lunedì 3 agosto 2009

Eura (non)Editoriale (2) - si taglia!

la copertina del numero (inaspettatamente) conclusivo di John Doe.


Ho recentemente parlato del mio amore/odio per la politica di Eura Editoriale.
Tra le considerazioni di alcune persone che sono intervenute, c’era quella che se Eura ha per anni portato avanti quel tipo di approccio è perché, in fondo, di lettori in più non ne avevano poi così bisogno. Che forse, i “distratti” lettori italiani sono poco interessati a vedere un fumetto stampato bene, a vedere copertine più moderne, a sapere quali sono gli autori del fumetto che stanno apprezzando (e magari cercarne altri dello stesso autore per lo stesso editore), che i fumetti li avrebbero comunque comprati, sempre e senza discussioni. Insomma, sembrava che per Eura fosse sufficiente stampare fumetti, come si produce carta igienica, e le cose sarebbero andate bene.
Un ragionamento che reputo suicida. Perché tutti, anche Eura, hanno bisogno di sinergie interne per valorizzare i propri prodotti, per far conoscere il valore (anche culturale) delle proprie pubblicazioni. Perché i lettori oggi sono gli stessi consumatori che hanno sviluppato (spesso loro malgrado) uno sguardo, una sensibilità cool, pop, patinata, o come diavolo vogliamo chiamarla.
Quanti lettori allontana quella testata Dago Ristampa, scritta così come si faceva anni e anni fa, all’interno di una cornice e di una copertina da dinosauro? Quanti ne scarta a priori, per “(anti)gusto”, per snobismo quello stupido effetto grafico di photoshop su I giganti dell’avventura?
Vengo al punto. È notizia che apprendo dalla rete che John Doe e Martin Hel chiudono a breve, brevissimo, quasi senza preavviso, salvo smentite dell’editore. Sembra, all’interno di un progetto editoriale nuovo, che mette da parte storia e persone – Filippo Ciolfi, storico e anziano patron Eura, si ritira? – per non si sa ancora bene che cosa.
Intanto, nascono alcuni timori in merito al futuro di un patrimonio fumettistico inestimabile. Non voglio essere pessimista, è possibile che la fase di transizione porti a quei miglioramenti di cui accennavo e che sono convinto farebbero molto bene a Eura. Eppure, la velocità del cambiamento in atto lascia perplessi. Perché, di nuovo, si mina alla base la fiducia di migliaia di lettori.
A proposito della chiusura di Trigger, più di una persona ha detto che i conti in tasca a un editore è impossibile farli. Solo chi ci mette i soldi può decidere e valutare. Come se di un numero e di un risultato commerciale fosse possibile dare un’unica lettura.
È naturale, le scelte ultime spettano sempre a chi guida all’interno di una casa editrice. Ma al pubblico e alla critica spetta altrettanto legittimamente la libertà di valutare tali scelte e metterle in discussione. Soprattutto laddove appare (quasi) evidente che certe scelte, oltre ai numeri, nascondano ben altro. Insomma, il punto di vista è importante.
Anche in questo caso. Sembra infatti che i numeri che hanno tenuto in vita John Doe per ben 75 numeri non siano più adeguati a proseguire, malgrado i risultati non siano mutati affatto (a detta di Recchioni). O per 75 mesi Eura ha realizzato un prodotto costantemente in perdita, oppure qualcosa davvero non torna. Soprattutto alla luce della velocità con la quale si procede al taglio della serie (che si aggiunge, lo ricordo, a Martin Hel e a Unità Speciale).
Harry.

7 commenti:

  1. [cita]
    Come se di un numero e di un risultato commerciale fosse possibile dare un’unica lettura.
    È naturale, le scelte ultime spettano sempre a chi guida all’interno di una casa editrice. Ma al pubblico e alla critica spetta altrettanto legittimamente la libertà di valutare tali scelte e metterle in discussione.
    [/cita]

    ma al critico, posta la liberta' di trattarne, che gliene frega delle scelte di mercato di una casa editrice? o dei numeri di vendita di un fumetto?
    me la vedo maria corti che commenta la scelta di einaudi di lanciare "stile libero" o "big"... ;)
    (che poi la corti e' morta, ma va bhe')

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  2. capisco il tuo punto.

    io sono convinto però che non si possa parlare di un'opera a prescindere dal suo contesto produttivo ed editoriale.
    tanto più se tale contesto ne obbliga la chiusura.

    tanto più se, come nel mondo del fumetto, i contesti produttivi ed editoriale sono così intrinsecamente legati alla crescita e alla sopravvivenza del medium. no?

    harry

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  3. e' un punto di vista diffuso il tuo, ma io lo contrasto con tutte le mie forze.

    di solito quando ho dei dubbi se una cosa e' valida o meno, nel mondo del fumetto, non faccio altro che confrontare il resto della realta': letteratura, cinema, televisione.

    dickens e zola' pubblicavano su rivista, non mi risulta che si facciano discussioni in merito sul circolo pikwick o germinale

    le serie showtime e channel4 sono all'opposto della filosofia produttiva, ma quando si parla di weeds o di it crowd non si fanno considerazioni nel contesto


    tu poi dici: "nel mondo del fumetto, i contesti produttivi ed editoriale sono così intrinsecamente legati alla crescita e alla sopravvivenza del medium"
    il fumetto commerciale e' solo un suo aspetto. questo vale probabilmente per qualsiasi linguaggio, ma proprio dal fumetto dovremmo averlo ben presente: perche' e' un medium che a livello commerciale, su scala mondiale, e' atrofizzato, ma nonostante questo resta vivo e vegeto piu' o meno ovunque, in forme cosidette underground o alternative. e non c'e' bisogno di andare tanto lontano da noi, basta pensare al fumetto di lingua tedesca, o a quello scandinavo.


