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domenica 4 settembre 2011
Il bisbiglio del cane
Riprendo il filo del discorso su Black Jack di Tezuka Osamu direttamente da qui. Se hai voglia rileggilo.
E poi goditi questa splendida, surreale, romantica, orrorifica storia karmica. Si tratta del racconto numero 81 di Black Jack, Il bisbiglio del cane, nell'edizione italiana di Hazard Edizioni, che devi avere nella sua interezza (25 volumetti imperdibili).
Harry
opera di tezuka osamu, hazard edizioni, tutti i diritti riservati
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mercoledì 17 agosto 2011
Tezuka sotto il sole del positivismo?
Torno a parlare di Tezuka Osamu. Sfogliando questo blog mi accorgo, in effetti, di avergli dedicato davvero poca parte del mio tempo rispetto al grande interesse e amore che nutro per questo autore.
Ieri, nella calura estiva, rileggevo Black Jack (Hazard ed.), l'opera più trasversale e sorprendente di Tezuka, quella in cui ha maggiormente giocato con la sua perizia e la sua intelligenza, racconto dopo racconto.
Il dottor Black Jack, abilissimo chirurgo senza licenza, è una delle figure narrative più sfaccettate e complesse che abbia mai incontrato nelle mie esperienze di lettore. Nobile, anarchico, saccente, avaro, generoso, ... ha una tale profondità e ambiguità che è impossibile catalogarlo. Nelle sue scelte e nelle sue azioni, si respira tutta la complessità di pensiero di Tezuka, e la conflittualità morale che lo ha da sempre attraversato. Tezuka si divide a metà tra una vocazione spirituale molto forte e ancorata nella tradizione (in parte induista, in parte buddhista, in parte cristiana) e un positivismo scientifico figlio del suo tempo. La medicina (e la chirurgia, per certi versi perfezionamento e massima espressione della medicina stessa) ha un luogo immaginario particolare, in Black Jack, poiché rappresenta sia il potere della tecnica dell'uomo sulla natura (il dominio della medicina sulla malattia), sia la forza della volontà e della perizia sul fato. Black Jack, da questo punto di vista, è un grande medico, per nulla mistico, ma totalmente, concretamente pratico, essendo la prassi e la tecnica le sue ineguagliabili risorse.
D'altra parte, l'esasperazione concettuale a cui giunge Tezuka, in più occasioni sembra trasformare l'uomo Black Jack in una divinità (positivita. Si potrebbe utilizzare il concetto di ateismo religioso). Con grande intelligenza (e grottesca ironia), il Maestro rivela un altro meccanismo tipico della modernità, ovvero quell'attesa salvifica verso la medicina e la Scienza in senso lato, che domina in particolare nelle persone colpite dalle grandi malattie del nostro tempo. Viene svelato, cioè, quel rapporto di potere fortemente asimmetrico per il quale il malato è in balia totale delle scelte e delle capacità del medico, che raramente spiega, raramente conforta, raramente si confronta con il paziente malato, e che ne governa le sorti dall'alto della sua conoscenza e della sua tecnica. Le conseguenze di tale distorsione sociale sono esperienza quotidiana di tutti noi, e sono spesso portatrici di nuova sofferenza e frustrazione, in aggiunta a quella che già abbiamo per colpa della malattia. Tezuka, nella sua gestione volutamente ambigua del personaggio, non bara mai. Più volte, è lo stesso Black Jack che dichiara ai suoi pazienti che non è un dio, ma solo un uomo molto abile. Spesso, sono i pazienti che sembrano non ascoltare (altra dinamica tipicamente umana).
Ma è proprio nel positivismo portato all'estremo che Black Jack muta fino a ribaltare completamente il punto di vista del lettore. La narrazione vista nel suo insieme, capitolo dopo capitolo, si sviluppa attraverso un andamento non lineare (neppure circolare, piuttosto a spirale, tipicamente orientale) che si appoggia su una struttura morale (o karmica) per la quale Black Jack, che non è un dio per ragione delle sue capacità (salvifiche), diventa una sorta di divinità karmica nel suo ruolo di maieuta, di facilitatore dei destini delle persone che incontra. Black Jack, malgrado le sue operazioni al limite del possibile, non ha potere di vita e di morte sulle persone. Il suo compito, piuttosto, sembra essere quello di favorire il compimento di un cammino karmico del genere umano a cui è impossibile sottrarsi. Nell'accezione tipicamente orientale, però, il destino di cui si parla non è qualcosa di deciso dall'alto, di predeterminato in senso assoluto da una divinità estranea e lontana, ma semplicemente la conseguenza inevitabile delle scelte e delle condotte individuali. Gli esempi sono numerosi, e vanno dal giovane nuotatore affetto da malattia congenita, al bambino intrappolato sotto le macerie, alla piccola ma adolescente Pinoko, ecc.
