Qui la prima parte.
Qui la seconda parte.
Qui la terza parte.
Qui la quarta parte.
Ora la quinta e ultima parte.
Dopo essermi soffermato sulle interessanti possibilità interpretative degli approcci formalisti al fumetto, dopo aver suggerito l’utilità di questi stessi approcci per sviluppare maggior consapevolezza nell’esperienza di lettura e dopo aver constatato la necessità di una visione aperta (al dialogo e allo scambio) della critica sul fumetto, arrivo al mangaka Taniguchi.
Jiro Taniguchi è un autore piuttosto unico nel panorama fumettistico mondiale, uno di quelli che mi disorienta maggiormente. Il suo stile e il suo linguaggio sono molto personali, contaminati e riconoscibili. La sua ricerca lo ha portato a essere, agli occhi dei lettori occidentali, una delle massime espressioni della cultura orientale nel fumetto. I temi che affronta, l’occhio con il quale osserva e rappresenta la vita, la sensibilità nel rintracciare la circolarità e la spiritualità dell’esperienza, sono propri di una cultura altra rispetto alla nostra. Al contempo, tuttavia, Taniguchi sa essere il più europeo degli autori giapponesi, perché la sua sintesi è frutto di una ricerca e di una cultura che ha saputo muoversi spesso oltre confine. È un ponte? Forse si.
Per il sottoscritto, Taniguchi è un continuo esempio di ambiguità e ambivalenza. Visto da un punto di vista superficiale, il suo fumetto non mi piace. Sfogliare i suoi libri mi lascia indifferente. Non c’è un particolare che colpisca la mia curiosità, non il suo tratto, non la costruzione complessiva della tavola, non la modalità con la quale traccia le linee. Eppure, avviata la lettura, tutti quegli elementi assumono un significato diverso, in funzione della storia. I disegni, che in apparenza risultano freddi e statici, subiscono una metamorfosi al punto da diventare perfetti veicoli per le emozioni della storia. C’è un’apparenza, in Taniguchi, che viene costantemente contraddetta dalla sostanza. Mi è capitato più volte di sentire commenti (di comuni lettori) che criticano aspramente il suo stile, quel realismo gelido che traspare in molte tavole. Comprendo questo punto di vista, ma solo superficialmente, prima cioè di essere accolto dal profondo calore e dalla spiccata umanità dei suoi racconti.
In Un cielo radioso (storia di un’anima che si sposta in un altro corpo; storia di riconciliazioni, di amore per la vita, di consapevolezza e spiritualità) l’apparente freddezza delle tavole deriva dalla pulizia del tratto, dall’assenza di tratteggi, dall’uso attento ma continuo di retini, dal realismo esasperato degli ambienti, dove pesa soprattutto la forza geometrica e spigolosa delle architetture che circondano la vita di città. La postura delle persone è misurata, lontana da ogni approccio impressionista o caricaturale (così tipico, invece, di moltissimi manga) e le espressioni corporee sono semplici, definite da piccole variazioni della linea. Le inquadrature sono curatissime e, spesso, silenziose, sottotraccia, non vogliono imporsi con la presenza di scelte impreviste o spiazzanti (proprio come succede, per esempio, in molti fumetti di casa Bonelli). Sul piano simbolico, le scelte stilistiche alle quali ho accennato parlano di un materialismo concettuale lucido, concreto, asettico. È il materialismo della nostra quotidianità.
Dietro questa fredda rappresentazione della vita si nasconde una sensibilità rara. Taniguchi, assumendo come proprio l’esempio di Osamu Tezuka, esplora con abilità le potenzialità del fumetto attraversando trasversalmente i generi. Ogni suo nuovo lavoro affronta una tematica narrativa differente, eppure le ossessioni che lo dominano sono sempre le stesse. In La ragazza scomparsa, l’autore assume il pretesto della tragedia familiare per raccontare della montagna, della scalata, del rapporto dell’uomo con l’assoluto e con la fiducia. Il materialismo concreto del suo sguardo ha la capacità di trascendere regolarmente il fenomeno per raggiungere la spiritualità, che emerge con leggerezza e dolcezza. In effetti, è proprio grazie a questo suo approccio visivo leggero e sensibile che riesce a parlare di temi importanti, delle grandi domande della vita, senza mai cadere nella trappola del patetico e senza mai risultare irrisolto.
