lunedì 17 novembre 2008

Lucille


Di anoressia si muore.
Sono piene le fosse e prima gli ospedali. E prima ancora e più spesso le case/galere autoinflitte da chi di anoressia soffre.
Raccontare di questa malattia è difficile. C’è un’intimità e una profondità che è quasi impossibile esplicitare. Si rischia la superficialità oppure la pedanteria.
Ecco quindi che il primo volume di Lucille, dell’autore francese Ludovic Debeurme, spicca come un’opera a fumetti straordinaria perchè perfettamente equilibrata.
Debeurme sceglie di affrontare il tema dell’anoressia in modo diretto e forte nei primi capitoli del racconto, dove la malattia e l’ossessione sono al centro della chiusura esistenziale della protagonista e del rapporto interrotto con sua madre. Quando all’introspezione e alla chiusura succede l’apertura alla possibilità di una nuova vita e di un amore profano; quando l’azione e gli eventi prendono il sopravvento guidati da un fato beffardo e da coscienze immature e schiave del carattere non domato, la malattia passa in secondo piano. Nessuna guarigione miracolosa, nessun appesantimento narrativo. L’anoressia si muove in sottofondo, come un filo rosso che percorre ogni gesto e ogni evento che coinvolge Lucille. Ed è qui che la sensibilità di Debeurme emerge con straordinaria lucidità. Perché anche di fronte a possibili percorsi di cura e di cambiamento, l’approccio “anoressico” all’esistenza permane, condiziona e non smette di manifestarsi.
Il cibo è il rapporto con la vita, con il desiderio di crescere, di svilupparsi. Ogni interruzione, ogni perversione trova molto raramente una risoluzione positiva e definitiva. Se non dopo un lungo e faticoso lavoro su di sé.
Per queste ragioni Lucille è un’opera sentita e capace di incantare. Ma non solo.
La sensibilità dell’autore va di pari passo con la sua capacità di sintesi e rappresentativa, con un’impostazione della tavola originale e fluida, con un disegno sottile, misurato ma fortemente emotivo.
Lucille è una storia a fumetti imperdibile.

Harry

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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.