Nel prossimo articolo riporterò una storia che è perfetta nell'esplicitare quanto ho cercato di spiegare, una breve parabola morale toccante e in perfetto equilibrio tra sentimentalismo, grottesco, orrore, commedia, ...
Harry
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giovedì 11 agosto 2011
Tezuka ai quattro venti
Io amo Tezuka Osamu in modo viscerale. Le sue storie sono per me fonte di enorme soddisfazione. Dalla più ironica e infantile a quelle più adulte e sofisticate. Tezuka rappresenta ai miei occhi l'autore completo per antonomasia, colui che ha toccato tutti i generi e ogni volta con estrema intelligenza, mettendo sempre in discussione quanto fatto prima, sfidandosi costantemente e... sfidando le aspettative dei lettori. Tezuka è un unicum nel mondo fumettistico globale.
In Italia, per molti anni, la sola Hazard Edizioni è sembrata interessata alla sua opera. A lei, al suo lavoro mai perfetto ma sempre importante, dobbiamo la versione italiana dei principali capolavori riconosciuti di Tezuka (Budda, Black Jack, La storia dei tre Adolf, La Fenice tuttora in corso di pubblicazione). Non so se in precedenza Hazard avesse l'esclusiva italiana, oppure fosse l'unica casa editrice realmente interessata alla sua opera. In effetti, a memoria, ricordo una pubblicazione interrotta di un suo lavoro, Dororo, edita da Kabuki Publishing, agli inizi del 2000, quindi immagino che non ci fossero contratti di esclusiva tra Hazard e gli eredi Tezuka.
Ebbene, nell'ultimo periodo sembra che ci sia un ritorno a Tezuka, da parte di più di un editore. Prima fu Panini Comics, che pubblicò alcuni volumi antologici di Astro Boy, a sfruttare il traino commerciale del film. Oggi ci sono Free Books con Alabaster, Ronin Manga con Don Dracula e Kappa Edizioni con Pinocchio.
La qualità delle proposte è altalenante, sul piano della cura editoriale. E credo che in generale, troppo spesso l'opera di Tezuka sia stata malamente punita da una confezione inadeguata e spesso incapace di attrarre davvero i potenziali lettori. Potenziali lettori che, nel caso di Tezuka, dovrebbero/potrebbero essere tutti gli esponenti della razza umana! Perché la varietà dei temi e degli stili è davvero in grado di parlare a tutti e di trasmettere a ognuno qualche intuizione e qualche emozione sulla nostra vita.
Non mi è chiaro, tuttavia, il perché di questo ritorno a Tezuka, in un periodo di fatica del mercato e di difficoltà di collocazione. Ho due idee: o l'amore per Tezuka è talmente forte, da parte di alcuni editori, da voler in ogni caso rischiarne la pubblicazione pur di vederne un'edizione italiana; oppure si conta su uno zoccolo duro di appassionati immortali lettori di Tezuka come il sottoscritto.
Il primo caso mal si concilia con la scarsa cura editoriale di alcune pubblicazioni (vedi Free Books, ma anche Hazard, per quanto decisamente migliore). Il secondo caso potrebbe essere un miraggio, compensato solo dalla distribuzione per librerie specializzate e dall'alto costo di copertina.
Di Tezuka amo molto alcune edizioni statunitensi (Apollo's Song, per esempio). Ma in ogni caso, vi prego, piccoli o grandi editori che avete la determinazione di pubblicare il Dio dei manga, credeteci fino in fondo e fatelo guidati dal cuore. Amatelo. Coccolatelo. Curatelo in ogni dettaglio. Non merita niente di meno.
