Ti avviso, se leggi Jan Dix e non hai ancora letto l’ultimo numero della serie, qui ti svelo il finale.
Jan Dix è la maxi serie di Carlo Ambrosini che termina in luglio con il quattordicesimo numero. La conclusione era prevista, ma con qualche speranza, a differenza di chiunque coinvolto nel progetto ti dirà oggi. La speranza era che, come successe per Napoleone, le vendite permettessero un prolungamento oltre i quattordici numeri. Anche per questa ragione, Jan Dix è concepita come una serie slegata di episodi, senza un inizio e una fine predefeniti, in uno sviluppo coerente. Ma le vendite non sono state buone. Da quanto scrive Sergio Bonelli e Ambrosini stesso nell’introduzione all’ultimo numero, si tratta di nicchie di lettori, affezionati, attenti, intelligenti, curiosi, stimolanti, blabla, ma pochi.
Nell’introduzione di Peter Milligan al secondo tradepaperback di Young Liars di David Lapham (di cui vi parlerò presto), l’autore britannico ammette che ci sono storie che necessitano di essere di nicchia, perché quello che viene raccontato è inaccessibile, si potrebbe dire, alla coscienza collettiva di massa.
Se vale per Young Liers, non è il caso di Jan Dix.
Dix è un Investigatore dell’Arte, o qualunque altra definizione inappropriata vuoi usare. Non vuol dire altro che Arti Figurative più delitti o misteri più passioni umane.
Ha base ad Amsterdam ma ha respiro internazionale. Il protagonista soffre della peggiore sindrome dell’antieroe, ovvero un’ambiguità che sfocia nell’anonimato che, si direbbe dal finale, porta all’anomia.
Ambrosini ha vocazioni chiare. Utilizzare forme da fumetto popolare per avvicinarsi al fumetto artistico, colto e… intimista. Insomma, in qualche modo, boicottare l’avventura in funzione dei sentimenti, quelli "adulti", quelli "veri", quelli della depressione dell’età adulta irrisolta.
Dix è vittima del suo autore, dei suoi lettori, delle sue passioni da protagonista anonimo e nell’ultimo numero lascia questo triste mondo scaraventandosi con la sua auto contro un treno. La sua vita termina in quello che si potrebbe dire il numero più bello della serie, non a caso scritto e disegnato dal solo Ambrosini, quello più emblematico, che segna in modo chiaro l’insuccesso del progetto dell’autore.
L'errore: l’arte figurativa così come è osservata dall’autore è un’arte morta. È quella dei musei e dei saggi stratificati. Paolo Conte, in una sua canzone, diceva
È gente per cui le arti stan nei musei
Tutto qui. I Monet, i Picasso, i Tintoretto, … avvicinati con sguardo per certi versi esoterico, simbolico, non appartengono più alla nostra cultura del quotidiano. Il che naturalmente non dovrebbe precludere nessuno a parlarne. Ma Ambrosini non riesce a riportare questi autori e le loro opere nel cuore della nostra quotidianità. Da qui, si direbbe, il rifugio in un mondo "adulto", dove adulto vuol dire privo di speranza, dove l’irrazionale è incompreso, è subito, è depressivo. Jan Dix sembra un rifugio, dove il fumetto diventa torre rialzata lontana dal mondo, chiusa dalle mura della griglia, della forma, del pubblico bonelliano, isolata dall’impossibilità di un linguaggio inadatto, sterile.
Non sono mancate storie coinvolgenti e riuscite: La guerra (con Bacilieri), Una tragedia americana (con Mammucari) e questo finale Lo sguardo cieco. La solitudine di Jan Dix, che si ritrova schiacciato dalla nostalgia per la propria madre scomparsa da anni, è un atto narrativo generoso e onesto di Ambrosini, che trova una voce autentica e senza mediazioni e che sfida tutte le logiche base dell’avventura bonelliana. Un non-Bonelli, insomma, per un finale senza consolazione. Per l’autore, che torna a lavorare per Dylan Dog, per il protagonista, per le Arti Visive, per il fumetto non-avventura in Bonelli. Un punto di non ritorno?
