Prima di tornare a parlare di cose futili, apro una nuova parentesi; mi piace divagare – chiusa parentesi (come nei blues di Jimi Hendrix dove la sua chitarra improvvisa per divagazioni che si sa quando iniziano ma non quando terminano).
Ho parlato della necessità di intellettuali, della necessità che i fumetti parlino dell’oggi, che facciano opinione e cultura, della necessità che i fumettisti incontrino il mondo fuori, gli intellettuali altri, quelli che, ancor poco, contano. Qualcosa succede, è successo.
A Milano in questi giorni (da ieri a domenica) apre le porte un nuovo festival, Streep, che sembra anch’esso una divagazione: una parentesi prima della grande mostra-mercato di Lucca (che cambia nome in festival, una sciccheria, diventa europea, ma non cambia pelle, per fortuna); una parentesi nell’anonimato e nell’invisibilità della scena culturale e fumettistica milanese.
A inizio ottobre, poi, c’è stata una festa (non un festival) di Internazionale a Ferrara, dove il fumetto, anche lì, si è aperto all’altro, si è fatto conoscere.
La matrice comune sembra essere il comics journalism, di cui è più facile tracciare un’evoluzione (non una storia) che una definizione, come ci hanno mostrato Stefanelli e Interdonato sul primo volume di Doonsbury, l’Integrale. Il giornalismo a fumetti, in questi anni di crisi mondiale del giornalismo, dove si colloca? Cosa rappresenta? In quale relazione con il reale? È questo il fumetto che parla dell’oggi di cui rivendico l’assenza, ma che vedo come una delle più grandi potenzialità della nona arte?
Se nel comics journalism si nasconde Gipi, insieme a Spiegelman, insieme a Parisi, insieme a Munoz, insieme a Chapatte e a Sacco… mi chiedo cosa differenzia l’autobiografia, dalla testimonianza, dall’inchiesta, dal racconto storico-biografico, dalla verosimiglianza, …?
Non confondetevi. Pensate al termine comics journalism, così come lo sentiamo in questi giorni, come a un grosso contenitore, un’etichetta che contiene più di quanto esclude. Bene, pensiamo per canoni inversi e lasciamoci sorprendere, da Deaglio che intervista Spiegelman (era ieri sera), da Robecchi che intervista Gipi, dagli incontri, dal fumetto (senza eccezioni, senza etichette) che incontra il reale. Da qui possiamo partire, per arricchire di contenuti il contenitore di cui sopra, e scoprire, pian piano, nel tempo, che il giornalismo a fumetti è forse più un mezzo dialettico che una definizione, un veicolo. Perché Parisi che disegna il jazz di Coltrane non è giornalismo, come non lo è il suo libro, se non fosse che, guarda caso, la musica di Coltrane ha avuto (ha?) una portata culturale, politica, sociale, esistenziale, esoterica, … che si rinnova continuamente, in ogni rielaborazione e rievocazione. Almeno quanto la voce inconfondibile e provocatoria del “complice” Ornette Coleman, che ancora oggi, grazie al cielo, suona e produce (music journalism). Una testimonianza.
Sporchiamo il fumetto di reale.
Solo l’inizio?
Harry
Ho parlato della necessità di intellettuali, della necessità che i fumetti parlino dell’oggi, che facciano opinione e cultura, della necessità che i fumettisti incontrino il mondo fuori, gli intellettuali altri, quelli che, ancor poco, contano. Qualcosa succede, è successo.
A Milano in questi giorni (da ieri a domenica) apre le porte un nuovo festival, Streep, che sembra anch’esso una divagazione: una parentesi prima della grande mostra-mercato di Lucca (che cambia nome in festival, una sciccheria, diventa europea, ma non cambia pelle, per fortuna); una parentesi nell’anonimato e nell’invisibilità della scena culturale e fumettistica milanese.
A inizio ottobre, poi, c’è stata una festa (non un festival) di Internazionale a Ferrara, dove il fumetto, anche lì, si è aperto all’altro, si è fatto conoscere.
La matrice comune sembra essere il comics journalism, di cui è più facile tracciare un’evoluzione (non una storia) che una definizione, come ci hanno mostrato Stefanelli e Interdonato sul primo volume di Doonsbury, l’Integrale. Il giornalismo a fumetti, in questi anni di crisi mondiale del giornalismo, dove si colloca? Cosa rappresenta? In quale relazione con il reale? È questo il fumetto che parla dell’oggi di cui rivendico l’assenza, ma che vedo come una delle più grandi potenzialità della nona arte?
Se nel comics journalism si nasconde Gipi, insieme a Spiegelman, insieme a Parisi, insieme a Munoz, insieme a Chapatte e a Sacco… mi chiedo cosa differenzia l’autobiografia, dalla testimonianza, dall’inchiesta, dal racconto storico-biografico, dalla verosimiglianza, …?
Non confondetevi. Pensate al termine comics journalism, così come lo sentiamo in questi giorni, come a un grosso contenitore, un’etichetta che contiene più di quanto esclude. Bene, pensiamo per canoni inversi e lasciamoci sorprendere, da Deaglio che intervista Spiegelman (era ieri sera), da Robecchi che intervista Gipi, dagli incontri, dal fumetto (senza eccezioni, senza etichette) che incontra il reale. Da qui possiamo partire, per arricchire di contenuti il contenitore di cui sopra, e scoprire, pian piano, nel tempo, che il giornalismo a fumetti è forse più un mezzo dialettico che una definizione, un veicolo. Perché Parisi che disegna il jazz di Coltrane non è giornalismo, come non lo è il suo libro, se non fosse che, guarda caso, la musica di Coltrane ha avuto (ha?) una portata culturale, politica, sociale, esistenziale, esoterica, … che si rinnova continuamente, in ogni rielaborazione e rievocazione. Almeno quanto la voce inconfondibile e provocatoria del “complice” Ornette Coleman, che ancora oggi, grazie al cielo, suona e produce (music journalism). Una testimonianza.
Sporchiamo il fumetto di reale.
Solo l’inizio?
Harry
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