Harry
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venerdì 9 ottobre 2009
Oggi rifletto sul formalismo - parte 5 di 5

Qui la prima parte.
Qui la seconda parte.
Qui la terza parte.
Qui la quarta parte.
Ora la quinta e ultima parte.
Dopo essermi soffermato sulle interessanti possibilità interpretative degli approcci formalisti al fumetto, dopo aver suggerito l’utilità di questi stessi approcci per sviluppare maggior consapevolezza nell’esperienza di lettura e dopo aver constatato la necessità di una visione aperta (al dialogo e allo scambio) della critica sul fumetto, arrivo al mangaka Taniguchi.
Jiro Taniguchi è un autore piuttosto unico nel panorama fumettistico mondiale, uno di quelli che mi disorienta maggiormente. Il suo stile e il suo linguaggio sono molto personali, contaminati e riconoscibili. La sua ricerca lo ha portato a essere, agli occhi dei lettori occidentali, una delle massime espressioni della cultura orientale nel fumetto. I temi che affronta, l’occhio con il quale osserva e rappresenta la vita, la sensibilità nel rintracciare la circolarità e la spiritualità dell’esperienza, sono propri di una cultura altra rispetto alla nostra. Al contempo, tuttavia, Taniguchi sa essere il più europeo degli autori giapponesi, perché la sua sintesi è frutto di una ricerca e di una cultura che ha saputo muoversi spesso oltre confine. È un ponte? Forse si.
Per il sottoscritto, Taniguchi è un continuo esempio di ambiguità e ambivalenza. Visto da un punto di vista superficiale, il suo fumetto non mi piace. Sfogliare i suoi libri mi lascia indifferente. Non c’è un particolare che colpisca la mia curiosità, non il suo tratto, non la costruzione complessiva della tavola, non la modalità con la quale traccia le linee. Eppure, avviata la lettura, tutti quegli elementi assumono un significato diverso, in funzione della storia. I disegni, che in apparenza risultano freddi e statici, subiscono una metamorfosi al punto da diventare perfetti veicoli per le emozioni della storia. C’è un’apparenza, in Taniguchi, che viene costantemente contraddetta dalla sostanza. Mi è capitato più volte di sentire commenti (di comuni lettori) che criticano aspramente il suo stile, quel realismo gelido che traspare in molte tavole. Comprendo questo punto di vista, ma solo superficialmente, prima cioè di essere accolto dal profondo calore e dalla spiccata umanità dei suoi racconti.
In Un cielo radioso (storia di un’anima che si sposta in un altro corpo; storia di riconciliazioni, di amore per la vita, di consapevolezza e spiritualità) l’apparente freddezza delle tavole deriva dalla pulizia del tratto, dall’assenza di tratteggi, dall’uso attento ma continuo di retini, dal realismo esasperato degli ambienti, dove pesa soprattutto la forza geometrica e spigolosa delle architetture che circondano la vita di città. La postura delle persone è misurata, lontana da ogni approccio impressionista o caricaturale (così tipico, invece, di moltissimi manga) e le espressioni corporee sono semplici, definite da piccole variazioni della linea. Le inquadrature sono curatissime e, spesso, silenziose, sottotraccia, non vogliono imporsi con la presenza di scelte impreviste o spiazzanti (proprio come succede, per esempio, in molti fumetti di casa Bonelli). Sul piano simbolico, le scelte stilistiche alle quali ho accennato parlano di un materialismo concettuale lucido, concreto, asettico. È il materialismo della nostra quotidianità.
Dietro questa fredda rappresentazione della vita si nasconde una sensibilità rara. Taniguchi, assumendo come proprio l’esempio di Osamu Tezuka, esplora con abilità le potenzialità del fumetto attraversando trasversalmente i generi. Ogni suo nuovo lavoro affronta una tematica narrativa differente, eppure le ossessioni che lo dominano sono sempre le stesse. In La ragazza scomparsa, l’autore assume il pretesto della tragedia familiare per raccontare della montagna, della scalata, del rapporto dell’uomo con l’assoluto e con la fiducia. Il materialismo concreto del suo sguardo ha la capacità di trascendere regolarmente il fenomeno per raggiungere la spiritualità, che emerge con leggerezza e dolcezza. In effetti, è proprio grazie a questo suo approccio visivo leggero e sensibile che riesce a parlare di temi importanti, delle grandi domande della vita, senza mai cadere nella trappola del patetico e senza mai risultare irrisolto.
