martedì 28 giugno 2011

I generi si inseguono - Dylan Dog a la maniera di Vinci


Dylan Dog è diventato un genere. Succede al fumetto seriale. Un meccanismo che è possibile vedere esclusivamente in certo fumetto, con la sua ripetizione infinita dalla cadenza mensile, ma che raramente appartiene ad altre forme di comunicazione (nemmeno i telefilm, dalla vita più breve e ciclica. Nemmeno certa letteratura di maniera). Ecco, in questa ritualità capita che una serie diventi essa stessa genere. Dylan Dog a maggior ragione, con i suoi epigoni passati. Ma in particolare, osserviamo una sorta di centratura auto-referenziale, che si rivolge ai propri lettori, al famoso zoccolo duro, con la rassicurazione del già noto; che impone agli autori un linguaggio e un sguardo interno, che comprime e per certi versi rimastica il reale in un modo che non sarebbe possibile al di fuori di esso (tanto che autori anche validi risultano illeggibili alla prova con un particolare personaggio e, specularmente, autori con poco o nulla da dire possono cavarsela con un po’ di sano mestiere).

Diventa difficile, da questo punto di vista, capire se Dylan Dog oggi sia un fumetto horror, o se sia semplicemente un fumetto a la Dylan Dog. Per estensione, non è quindi facile capire se le singole storie che ne raccontano le vicende mese dopo mese dopo mese, che per necessità appartengono al genere Dylan Dog, appartengano anche automaticamente al genere horror.

Lo so che ti sto confondendo. Ma la spirale prosegue. Se leggi l’interpretazione che Vanna Vinci dà di Dylan Dog nel Color Fest del mese scorso, succede qualcosa di speciale, e al contempo di semplicissimo: Vinci si adegua al genere derivativo (Dylan Dog) soddisfacendo il genere originario (horror) attraverso il suo stile personale che, per come è condotta la storia in questo specifico caso, sembra a sua volta un genere (Vinci). È il gioco degli specchi, che nasconde una domanda interessante quanto di difficile soluzione: come nasce un genere? Quando nasce un genere? Come si collegano i diversi stili al genere? Come si armonizza il rapporto tra ripetizione e innovazione?

Vinci aveva già realizzato alcuni lavori per Bonelli, ma questo Dylan Dog è la prima occasione che l’autrice di origini sarde ha per utilizzare appieno il proprio stile. Perché il Color Fest è un fuori collana aperto a impostazioni diverse. Vinci lo sa, ed è magistrale. In senso letterale, è come se l’autrice fosse salita in cattedra per mostrare come si fa una storia alla sua maniera, senza tradire, anzi esaltando i tratti propri del personaggio e dell’horror (un horror malinconico e romantico, decadente). Purtroppo, La villa degli amanti è anche, soltanto, un ottimo esercizio di stile. Non c’è cuore. C’è amore, per un lavoro che l’autrice ha affrontato senza dubbio come una nuova sfida. Ma pesa troppo il formato, e l’effetto commissione, che conduce al mestiere. Insomma, c’è perizia, densità artistica, ma non intensità emotiva. In particolare, chi conosce il genere Vinci, percorso e ripercorso nei suoi tanti racconti per Kappa Edizioni, ritroverà in questa storia la stessa ironia e gli stessi interessi, il medesimo gusto per la linea e la costruzione della tavola, la vitalità espressiva ma triste dei volti, i tratti somatici dei suoi personaggi, … In un’operazione di mimesi e di equilibrismo, frutto della sensibilità che contraddistingue da sempre l’autrice, Dylan Dog è il suo personaggio tanto quanto l’icona popolare, la storia è una sua storia quanto facilmente inseribile nei classici della serie, e così via. L’esperimento riesce su un piano estetico e decorativo, perché frutto di una fusione stilistica (di genere?) intelligente e, per certi versi, provocatoria. Fallisce su un piano più strettamente espressivo, in quanto Vinci non riesce a offrire reale coinvolgimento e non va oltre un gustoso manierismo. Purtroppo, sono convinto che ai lettori di Dylan Dog serva altro, qualcosa che ne svegli il torpore ormai decennale. Qualcosa che tolga loro dalla faccia quel sorrisetto compiaciuto che deriva dalla rassicurazione di quanto accade, dalla prevedibilità. Anche se sospetto che molti lettori fedeli, fedelissimi, abbiano storto il naso al canone Vinci.

Harry




 
 
tutti le tavole sono di vanna vinci

2 commenti:

  1. L'albo l'ho letto e sono rimasto molto deluso.
    Ho trovato troppe similitudini con "Cani neri gatti bianchi".
    Le note stonate sono a mio parere molte:
    1) La costruzione della tavola, il canone Bonelli di 3 strisce non è stato sfruttato bene. La Vinci ha bisogno di vignette strette e lunghe, di far sbordare i personaggi dalla tavola.
    2) I personaggi sono troppo simili al canone "Vinci".
    Mary Ann assomiglia a Gilla etc...
    3) La storia di fantasmi è simile a "Cani neri gatti bianchi"

    Questo è il mio modesto parere.
    Complimenti per il blog.

    Ciao

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  2. Sembra quasi che il "canone Bonelli" compia un processo di banalizzazione su sceneggiatori e disegnatori, perfino il dissacrante Rrobe non osa oltre il limite, quando scrive Dylan.

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