Credo che ognuno di noi abbia esperienza diretta o indiretta di meccanismi da famiglia disfunzionale. Credo anzi che il concetto di malfunzionamento sia implicito al concetto stesso di famiglia. Le relazioni obbligate e i rapporti di potere (genitore/bambino, fratelli minori/maggiori, eredità degli antenati, ecc.) mettono in atto ricatti, sensi di colpa, segreti che non possono che generare dolore. L’amore su cui dovrebbero basarsi le relazioni familiari è spesso un’illusione, se non un’espressione chiara dell’attaccamento patologico e della dipendenza reciproca.
Non dovremmo sorprenderci quindi per i tanti, inaccettabili delitti intra-familiari di cui la cronaca nera è piena (soprattutto in estate, ma la curva si sta spaventosamente allargando); soprattutto non dovremmo sorprenderci del potere ipnotico che questi delitti hanno sulle persone. Ne siamo spaventati e attratti allo stesso tempo. Senza il distacco che deriva da un po’ di consapevolezza, inoltre, è possibile convincersi che i tempi sono peggiori di sempre, che la paura è giustificata, e che è impossibile non vivere in una costante apprensione sociale. Il grande imbonitore televisivo lo sa. Vittima e carnefice si confondono e diventano una cosa sola.
Di dolori familiari sono pieni il genere horror e noir. Prima ancora il folklore e la cultura orale. Possiamo dire che siano il primo nutrimento della letteratura popolare, insieme alle credenze religiose. E in questo filone si inserisce anche il lavoro di Denise Mina, in Una malattia di famiglia, pubblicato in una sottoetichetta da DC Comics in USA e in Italia da Panini Comics. Mina è stata sceneggiatrice già dell’orrorifico Hellblazer (di un ciclo non certo memorabile, schiacciata per di più dal confronto con gli altri ottimi autori che l’hanno preceduta e seguita – Ennis, Ellis, Milligan, Azzarello e i seminali Moore e Delano), ma non è facile per me comprendere la sua cifra stilistica. Una malattia di famiglia, in ogni caso, è un fumetto di genere esemplare, congeniato in modo limpido, schematico e fedele. La fedeltà di Mina mette al riparo dal rischio del fallimento, sia sul piano della comprensione da parte del pubblico, che sul piano dell’appartenenza al genere stesso. Mina non rischia, insomma. Ma lo schematismo di Una malattia di famiglia si traduce alla fine in prevedibilità e freddezza. Non so dire se ci sia del talento vero, in queste tavole (e mi riferisco anche al lavoro professionale ma senza guizzi del disegnatore Antonio Fuso), e non riesco nemmeno rintracciare emozioni autentiche. La famiglia disfunzionale rappresentata nella storia si muove per stereotipi e necessità esclusivamente narrative. Il che non vuol dire che Mina non sia abile e non sappia creare momenti di tensione e di pathos. Ma è troppo, troppo alta la richiesta del genere perché il suo tentativo convinca appieno.
2 tavole da una malattia di famiglia, di mina e fuso
una tavola da stitches, di david small
Insomma, quel che manca a Una malattia di famiglia è l’imprevisto che si stacchi dalla cornice narrativa di riferimento, in modo che la figura risalti sopra a uno sfondo troppo prevedibile. Ma il rapporto tra innovazione e genere merita un ulteriore approfondimento. Ne parlo a breve, partendo dal Dylan Dog di Vanna Vinci.
Harry
Concordo con la tua analisi, anche se non avendo letto Stitches non mi pronuncio sul confronto, ma su Una malattia di famiglia che ho letto secondo me hai centrato la questione: prevedibilità del testo e piattezza dei disegni mortificano le pur allettanti premesse del fumetto. Seguo la collana sin dall'inizio, ma inzia ad avere un pò troppe cadute secondo me.
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