Un po’ il contrario di quanto fa, per esempio, il nostro Davide Toffolo, dove il bel disegno e il grande talento sembrano troppo spesso manifestazioni fini a sé stesse dell’ego dell’autore, e dove il patetismo è spinto attraverso un espressionismo simbolico troppo accentuato (si veda, per esempio, Il Re Bianco). Il minimalismo di Taniguchi, con la sua prosaica rappresentazione del quotidiano, nasconde quindi un pensiero grande, allargato, che è per me esemplificativo di quanto sia misterioso il potenziale del fumetto.
In che modo, noi occidentali (al di qua o al di là dell’oceano) ci riconosciamo nel suo immaginario? Quali aspirazioni tocca la sua voce semplice e nascosta?
Il percorso espressivo di Taniguchi sembra porsi come la metafora perfetta della vita in questo caos metropolitano del nuovo millennio, dove per ricongiungersi con se stessi si deve andare alla ricerca del contatto con le foglie di un albero, con il semplice atto del nutrirsi, con il valore spirituale di una passeggiata. È la necessità di una presenza, laddove a dominare la nostra inquietudine giornaliera è l’assenza, il distacco dalle cose e dalla propria natura, dalla propria origine. Sul piano espressivo, il suo approccio mai sopra le righe, la sua cura, e l’apparente assenza di una ricerca formalista (secondo l’idea che ho espresso nelle precedenti puntate) si risolve nell’esatto contrario: ovvero nel ricongiungimento con l’equilibrio formale della spiritualità della quotidianità. Il formalismo di Taniguchi c’è, quindi, eccome, ma su un piano simbolico, a un livello di lettura che non può certo risultare immediato o urlato, ma suggerito, ricostruito, ricercato e che diventa evidente solo sul piano emotivo durante lo svolgimento del racconto.
Per questo motivo, per questo equilibrio sottile, i suoi lavori generano uno strano effetto ipnotico che, tornando per un attimo all’approccio costruttivista, viene colto dalla nostra esperienza di lettura pagina dopo pagina, grazie al modo con cui l’autore sa guidare la nostra attenzione, conducendoci passo a passo nell’osservazione degli oggetti, dei gesti delle persone, nello svolgimento dell’azione, nei percorsi di vita dei personaggi.
Per tutte queste ragioni, quando leggo analisi critiche sulle opere di Taniguchi rimango spesso deluso, perché non vedo in esse la capacità di cogliere davvero le qualità che l’autore possiede. Ed è questo uno dei difetti principali di molte disquisizioni critiche, non certo l’assenza di oggettività, quanto l’assenza di argomentazioni circostanziate e chiare di un punto di vista, di una chiave di lettura che possa essere più o meno accolta e condivisa.
Harry
(fine)

Qui la seconda parte.
Qui la terza parte.
Qui la quarta parte.
Ora la quinta e ultima parte.
Dopo essermi soffermato sulle interessanti possibilità interpretative degli approcci formalisti al fumetto, dopo aver suggerito l’utilità di questi stessi approcci per sviluppare maggior consapevolezza nell’esperienza di lettura e dopo aver constatato la necessità di una visione aperta (al dialogo e allo scambio) della critica sul fumetto, arrivo al mangaka Taniguchi.
Jiro Taniguchi è un autore piuttosto unico nel panorama fumettistico mondiale, uno di quelli che mi disorienta maggiormente. Il suo stile e il suo linguaggio sono molto personali, contaminati e riconoscibili. La sua ricerca lo ha portato a essere, agli occhi dei lettori occidentali, una delle massime espressioni della cultura orientale nel fumetto. I temi che affronta, l’occhio con il quale osserva e rappresenta la vita, la sensibilità nel rintracciare la circolarità e la spiritualità dell’esperienza, sono propri di una cultura altra rispetto alla nostra. Al contempo, tuttavia, Taniguchi sa essere il più europeo degli autori giapponesi, perché la sua sintesi è frutto di una ricerca e di una cultura che ha saputo muoversi spesso oltre confine. È un ponte? Forse si.

