venerdì 18 giugno 2010

In ricordo di Al Williamson


. . In the old days, virtually every comics company had a big room where all the artists and writers sat together, creating their works of four-color wonder. Creative folks generally being the garrulous sort, typically, quite a bit of "bull" got tossed around these legendary rooms, so the nickname "bullpen" was a natural. . . . At any rate, these days, most comics artists and writers prefer to work in their own studios, but, still, here at Marvel, we have a big room, a production bullpen, where all of our art/production people work doing our paste-ups, lettering corrections, art corrections, and such — and even though the editorial folks are bunched in small offices off to the sides we still refer to the whole shebang as the Marvel Bullpen. It's a tradition dating back to the days when we actually were a one-room operation!
Jim Shooter


I comics di supereroi statunitensi sono inseriti in una catena produttiva che negli anni è passata da logiche “artigianali” a logiche “industriali”. Le virgolette sono necessarie, ma, in massima sintesi possiamo dire che la consapevolezza dei sistemi di mercato e produttivi, i meccanismi legati all’indotto e alle produzioni parallele a quella caratteristica (merchandising, cinema, romanzi, ecc.) delle case editrici hanno messo in atto questo passaggio già alcuni decenni fa.
C’è un pregiudizio valoriale in merito ai due concetti di artigianale e industriale che ha a che fare con l’immaginario e il simbolico: “artigianale” richiama alla mente idee quali caldo, personale, umano, vicino, familiare, creativo, …; “industriale” si collega a idee quali meccanico, ripetitivo, freddo, lontano, impersonale o spersonalizzato, …
Eppure, per certi versi i comics statunitensi sono stati da sempre un prodotto “industriale”, almeno per quanto potesse esserlo la catena produttiva dell’editoria di allora, e le logiche produttive e creative sviluppare da Stan Lee negli anni ’60 assomigliavano in modo inquietante (sempre sul piano simbolico) a quelle delle catene di montaggio. Al contempo, oggi, e sempre più in relazione al divismo a cui si sottopongono molti autori del fumetto popolare (che ha avuto negli anni ’90 la sua manifestazione più eclatante e destrutturante), i comics non possono che mantenere elementi essenziali di “artigianato” artistico, dove la mano, lo stile e il carattere degli autori fanno la differenza. È un’ambivalenza tipica delle attività produttive che hanno a che fare con le forme espressive e comunicative, in particolare in ambiti dove sia essenziale la riproduzione del prodotto, la massificazione, la distribuzione.

Questa ambivalenza, sul piano strettamente artistico, assume spesso tratti grotteschi. Perché la forza idiosincratica delle produzioni artistiche ha permesso di far emergere talenti come quello di Jim Lee, per esempio, che ha marcato con il suo stile non solo un’epoca, ma un gruppo fondamentale di personaggi della Marvel Comics: gli X-Men. L’originalità, la caratterizzazione, la personalità sono tratti propri della produzione di Jim Lee negli anni ’90 (e ancora in anni recenti, se pensiamo per esempio ai suoi lavori su Batman). Tali caratteristiche sono state la fortuna della Marvel Comics, dei Mutanti e del mercato di comics. Raggiunto il successo, il processo di industrializzazione e normalizzazione ha costretto lo “stile Jim Lee” a diventare da unico e personale a standardardizzato e meccanico, spersonalizzato. Ancora oggi, le serie mutanti subiscono l’onda lunga di questo processo, e la casa editrice ha rinnovato questo “incantesimo” investendo su giovani ragazzi che hanno clonato più o meno efficacemente quello stile.
Come detto, un’ambivalenza grottesca. Sul piano simbolico, che più mi interessa, l’esempio ci dice due cose: che il mercato di comics necessita di talenti unici per soddisfare l’interesse e il bisogno adrenalinico di novità degli appassionati; che esso si struttura e mantiene nel tempo attraverso la ripetizione stilistica e la rassicurazione dei lettori. Di questa ambivalenza, credo abbia da sempre vissuto ogni forma espressiva. Ma nel mercato dei comics di supereroi, che ha una storia così breve a fronte di una produzione di pagine impressionante, tale contraddizione appare quasi una caratteristica genetica, amplificata dai meccanismi narrativi retorici, cacofonici e ridondanti propri del genere.

Uno degli elementi che struttura tale ambivalenza, spesso accentuando l’aspetto simbolico “industriale” di omologazione e ripetizione automatica, è determinato dalla consuetudine di utilizzare dei team creativi che producono le singole storie: uno sceneggiatore, un matitista, un inchiostratore, un letterista, ecc. coordinati da un editor. Tornando all’esempio di Jim Lee, negli anni della diaspora delle star della Marvel Comics verso la nascente Image Comics, sulle fragili spalle di molti inchiostratori ricadde il peso di mantenere una presunta omogeneità stilistica con i lavori precedenti, forzando lo stile dei sostituti delle star, spesso giovani poco esperti. Il risultato, cercando di illudere i lettori che nulla sarebbe cambiato, fu disastroso. E non per colpa degli inchiostratori, vittime loro stessi, ma di scelte sconsiderate (ma necessarie?) della casa editrice.
I team creativi garantiscono la catena produttiva e il rispetto dei tempi. Sono sempre esistiti nei comics di supereroi e, superato il piano simbolico, non appartengono né a un meccanismo industriale né artigianale. O meglio, appartengono a entrambi, connotati in modo diverso. Stan Lee, con il celebre Marvel Bullpen, ovvero il gruppo di autori stabili che ha creato migliaia di pagine di supereroi negli anni ’60, un vero gruppo di lavoro dove i compiti erano perfettamente distribuiti ma anche in buona parte intercambiabili in funzione delle necessità, è stato il primo manager del fumetto a concepire questo meccanismo come un sistema e una rilevanza, dandogli piena visibilità e, perché no, valore.