Un po’ il contrario di quanto fa, per esempio, il nostro Davide Toffolo, dove il bel disegno e il grande talento sembrano troppo spesso manifestazioni fini a sé stesse dell’ego dell’autore, e dove il patetismo è spinto attraverso un espressionismo simbolico troppo accentuato (si veda, per esempio, Il Re Bianco). Il minimalismo di Taniguchi, con la sua prosaica rappresentazione del quotidiano, nasconde quindi un pensiero grande, allargato, che è per me esemplificativo di quanto sia misterioso il potenziale del fumetto.
In che modo, noi occidentali (al di qua o al di là dell’oceano) ci riconosciamo nel suo immaginario? Quali aspirazioni tocca la sua voce semplice e nascosta?
Il percorso espressivo di Taniguchi sembra porsi come la metafora perfetta della vita in questo caos metropolitano del nuovo millennio, dove per ricongiungersi con se stessi si deve andare alla ricerca del contatto con le foglie di un albero, con il semplice atto del nutrirsi, con il valore spirituale di una passeggiata. È la necessità di una presenza, laddove a dominare la nostra inquietudine giornaliera è l’assenza, il distacco dalle cose e dalla propria natura, dalla propria origine. Sul piano espressivo, il suo approccio mai sopra le righe, la sua cura, e l’apparente assenza di una ricerca formalista (secondo l’idea che ho espresso nelle precedenti puntate) si risolve nell’esatto contrario: ovvero nel ricongiungimento con l’equilibrio formale della spiritualità della quotidianità. Il formalismo di Taniguchi c’è, quindi, eccome, ma su un piano simbolico, a un livello di lettura che non può certo risultare immediato o urlato, ma suggerito, ricostruito, ricercato e che diventa evidente solo sul piano emotivo durante lo svolgimento del racconto.
Per questo motivo, per questo equilibrio sottile, i suoi lavori generano uno strano effetto ipnotico che, tornando per un attimo all’approccio costruttivista, viene colto dalla nostra esperienza di lettura pagina dopo pagina, grazie al modo con cui l’autore sa guidare la nostra attenzione, conducendoci passo a passo nell’osservazione degli oggetti, dei gesti delle persone, nello svolgimento dell’azione, nei percorsi di vita dei personaggi.
Per tutte queste ragioni, quando leggo analisi critiche sulle opere di Taniguchi rimango spesso deluso, perché non vedo in esse la capacità di cogliere davvero le qualità che l’autore possiede. Ed è questo uno dei difetti principali di molte disquisizioni critiche, non certo l’assenza di oggettività, quanto l’assenza di argomentazioni circostanziate e chiare di un punto di vista, di una chiave di lettura che possa essere più o meno accolta e condivisa.
Harry
(fine)
Qui la seconda parte.
Qui la terza parte.
Qui la quarta parte.
Ora la quinta e ultima parte.
Dopo essermi soffermato sulle interessanti possibilità interpretative degli approcci formalisti al fumetto, dopo aver suggerito l’utilità di questi stessi approcci per sviluppare maggior consapevolezza nell’esperienza di lettura e dopo aver constatato la necessità di una visione aperta (al dialogo e allo scambio) della critica sul fumetto, arrivo al mangaka Taniguchi.
Jiro Taniguchi è un autore piuttosto unico nel panorama fumettistico mondiale, uno di quelli che mi disorienta maggiormente. Il suo stile e il suo linguaggio sono molto personali, contaminati e riconoscibili. La sua ricerca lo ha portato a essere, agli occhi dei lettori occidentali, una delle massime espressioni della cultura orientale nel fumetto. I temi che affronta, l’occhio con il quale osserva e rappresenta la vita, la sensibilità nel rintracciare la circolarità e la spiritualità dell’esperienza, sono propri di una cultura altra rispetto alla nostra. Al contempo, tuttavia, Taniguchi sa essere il più europeo degli autori giapponesi, perché la sua sintesi è frutto di una ricerca e di una cultura che ha saputo muoversi spesso oltre confine. È un ponte? Forse si.