Harry.
Dix ritornerà, come una banconota falsa, come auspicato in una canzone di Bruno Lauzi, come la zampa di elefante e gli Spandau Ballet.
RispondiEliminaAttenzione allo spoiler: Ambrosini sta lavorando ad una terza miniserie che chiuderà il cerchio aperto con Napoleone. Il modello è stato il trio di miniserie degli Invisibles di Morrison. Altra ispirazione è stata Kubrick che chiudeva ogni film con un elemento che anticipava il successivo ( cifr. Enrico Ghezzi nel suo ''Castoro '' sul regista ).
Fumetto e metafumetto. Riflessione sul medium. Di seguito una sintesi del terzo progetto:
1) miniserie di sette ( numero che confina con lo uncountable biblico ed il laico, angolsassone 101 ) 2) titolo Napo-Or-so-chi-è-Capo 3) trama: Tinto Picass è un ex regista della nouvelle vague , solo e senza lavoro, schiacciato dalla nostalgia per i propri ''padri '' scomparsi o bolliti in anni di blockbuster predigeriti. Rapito dalla setta delle Arti Visive, è sottoposto ad esperimenti con allucinogeni duranti i quali sogna Paolo Conte in rotta di collisione con Monet sulle vetture di un autoscontro. Quando si sveglia, turbato da una epifania joyce-style, decide di oscurare gli occhi per cominciare a vedere. Bendato sviluppa un terzo occhio mtapsichico
( nella terza mini-serie ! ) ed incontra la versione SBE di Daredevil, Doctor Midnite e Mister E ( citazione metafumettistica del clone di Solomone Kane in Zagor ). I quattro si ritrovano nei sotterranei delle Arti Visive ogni qualvolta da una riproduzione dell'urlo di Munch non si leva lo spirito di Dix per proporre loro un mistero legato al mondo dei colori. Il tutto in un albo in b/n con protagonisti non vedenti. Evidente il tentativo di far riflettere il lettore sul fumetto ed i suoi limiti. Sarà un successo?
Jan Dix è purtroppo nato con un grave handicap. Quello di dover raggranellare gli scampoli di affetto che i lettori di qualche anno fa avevano provato per Napoleone. Compito non facile. Per quanto si sia già detto che anche Napoleone non abbia mai goduto di troppi proseliti, lo "zoccolo duro" che ha seguito le sue gesta, era rimasto affettuosamente legato al personaggio. Me compreso. Dix ha avuto molto meno tempo per conquistarsi quella fiducia che permisero a Napoleone, comunque in altri tempi, di proseguire la storia oltre i numeri stabiliti.
RispondiEliminaCon storie riuscite e meno riuscite, mi sento di dire però che Ambrosini, anche attraverso Dix, sia riuscito a raccontare le proprie storie attraversando canoni e clichè ben diversi da quelli a cui sono abituati i lettori bonelli. E forse anche "extra" bonelli.
Non reputo un errore avere affrontato i temi dell'arte 'da museo', che hanno reso la serie originale ed interessante, ed apprezzo anche il modo di parlarne 'esoterico e simbolico', che fornisce un punto di vista alternativo. Forse è vero che non sono temi interessanti per molti. Secondo me il problema sta nel personaggio, probabilmente non adatto ad una serie con cadenza bimestrale: personalmente, con intervalli di lettura così lunghi, non sono riuscito ad afferrarne le caratteristiche e l'evoluzione. Fino all'ultimo episodio, tanto concentrato sulla solitudine del personaggio, che finalmente me lo ha reso 'simpatico': infatti la sua morte mi ha letteralmente rovinato la giornata.
RispondiElimina@ giovanni: il problema non è l'arte da museo. ma non aver saputo dare vita ad essa. dix è una serie depressa, involuta e con un protagonista anonimo.
RispondiEliminada qui, sono uscite comunque alcune belle storie. ma le "belle arti" non hanno saputo riprendere vita e parlarci, non hanno saputo uscire da un vago esoterismo di maniera e un eruditismo un po' fine a sé stesso.
harry