venerdì 19 febbraio 2010

Dove va la carovana



Caravan arriva al numero nove, due terzi di storia sono passati e mi sono fatto un’idea chiara delle intenzioni di Michele Medda, e dei risultati.
Lo dico da subito, Caravan mostra in modo diretto i limiti del linguaggio Bonelli e mostra l’inefficacia di una trasformazione strutturale come quella imposta da Medda.

Per prima cosa, Caravan ha un pre-testo avventuroso che lo sceneggiatore non ha saputo tenere vivo, in nove mesi. L’impianto/contenitore di storie senza uno sviluppo del pre-testo diventa appunto pretestuoso e questo pesa enormemente sull’equilibrio narrativo. È un problema che va oltre le aspettative del lettore. È un gioco di scatole che appare disarmonico, e dove il contenuto appare forzatamente collocato all’interno di un contenitore poco fluido, poco accogliente, distonico.

Ma il problema principale di cui risente la serie è senza dubbio il linguaggio. Pre-testo a parte, infatti, Medda ha deciso di raccontare la “quotidianità”. Intendo con questo termine pezzi di vita normale, più o meno ancorati a uno specifico contesto storico, che avrebbe potuto vivere ognuno di noi, nella propria esistenza. Gli eroismi sono annullati dall’anonimato delle situazioni, dalla tragica e comune banalità della crescita.
Da questo punto di vista, il cuore di Caravan vorrebbe essere minimalista sia nelle intenzioni dello sceneggiatore che nelle scelte drammatiche. Ed ecco episodi di comune terrorismo, di comuni abusi infantili, di comune tossicodipendenza, di comune violenza, di comuni amori. Di questo fragile e delicato tessuto Medda ha riempito il contenitore.
A differenza di celebri precedenti quali Ken Parker e Dylan Dog, per dirne solo due, nei quali la normalità e la quotidianità emergono da molteplici livelli di lettura, ma rimanendo chiaramente ancorati a una base avventurosa ben codificata, in Caravan, Medda elimina quasi totalmente gli altri livelli di lettura, e ci sbatte in faccia storie comuni.
Il fatto è che la banalità dei giorni o rivela aspetti di "compassione" (partecipazione emotiva) o di poesia, altrimenti risulta sterile e fuori luogo. E qui si rivela tutta l’inefficacia dei codici e del linguaggio proprio dell’impostazione bonelliana. Quando Andrea Pazienza, Gipi o gli statunitensi John Porcellino o Jeffrey Brown, ecc. raccontano il loro sguardo sulla vita lo fanno attraverso un codice idiosincratico e personale, proprio, inedito. Rinnovato e rielaborato attraverso una ricerca che è funzionale al tema, alla sensibilità e ai motivi del racconto.
In Caravan ciò non è possibile. La mediazione con il formato, con lo stile dei disegnatori, con un canone precostituito, non sovvertibile e da non mettere in nessun modo in discussione polverizza l’efficacia narrativa delle storie, che appaiono incompiute e rivelano, ahimè, la vera, antipatica, inaccettabile piattezza dei fatti di vita comune. Raramente c’è poesia, idiosincrasia, o compassione, ma solo un meccanismo ben costruito e professionale. Distante e sterile.

Queste motivazioni fanno di Caravan una vera anomalia e una lente di ingrandimento sui limiti oggettivi della narrazione bonelliana. E questo malgrado le migliori intenzioni degli autori impegnati nella serie, ed episodi più riusciti di altri.
Sono convinto che il fumetto popolare italiano avesse bisogno di un’esperienza editoriale come questa perché mette in luce un problema importante che andrebbe focalizzato, elaborato e affrontato, se si vuole modernizzare stili e impostazioni ormai invecchiate e se si vuole recuperare il contatto con un gruppo sempre maggiore di potenziali lettori disinnamorati, annoiati, delusi.

Harry.


4 commenti:

  1. Proprio l'anormalità di Caravan è insieme la sua condanna e il suo pregio. Anche io sono convinto che un prodotto simile era addiruttura doveroso proporlo, ma a dispetto di ciò che dici, io interpreto caravan come un successo artistico.
    La continua indifferenza di cui soffrono "le nuvole" è un difetto, vero, ma allo stesso tempo un atto coraggioso e quasi anarchico da parte dell'autore. Semmai il vero difetto di Caravan sta a monte: proporre un tema così forte come "le nuvole" pare cosa esagerata, se messa in relazione con ciò che poi Medda ha voluto realmente narrare.

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  2. secondo me il problema in sé non sono le nuvole o quant'altro.
    ma nel fatto che le due parti di storia non collaborano a vicenda. sono disunite. e la base della serie appare come un mero palliativo. finora.

    e in ogni caso, il problema di fondo è il linguaggio. l'approccio stilistico. la modalità narrativa. in questa "forma" la quotidianità raramente viene raccontata con efficacia. malgrado l'impegno e la perizia di medda.

    harry

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  3. Ho fatto il tuo stesso, identico, ragionamento.
    Non se se preoccuparmi o esserne lieto.

    Io trovo che Michele sia un grandissimo sceneggiatore e ho capito bene cosa intendeva fare. E non me ne frega molto neanche della pretestuosità delle nuvole o meno.
    Ma trovo che il linguaggio/codice del fumetti Bonelli non permetta di raccontare storie intime e quotidiane in maniera realistica.
    Non è che sia propriamente un difetto, solo che con quel linguaggio certe cose vengono bene (l'avventura, vedi il sorprendentemente riuscito Greystorm) e certe cose non funzionano a dovere.

    Prendiamo come esempio i dialoghi: Michele è bravissimo con i dialoghi, lo è sempre stato.
    E lo è anche in Caravan.
    Sono fluidi, passano bene le informazioni, non sono ridondanti.
    Ma per quanto ben scritti, le regole del linguaggio Bonelli (poche parolacce, un uso corretto della lingua e via dicendo), gli impediscono di essere realistici, coloriti e ricchi come le storie richiederebbero.

    Caravan per me è una serie importante per la Bonelli perché segna in maniera chiara il potenziale e i limiti del fumetto popolare della casa editrice.

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  4. ecco. allora preoccupati, roberto, perché siamo d'accordo la 100%.
    e l'esempio dialoghi è il più "superficiale" ed evidente, ma se pensiamo proprio alla narrazione dei disegni, delle inquadrature, ecc. ecc. la cosa è ancora più strutturale.

    harry

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