Per il sottoscritto, Taniguchi è un continuo esempio di ambiguità e ambivalenza. Visto da un punto di vista superficiale, il suo fumetto non mi piace. Sfogliare i suoi libri mi lascia indifferente. Non c’è un particolare che colpisca la mia curiosità, non il suo tratto, non la costruzione complessiva della tavola, non la modalità con la quale traccia le linee. Eppure, avviata la lettura, tutti quegli elementi assumono un significato diverso, in funzione della storia. I disegni, che in apparenza risultano freddi e statici, subiscono una metamorfosi al punto da diventare perfetti veicoli per le emozioni della storia. C’è un’apparenza, in Taniguchi, che viene costantemente contraddetta dalla sostanza. Mi è capitato più volte di sentire commenti (di comuni lettori) che criticano aspramente il suo stile, quel realismo gelido che traspare in molte tavole. Comprendo questo punto di vista, ma solo superficialmente, prima cioè di essere accolto dal profondo calore e dalla spiccata umanità dei suoi racconti.
In Un cielo radioso (storia di un’anima che si sposta in un altro corpo; storia di riconciliazioni, di amore per la vita, di consapevolezza e spiritualità) l’apparente freddezza delle tavole deriva dalla pulizia del tratto, dall’assenza di tratteggi, dall’uso attento ma continuo di retini, dal realismo esasperato degli ambienti, dove pesa soprattutto la forza geometrica e spigolosa delle architetture che circondano la vita di città. La postura delle persone è misurata, lontana da ogni approccio impressionista o caricaturale (così tipico, invece, di moltissimi manga) e le espressioni corporee sono semplici, definite da piccole variazioni della linea. Le inquadrature sono curatissime e, spesso, silenziose, sottotraccia, non vogliono imporsi con la presenza di scelte impreviste o spiazzanti (proprio come succede, per esempio, in molti fumetti di casa Bonelli). Sul piano simbolico, le scelte stilistiche alle quali ho accennato parlano di un materialismo concettuale lucido, concreto, asettico. È il materialismo della nostra quotidianità.
Dietro questa fredda rappresentazione della vita si nasconde una sensibilità rara. Taniguchi, assumendo come proprio l’esempio di Osamu Tezuka, esplora con abilità le potenzialità del fumetto attraversando trasversalmente i generi. Ogni suo nuovo lavoro affronta una tematica narrativa differente, eppure le ossessioni che lo dominano sono sempre le stesse. In La ragazza scomparsa, l’autore assume il pretesto della tragedia familiare per raccontare della montagna, della scalata, del rapporto dell’uomo con l’assoluto e con la fiducia. Il materialismo concreto del suo sguardo ha la capacità di trascendere regolarmente il fenomeno per raggiungere la spiritualità, che emerge con leggerezza e dolcezza. In effetti, è proprio grazie a questo suo approccio visivo leggero e sensibile che riesce a parlare di temi importanti, delle grandi domande della vita, senza mai cadere nella trappola del patetico e senza mai risultare irrisolto.
Un po’ il contrario di quanto fa, per esempio, il nostro Davide Toffolo, dove il bel disegno e il grande talento sembrano troppo spesso manifestazioni fini a sé stesse dell’ego dell’autore, e dove il patetismo è spinto attraverso un espressionismo simbolico troppo accentuato (si veda, per esempio, Il Re Bianco). Il minimalismo di Taniguchi, con la sua prosaica rappresentazione del quotidiano, nasconde quindi un pensiero grande, allargato, che è per me esemplificativo di quanto sia misterioso il potenziale del fumetto.
In che modo, noi occidentali (al di qua o al di là dell’oceano) ci riconosciamo nel suo immaginario? Quali aspirazioni tocca la sua voce semplice e nascosta?
Il percorso espressivo di Taniguchi sembra porsi come la metafora perfetta della vita in questo caos metropolitano del nuovo millennio, dove per ricongiungersi con se stessi si deve andare alla ricerca del contatto con le foglie di un albero, con il semplice atto del nutrirsi, con il valore spirituale di una passeggiata. È la necessità di una presenza, laddove a dominare la nostra inquietudine giornaliera è l’assenza, il distacco dalle cose e dalla propria natura, dalla propria origine. Sul piano espressivo, il suo approccio mai sopra le righe, la sua cura, e l’apparente assenza di una ricerca formalista (secondo l’idea che ho espresso nelle precedenti puntate) si risolve nell’esatto contrario: ovvero nel ricongiungimento con l’equilibrio formale della spiritualità della quotidianità. Il formalismo di Taniguchi c’è, quindi, eccome, ma su un piano simbolico, a un livello di lettura che non può certo risultare immediato o urlato, ma suggerito, ricostruito, ricercato e che diventa evidente solo sul piano emotivo durante lo svolgimento del racconto.
