lunedì 21 marzo 2011

Se son Fior: giornalismo, critica e umanità

 disegno di manuele fior


Che piaccia o no, il 2010 è stato l'anno fumettistico di Manuele Fior. Lo dico da estimatore della prima ora del suo ultimo lavoro, e da detrattore della sua prima opera, Oltremare, che mi era sembrata vuota ed eccessivamente decorativa.
Siviero sul suo House Of Mystery mette il dito nella piaga del giornalismo generalista sul fumetto, evidenziando per l'ennesima volta approccio superficiale e pressapochismo. In pratica, dai suoi approfondimenti, si evince che l'intervista di Fior pubblicata dal Corriere della Sera è stata liberamente interpretata dall'intervistatore, virgolettando come parole dell'autore proprie considerazioni. Fa bene Fior a prenderne le distanze e puntualizzare, specificando che quelle scritte nell'intervista non sono le sue parole letterali.

Mi vengono in mente due pensieri. Il primo riguarda Siviero, di cui ho apprezzato l'attenzione al problema. Ma davvero, se le parole fossero state di Fior, ciò avrebbe tolto valore all'opera vincitrice a Lucca, Angouleme e nella Top Ten de LoSpazioBianco.it, come ha ironicamente esplicitato qui? Sembra una domanda banale, eppure credo sia importante tornare a riflettere sul rapporto tra l'uomo/autore e la sua opera. Certo, la riflessione è prosaica, in questo caso, visto l'errore del giornalista del Corriere della Sera. Ma l'ambivalenza che il rapporto autore/uomo/opera mette in atto mi ha sempre affascinato e inquietato. Buttandola su un piano più politico, e spostandoci nel mondo della letteratura, mi vengono in mente due nomi che generano da sempre in me tale ambivalenza: James Ellroy (di cui amo certi lavori ma stento a condividere anche solo un suo punto di vista politico) e, in anni passati, Louis-Ferdinand Céline (la cui opera ha ancora oggi una potenza e una portata innovativa straordinaria, a fronte di posizioni politiche di nuovo piuttosto discutibili).

La seconda questione, più semplice, ma forse ancora più grave, è la responsabilità gionalistica dell'autore dell'intervista. Attribuire all'interlocutore pensieri che non ha espresso è al limite della correttezza. Superficialità motivata dal soggetto dell'intervista (il fumetto), o una tendenza presente in una parte (rilevante?) del giornalismo nostrano?

Harry

6 commenti:

  1. La prima questione è per me affascinante e, di fatto, irrisolvibile. Se tu citi Ellroy e Céline, a me viene in mente Yukio Mishima, scrittore giapponese straordinario per visione e capacità di trascendere il proprio ambito spazio-temporale. Eppure un uomo capace di tale sensibilità era anche capace di entrare in un gruppo di fanatici ultra-nazionalisti e di partecipare a un suicidio collettivo per protesta contro la politica del governo giapponese, giudicata troppo filo-occidentale.
    Ma non è così semplice: tentiamo un altro approccio. Io sono sempre stato convinto che un grande artista debba immancabilmente essere anche un grande uomo. L'umanità, la capacità di comprendere, di immedesimarsi è uno dei pressupposti per la creazione di un'opera d'arte. Ma è una condizione necessaria, assolutamente non sufficiente. La famosa "Merda d'artista" è, per l'appunto, una merda, non un'opera d'arte. In altre parole, un artista universalmente riconosciuto, con tutti i crismi e i requisiti, non necessariamente crea opere d'arte. Rovesciando il concetto, forse si può anche dire che un uomo, in generale, apparentemente sprovvisto delle "necessarie" qualità, possa comunque essere in grado di produrre arte, in certe condizioni.
    Credo che, in fin dei conti, se riusciamo a trarre gioia o piacere da un'opera di un autore di cui contestiamo le idee o gli atteggiamenti, allora ne va a tutto riconoscimento della nostra onestà intellettuale.

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  2. @ federico: non mi convince. dai per scontato che esitano vallori universali che , se associati al talento, possono produrre capolavori.
    eppure sappiamo bene che una grande sensibilità personale (spesso presupposto per le cose artistiche) può portare molto dolore e a scelte personali anche molto negative. prendi ellroy. nel libro a caccia di donne ci racconta le sue ossessioni al limite della psicosi. e si capisce come e dove nascono le sue idee sulla vita e la politica. questa visione reazionaria, cinica, autodistruttiva, contraria alla mia personale, in che modo dovrebbe inficiare la qualità delle sue opere, che restano tra le vette della letteratura contemporanea? è in questo l'ambivalenza.
    in ambito fumettistico, per quanto mi riguarda, qualcosa di simile avviene con frank miller, per dirne uno.
    che dici?

    h.

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  4. Sì, ti confesso che sono il primo a non essere convinto di quello che ho scritto. In effetti sto procedendo a tentoni, cercando di ricavare un senso da un problema che mi ha sempre affascinato (e che tu hai rievocato col tuo post, grazie!). Sempre procedendo "a tentoni", mi hai suggerito un altro spunto: purtroppo non conosco bene Ellroy (ho letto solo L.A. Confidential mille anni fa e mi ricordo poco e niente), ma conosco bene Frank Miller e il tuo paragone mi porta a pensare che siano due artisti accoumunati da un approccio all'arte molto simile: scrivono soprattutto "di pancia" (lo so: è un'espressione abusatissima, ma tant'è). Senza entrare troppo nei dettagli, credo che siano scrittori molto diversi da Alan Moore o da, che so, Saul Bellow. Questi due sono autori "di pancia" e "di testa". Forse allora possiamo considerarli più completi, e per averne la controprova bisogna esaminare come il messaggio scaturito dalla loro sensibilità, attraverso le pagine del libro / fumetto, viene accolto dalla nostra. Se questo messaggio ci pare più soddisfacente, più consono alle nostre esigenze intellettive, allora forse possiamo fare un passo più in là, affermando che l'opera di autori come Miller e Ellroy è in qualche modo "monca", perché priva di una sovrastruttura che contenga, controlli e canalizzi quel fuoco creativo/dostruttivo che fuoriesce dal loro animo tormentato e dalla loro penna.

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