possibile i frutti? O una semplice necessità legata al budget di partenza della Top Shelf Productions, che per prudenza non ha voluto investire per più di 5 uscite mensili (che è il numero degli albetti mensili che compongono la miniserie originale)?

Poi i disegni. Per certo fumetto statunitense “indipendente” lo stile di Brett Weldele è un perfetto marchio di fabbrica. È caratteristico, per esempio, delle produzioni della IDW Publishing, con i vari Ben Templesmith e Ashley Wood. La tavola finita è il risultato di un lavoro in più fasi che parte da un semplice disegno a matita, poi digitalizzato, e rilavorato con effetto pittorico in Photoshop. Weldele è senza dubbio padrone dello stile, ma non sempre la colorazione cupa ed espressionista e il tratto poco curato rendono giustizia alla storia. Non parlo della necessità di maggior realismo, quanto di una più attenta riflessione sull’uso di questo stesso stile nei diversi passaggi della storia. Per contrasto, la velocità esecutiva del citato Templesmith nella serie Fell scritta da Warren Ellis mostra una capacità narrativa molto più evoluta e matura. Ma Templesmith è un fuoriclasse.

D’altra parte, sono convinto che l’idea dei Surrogati possa avere significativi sviluppi con nuove storie. È stato pubblicato un prequel, una storia che si pone prima dell’inizio della miniserie iniziale, che non ho ancora letto. Sarà interessante vedere se Venditti sarà all’altezza della sua stessa idea e del successo a cui ha velocemente dato seguito.
Certo è che il fumetto statunitense mostra un movimento editoriale molto interessante, in quel limitare indefinito tra mainstream e indipendent, dove case editrici come Top Shelf Productions, da sempre più vicina a generi narrativi più intimisti e “autoriali” (suo il grande successo di Blankets, per esempio, così come la pubblicazione di autori quali Jeffrey Brown e James Kochalka), sono capaci di dar forma a veri e propri exploit editoriali inattesi, segno di un’apertura mentale non da poco. E segno anche che, per un verso o per l’altro, il pubblico statunitense risponde ancora oggi positivamente a proposte intelligenti e ben caratterizzate. Forse, non è possibile dire altrettanto del pubblico italiano, anche se non mi è dato sapere quale successo abbia riscontrato la pubblicazione da parte di Rizzoli/Lizard dell’edizione italiana dei due volmi di Venditti e Wendele.

Harry

2 commenti:

  1. Jeffrey Brown è un asso. E non mi ha stupito che, quando abbiamo presentato la sua storiella di Wolverine su De:Code (devertissement, ma anche un assaggio dell'universo di Brown), il suo stile di racconto e l'approccio grafico abbiano fatto schifo alla maggior parte dei lettori.
    Sic transit gloria mundi.

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  2. ciao antonio.
    ci credo. e ahimé lo capisco. il tratto di brown è davvero personale e per molti indigesto.
    credo che funzioni molto meglio accanto alle sue storie autobiografiche, però. laddove il tratto diventa tutt'uno con la sua vita.

    harry

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