Mi arriva il cartonato di Final Crisis (Dc Comics) sceneggiata da Grant Morrison.
Lo sfoglio e provo una sorta di vertigine, mi accorgo di quanto la moderna estetica dei supereroi di casa mia (USA) sia saturante. Saturazione visiva, tematica, dinamica, espressiva. Questa caratterizzazione (grafica e narrativa) costantemente sopra le righe mi provoca, nel momento in cui osservo (da fuori) le pagine di Final Crisis, senza entrare davvero nella lettura, un rifiuto che è innanzitutto emotivo.
Le storie di supereroi procedono sempre per contrapposizioni estreme, l'epica è estetica del dramma estremo. I sensi, per primo quello visivo, ma non solo, sono aggrediti attraverso un effetto massivo di ridondanza espressiva.
Ma è un inganno. Perché dietro a un tale approccio estremo, si nascondono profonde semplificazioni. Se si ritorna alla lettura della dinamica dei simboli, dei rapporti tra i simboli, si scopre che il fumetto popolare statunitense per antonomasia altro non è che il conflitto tra bene e male, tra vita e morte. Questa esigenza a estremizzare, a polarizzare le posizioni, a schematizzare per eccessi, caratterizza in modo genetico la cultura statunitense.
Ne riconosco l'origine e il fascino per i lettori. Ma anche i limiti. Soprattutto, in questa vertigine sensoriale dovuta a Final Crisis, mi accorgo della facilità con la quale, a un certo punto, si rischia l'intossicazione e, in definitiva, il rifiuto.
Non so come tutto ciò sia percepito dal lettore italiano.
Riposto il volume sulla libreria, mi riservo di tornarci dopo un periodo di disintossicazione. Grant Morrison merita sempre una possibilità.
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