Il team creativo è, ancora sul piano simbolico, la negazione stessa del carattere artistico delle produzioni a fumetti. Artigianale o industriale che sia, tale struttura ha due obiettivi fondamentali: rispettare i tempi di produzione, come detto; garantire omogeneità stilistica. Ma poiché tutte le vicende umane, in ambito espressivo e creativo, si basano su sinergie esplosive e imprevedibili, la catena produttiva nei comics ha in alcuni casi rappresentato una straordinaria possibilità: che il risultato del gruppo fosse più della somma delle parti. Due esempi eclatanti sono accaduti nella stessa testata della Marvel Comics, Daredevil: si tratta della coppia Frank Miller (sceneggiatura, matite) e Klaus Janson (inchiostri e colori) e del connubio straordinario tra John Romita JR. (matite) e Al Williamson (chine), con le sceneggiature di Ann Nocenti.
Di Miller (e Janson) si sa molto, moltissimo e rimando alla lettura del volume Panini Comics recentemente prodotto che raccoglie tutto lo storico ciclo di Daredevil dove i due autori hanno mostrato tutta la loro bravura. Di JR JR e Williamson si è parlato meno, ma il loro lavoro in coppia rappresenta uno dei vertici assoluti dei comics di supereroi. Il culmine della loro collaborazione si può osservare nella ri-narrazione delle origini di Devil sceneggiata da Frank Miller, ma qui ci troviamo già al limite del manierismo. Le storie eclatanti sono quelle della serie regolare di Daredevil, dove passo a passo è possibile osservare l'evoluzione del connubio artistico.


Al Williamson è recentemente scomparso all'età di 79 anni. Il suo uso del tratteggio, la sua capacità di valorizzare le matite di JR JR senza nasconderle, ma personalizzandole, sono tra i migliori esempi di come possa, debba lavorare un inchiostratore su matite altrui. Ma Williamson è andato oltre, con JR JR ha dato vita a un equilibrio artistico irripetibile. Il lavoro dei due artisti è stato un costante dialogo, un work in progress che ha permesso, da un lato, al giovane Romita di arrivare a una precisa definizione del proprio stile e della propria personalità, e al veterano Williamson di lavorare di dettaglio, mostrando l’importanza e la delicatezza della scelta dei tratteggi e delle campiture, della funzione narrativa nel determinare pieni e vuoti della pagina, anche in previsione della successiva colorazione, nel connotare emotivamente la messa in scena dei personaggi, dei loro corpi e delle loro caratterizzazioni.

Williamson ha dato molto al fumetto e alla sua maturazione come mezzo di comunicazione, e certamente non solo da inchiostratore. Era un artista completo straordinario. A partire dagli anni '80 si è dedicato all'inchiostrazione perché i suoi tempi di lavorazione della pagina da artista finito non erano adeguati ai tempi di produzine seriale (industriale?). Ma non di un semplice compromesso si è trattato. Perché Williamson ha mostrato a tutti l'importanza e la qualità del suo approccio al fumetto. Oltre a ciò, ha dato senso e rilevanza al significato del lavorare in team, al di là di qualunque pregiudizio e interpretazione valoriale.


Harry

6 commenti:

  1. - grazie per aver ricordato Al Williamson facendoci capire la sua grandezza proprio nel momento in cui ha svolto un lavoro che potrebbe apparire secondario
    -grazie per avermi riportato alla memoria la sequenza di storie di Devil di Nocenti-Romita jr e Williamson, che conservo in originale in qualche scaffale in cantina, e mi avevano colpito per l'originalità e la profondità (mi rimane scolpita nella memoria la storia con Ultron)
    -e complimenti caro Harry. Da poco navigo su Internet alla ricerca di siti sui fumetti, ed è molto bello trovare qualcuno ne parla in modo semplice, ma mai banale. E soprattutto che ne sa, non dimentica nessun periodo, nessuna scuola e nessun autore.

    Giovanni

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  2. Pace in cielo e in terra ai grandi
    uomini di buona volontà come Al Williamson.

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  3. Romita Jr. non ha più ritrovato quella delicatezza del tratto senza di te.
    Grazie, Al

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  4. complimenti, bel pezzo. le immagini postate sono un tuffo al cuore.
    manuele

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  5. Volevo commentare anch'io, ma Giovanni ha già detto tutto alla perfezione, fino al dettaglio degli albi originali in cantina :-)

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