venerdì 15 aprile 2011

L'impossibile critica (3)

il fumetto con protagonista la pornostar jenna jameson



Oltre l’autore/eroe ci sono le logiche di mercato. Si parla di industria culturale (termine utilizzato per la prima volta da Adorno e Horkheimer negli anni ’70 per evidenziare l’ambiguità e la conflittualità proprie dell’arte della modernità), di fette di mercato per ogni singolo prodotto artistico.
Il dato di fatto è che la maggior parte degli autori/artisti di fumetti esterni al circolo dei prodotti seriali, in Italia come negli Stati Uniti, difficilmente può pagarsi da vivere con quello che produce. Puoi leggerne un interessante approfondimento qui, a firma di Andrea Queirolo. E le problematiche degli autori sono l’epicentro di un fenomeno più ampio, dove anche gli Editori spesso faticano a raggiungere il pareggio e dove i Distributori risentono fortemente delle pressioni economiche e dell’indebitamento collettivo, ovvero sopravvivono a stento o chiudono.
Secondo una logica strettamente di mercato, se il fumetto non si paga da vivere è utile? Si direbbe di no.
Nel mercato occidentale, guidato da paradigmi ormai vecchi, frustrato da speculazioni sempre più grandi e rapide, si è via via accentuato il principio secondo il quale è necessario produrre a tutti i costi, pena la chiusura delle aziende e la perdita di lavoro. La produzione si è sganciata dai bisogni e i consumi sono diventati una musa incantatrice. Da un lato, quindi, si cerca di generare nuovi bisogni prima assenti per sostenere la produzione; dall’altro si produce di più e si pagano percentuali per la sovrapproduzione, buttando quel che è in eccesso, alla faccia di chi muore di fame dall’altre parte del mondo (due esempi italiani, le problematiche connesse alla sovrapproduzione di pomodori e di latte).
Alla fine degli anni ’50, John Kenneth Galbraith, economista e ispiratore del Partito Democratico di John F. Kennedy, esplicitava in questo modo il problema:

[…]vediamo chiaro che le nostre energie produttive sono impiegate per fabbricare assurdità, di cui nessuno ha bisogno, mentre però del processo produttivo si continua ad avere “bisogno”, come fonte prima di guadagno. Ora, il guadagno che si ottiene producendo gli oggetti più stupidi, e meno rilevanti, ha dunque una grossa importanza. La produzione riflette la bassa utilità marginale dei prodotti per la società: ma il guadagno riflette la cospicua utilità totale delle entrate per l’individuo. Perciò, quantunque lo si ammetta difficilmente, la vera preoccupazione economica fondamentale non è più tanto per i “prodotti”: diventa una questione di guadagno e di impiego; la prova migliore è che quando si pensa a una depressione viene naturale di farlo non tanto in termini di “meno merci prodotte”, quanto di “disoccupazione e minor guadagno”; e reciprocamente è spontaneo identificare gli “anni belli” o la “congiuntura favorevole” con epoche di pieno impiego,  piuttosto che non di alta produzione.
John Kenneth Galbraith, da America Amore di Alberto Arbasino (Adelphi)



La ricetta di Galbraith è semplice: una rete solidale che garantisca un salario pieno a chi non ha un lavoro, per una disoccupazione che è prevedibile si muova a fisarmonica entro certi limiti percentuali e che, se sorretta in modo coerente, può supportare attività diverse da quelle produttive, come per esempio quelle artistiche. Ovvero, la disoccupazione come un fenomeno strutturale e caratterizzante le economie occidentali. Non solo, la disoccupazione non come un problema sociale ma come un'opportunità.
Oggi, mezzo secolo dopo, le cose vanno diversamente, soprattutto in Italia. Tagli alla cultura, tagli alla spesa pubblica ma solo dove non ci sono interessi di lobby o di corruzione; sussidi di disoccupazione esplosi e gravosi che non prevedono soluzioni o sostegni a medio-lungo termine.
E il fumetto? A quali logiche deve sottostare? A quelle della produzione a tutti i costi o a quella dell’artista libero e, perché no, sovvenzionato di fare quel che sa fare nel modo migliore?
Nelle attuali logiche di mercato prevale senza dubbio la prima formula. Anche perché il Fumetto non è il Cinema, non è l’Opera, non ha mai raggiunto lo status di forma artistica autonoma e riconosciuta (e nemmeno per questi, come sappiamo, è periodo di vacche grasse). E allora, il fumetto è come un gadget, che si deve cercare di vendere a prescindere da uno specifico, reale bisogno, all’interno di logiche consumistiche industriali (o semi-industriali). Qualcuno direbbe che questa è l’essenza dell’arte, ovvero di non rispondere a nessuna specifica necessità. Ma l’arte come gadget mette dentro tutto e risponde a banali e insulse logiche di consumo, usa e getta. L’esempio più chiaro, evidente, è la trasformazione industriale della musica popolare, vero feticcio usa e getta strumentale alla vendita di altro, style, jeans, occhiali, profumi, …
E la critica? Secondo questo punto di vista è un anello (importante?) dell’industria culturale.
La critica si riduce ad essere un veicolo per indurre l’acquisto di un gadget. Nello specifico il fumetto/gadget.

Harry
(continua)

3 commenti:

  1. "La critica si riduce ad essere un veicolo per indurre l’acquisto di un gadget."

    e diciamo anche che di dovrebbe "supportare" la critica, spesso non lo fa.

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  2. l'idea che passa oggi è che dare pieno salario ai disoccupati disincetivi di fatto a cercare lavoro, le nuove idee sull'economia della felicità provano e metterla sotto diversi punti di vista, ma in realtà affrontano il problema alla radice, e il discorso sugli incentivi continua ad essere dominante.
    Anche sui libri di testo se ne parla come un dibattito ancora apertissimo.

    Sui fumetti la cosa non mi suona bene, continuo a pensare a tutti quei filmacci italiani fatti solo con (e magari, per..) le sovvenzioni pubbliche.
    Ma forse è tutto un fatto di virtuosità del sistema che deve distriubuire questi aiuti, forse servirebbe una guida più illuminata, magari un ruolo per la critica? Cosi non indurrebbe più all'acquisto, ma distribuirebbe direttamente i soldi ;)

    Comunque, se da una parte il fumetto come bene meritorio mi sembra sacrosanto, dall'altra il discorso delle sovvenzioni statali mi chiama l'arte morta, distanza e tristezza.
    Non c'è proprio fiducia nei gusti della gente?

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  3. tocchi vari punti interessanti. e io non ho molte risposte.
    so solo che in italia, grazie a una cultura politica becera, agli sprechi, alla corruzione, ecc. ecc. è ormai passata l'idea che sovvenzioni pubbliche equivale a buttare i soldi o a sprechi. e che in ogni caso non frutti soldi in generale.
    naturalmente sono tutte cazzate.
    dipende da chi e da come sono gestiti i soldi.
    che sia pubblico o privato.

    e poi chiedo, meglio sovvenzionare aziende private (da fiat, alle scuole, ecc.) o sostenere cittadini o imprese pubbliche?

    h.

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