    da ultimo dico che questa attenzione, tipica del mondo fumettistico (italiano), al mezzo dal punto di vista artistico, produttivo, del mercato, etc etc e' secondo me frutto delle sue ridotte dimensioni, che, non so per quale processo, portano alla totalizzazione dell'interesse da parte dell'appassionato.
    ma anche qui, attenzione a non credere che il piccolo mondo che si ha per riferimento ne concluda la dimensione. il mondo la' fuori e' pieno di lettori che "non ne sanno niente", e formano ad egual (o maggiore) diritto la realta' fumettistica, quanto la critica e gli appassionati

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  4. guarda, tocchi dei punti importanti e fondamentali. e mi offri diversi spunti di riflessione. probabilmente approfondirò in un post.
    e, ancora, ammetto che il tuo punto di vista è interessante e "seducente".

    eppure, non mi convince.
    parli di cinema e letteratura.
    sappiamo che una delle malattie del cinema in italia è la distribuzione, e una delle malattie del cinema italiano è la produzione.
    si produce lo stesso, a volte cose molto interessanti. si può analizzarle e parlarne a presciendere da come vengono prodotte e distribuite, ma io non lo trovo irrilevante.

    certo, il medium fumetto e strutturalmente povero di mezzi (mi spiego, basta una penna e dei fogli di carla per realizzarlo), e l'underground si è sviluppato a fotocopie, in usa, coi mini-comics negli anni '90.

    ciò non toglie che lo sviluppo dei formati, della distribuzione, di certe produzioni, ne ha permesso lo "sdoganamento" presso il grande pubblico. possiamo parlarne come no.
    possiamo analizzare l'opera come autonoma, o come inserita in un contesto più ampio: economico e produttivo.

    un esempio? è eclatante e viene ancora dagli states: il mondo delle strisce. realtà produttiva/formato/contesto economico/ecc.

    harry

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  5. rileggendo (oltre ai refusi mattutini) c'è un passaggio che può essere frainteso: quando parlo di underground voglio dire che prima si è sviluppato con le fotocopie, e negli anni '90 ha trovato nuova forma con i minicomics prodotti e stampati in casa (coi pc).

    harry

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  6. "si può analizzarle e parlarne a presciendere da come vengono prodotte e distribuite, ma io non lo trovo irrilevante."

    intanto il fatto che il contesto produttivo sia irrilevante o meno va al di la' del fatto che la critica debba o voglia occuparsene.

    tu vieni dal fumetto e ti sembra naturale fare certe considerazioni anche sul cinema e la letteratura. ma "la' fuori", la critica cinematografica e letteraria, questi discorsi non li fa.

    non lo fanno nemmeno i critici fumettistici fuori dalla penisola: non si affronta il fumetto in questi termini sul comics journal, cosi' come non lo fa l'associazione dei critici della bd in francia.

    io continuo a credere che questa sia una delle (tante) anomalie del fumetto italiano.

    non fosse altro che le critiche sovrastrutturali sono destinate ad avere vita breve: tra dieci anni, ma anche solo tra uno o due, sapere che l'ultimo numero di john doe e' stato riscritto in fase di consegna delle tavole (o quello che e') non sara' piu' un elemento significativo. col tempo rimagono le opere e si perde il contesto: se le opere hanno qualcosa da dire, lo diranno nei nuovi contesti in cui si troveranno ad essere lette (e' il concetto di classicita' di calvino).

    io sono convinto che il mondo del fumetto soffra di solipsismo, di un isolamento culturale e sociale che viene vissuto come un vanto di passione totalitarista. di solito queste situazioni portano a non rendersi conto della natura di se' (vedi tu se con effetti ridicoli o pietosi - mi sembra che l'appello per all'eura dia una buona misura dello stato delle cose).

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  7. intanto, io non vengo dal fumetto, me ne occupo ma con uno sguardo esterno.
    e credo che l'esempio del comics journal sia fuori bersaglio.
    per anni, proprio groth, tra l'altro editore di fantagraphics, ha fatto distinguo tra un modo di fare e produrre fumetti e un altro. una contrapposizione oggi superata solo in parte, sulla rivista. e sono state molte negli anni le analisi dei sistemi editoriali e produttivi in relazione alle opere, nel cj. io l'ho sempre visto come un segno di maturità.

    i mali del fumetto, quell'isolamento culturale di cui dici, che esiste, che pian piano forse si sta riducendo, non è causato da questo aspetto, secondo me.

    sai, un'opera di valore esiste nel tempo. ma ogni opera secondo me per essere compresa deve essere contestualizzata. e il meccanismo produttivo in cui è inserito ne è parte integrante.

    sarebbe come parlare di bitches brew di davis senza parlare delle innovative, per il jazz, produzioni in studio.

    io trovo il tuo punto di vista "purista" un po' riduttivo, anche perché a me non piace a priori definire quali debbano essere campi di analisi o di indagine. secondo quale regola poi?

    come sai, invece, concordo sulla petizione eura. che è segno di altro, secondo me.

    harry

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