In Un cielo radioso (storia di un’anima che si sposta in un altro corpo; storia di riconciliazioni, di amore per la vita, di consapevolezza e spiritualità) l’apparente freddezza delle tavole deriva dalla pulizia del tratto, dall’assenza di tratteggi, dall’uso attento ma continuo di retini, dal realismo esasperato degli ambienti, dove pesa soprattutto la forza geometrica e spigolosa delle architetture che circondano la vita di città. La postura delle persone è misurata, lontana da ogni approccio impressionista o caricaturale (così tipico, invece, di moltissimi manga) e le espressioni corporee sono semplici, definite da piccole variazioni della linea. Le inquadrature sono curatissime e, spesso, silenziose, sottotraccia, non vogliono imporsi con la presenza di scelte impreviste o spiazzanti (proprio come succede, per esempio, in molti fumetti di casa Bonelli). Sul piano simbolico, le scelte stilistiche alle quali ho accennato parlano di un materialismo concettuale lucido, concreto, asettico. È il materialismo della nostra quotidianità.
Dietro questa fredda rappresentazione della vita si nasconde una sensibilità rara. Taniguchi, assumendo come proprio l’esempio di Osamu Tezuka, esplora con abilità le potenzialità del fumetto attraversando trasversalmente i generi. Ogni suo nuovo lavoro affronta una tematica narrativa differente, eppure le ossessioni che lo dominano sono sempre le stesse. In La ragazza scomparsa, l’autore assume il pretesto della tragedia familiare per raccontare della montagna, della scalata, del rapporto dell’uomo con l’assoluto e con la fiducia. Il materialismo concreto del suo sguardo ha la capacità di trascendere regolarmente il fenomeno per raggiungere la spiritualità, che emerge con leggerezza e dolcezza. In effetti, è proprio grazie a questo suo approccio visivo leggero e sensibile che riesce a parlare di temi importanti, delle grandi domande della vita, senza mai cadere nella trappola del patetico e senza mai risultare irrisolto.

In che modo, noi occidentali (al di qua o al di là dell’oceano) ci riconosciamo nel suo immaginario? Quali aspirazioni tocca la sua voce semplice e nascosta?
Il percorso espressivo di Taniguchi sembra porsi come la metafora perfetta della vita in questo caos metropolitano del nuovo millennio, dove per ricongiungersi con se stessi si deve andare alla ricerca del contatto con le foglie di un albero, con il semplice atto del nutrirsi, con il valore spirituale di una passeggiata. È la necessità di una presenza, laddove a dominare la nostra inquietudine giornaliera è l’assenza, il distacco dalle cose e dalla propria natura, dalla propria origine. Sul piano espressivo, il suo approccio mai sopra le righe, la sua cura, e l’apparente assenza di una ricerca formalista (secondo l’idea che ho espresso nelle precedenti puntate) si risolve nell’esatto contrario: ovvero nel ricongiungimento con l’equilibrio formale della spiritualità della quotidianità. Il formalismo di Taniguchi c’è, quindi, eccome, ma su un piano simbolico, a un livello di lettura che non può certo risultare immediato o urlato, ma suggerito, ricostruito, ricercato e che diventa evidente solo sul piano emotivo durante lo svolgimento del racconto.
Per questo motivo, per questo equilibrio sottile, i suoi lavori generano uno strano effetto ipnotico che, tornando per un attimo all’approccio costruttivista, viene colto dalla nostra esperienza di lettura pagina dopo pagina, grazie al modo con cui l’autore sa guidare la nostra attenzione, conducendoci passo a passo nell’osservazione degli oggetti, dei gesti delle persone, nello svolgimento dell’azione, nei percorsi di vita dei personaggi.
Per tutte queste ragioni, quando leggo analisi critiche sulle opere di Taniguchi rimango spesso deluso, perché non vedo in esse la capacità di cogliere davvero le qualità che l’autore possiede. Ed è questo uno dei difetti principali di molte disquisizioni critiche, non certo l’assenza di oggettività, quanto l’assenza di argomentazioni circostanziate e chiare di un punto di vista, di una chiave di lettura che possa essere più o meno accolta e condivisa.
Harry
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