Per questo motivo, per questo equilibrio sottile, i suoi lavori generano uno strano effetto ipnotico che, tornando per un attimo all’approccio costruttivista, viene colto dalla nostra esperienza di lettura pagina dopo pagina, grazie al modo con cui l’autore sa guidare la nostra attenzione, conducendoci passo a passo nell’osservazione degli oggetti, dei gesti delle persone, nello svolgimento dell’azione, nei percorsi di vita dei personaggi.
Per tutte queste ragioni, quando leggo analisi critiche sulle opere di Taniguchi rimango spesso deluso, perché non vedo in esse la capacità di cogliere davvero le qualità che l’autore possiede. Ed è questo uno dei difetti principali di molte disquisizioni critiche, non certo l’assenza di oggettività, quanto l’assenza di argomentazioni circostanziate e chiare di un punto di vista, di una chiave di lettura che possa essere più o meno accolta e condivisa.
Harry
(fine)
Anche liquidare così Toffolo in due righe non rende giustizia a certi capolavori dell'autore nostrano e appare un'argomentazione non sufficientemente circostanziata. Per il resto è un articolo interessante.
RispondiEliminasu toffolo tornerò.
RispondiEliminaquali capolavori?!
harry
Ritengo Intervista a Pasolini e i due lavori con Mattioli (Piera degli Spiriti, ma in particolare Animali) grandi prove d'autore. E anche Carnera ha un suo perché.
RispondiEliminasu una cosa hai ragione. non si può liquidare toffolo in due righe. e non era mia intenzione. per me il punto nodale era taniguchi. e trovo utile confrontare i due autori, per sentire la leggerezza profonda di taniguchi, come arrivi a parlare al cuore del lettore senza patetismi. cosa che, a mio avviso a toffolo non riesce.
RispondiEliminama toffolo liquidato in due righe, no. e tornerò a parlarne, magari in occasione dell'uscita del libro su magnus sul quale sta lavorando.
però, intervista a pasolini ha buoni momenti, ma non è riuscito, secondo me.
e i due lavori con mattioli sono... fragili. si capisce la ricerca, l'intenzione, ma risentono pesantemente del tempo che passa.
harry
mmm... secondo me del buon Toffolo è stato molto sottovalutato Très. Magari aspettando Magnus puoi dargli una possibilità ;-)
RispondiEliminabaci,
c.
ecco, très è un lavoro interessante.
RispondiEliminail suo lavoro più "politico", nato da una riuscita improvvisazione creativa durante la prima 24 hour italy comics. ed è anche il meno narrativo e il meno strettamente centrato sull'autore.
non so se sia sottovalutato, ma certo è il meno prevedibile.
ciao claudio.
harry
Su Taniguchi comunque ritengo valido il testo di Grilli edito da Tunué... se non gli hai dato un'occhiata, ne vale la pena.
RispondiEliminaUn punto non mi convince e cioé l'idea che il formalismo sia anche "manierismo" (quello che ad esempio imputi a Toffolo io lo definerei così). Per me sono due cose diverse.
RispondiEliminaChris Ware si iscrive in una tradizione precisa, che è nel dna del fumetto. Una tradizione di riscrittura costante delle proprie possibilità espressive già presente in autori di 70 anni fa come Messmer o McCay. La sperimentazione della forma passa per un rapporto di complicità con il lettore, che deve accettare di mettersi in gioco per interpretare le invenzioni visive del racconto.
Diverso, a mio modesto parere, il discorso per Toffolo o Tanigughi in cui la ricerca è pù sul tratto grafico che non sul racconto fumettistico in senso complessivo. Qui al lettore non si chiede tanto complicità, quanto disponibilità "all'ascolto" di una voce originale, fuori dal coro. Mi sembra che la sperimentazione delle forme sia più limitata. E' più in effetti un discorso "di maniera".
Sia chiaro non ne faccio una questione estetica (anche io trovo che Tanigughi sia straordinario), ma di potenzialità espressive.
Marco
@ sonostorie: il tuo punto è chiarissimo. intendiamoci, non credo che il "manierismo" di toffolo abbia nulla a che fare con il formalismo. e mi rendo conto che aver citato l'autore così velocemente ha creato più confusione che chiarezza. credo al contrario che taniguchi abbia un formalismo celato, meno evidente, che emerge vignetta dopo vignetta. e in questo, l'autore mostra la sua grandezza. anche per jiro ci vuole complicità, una complicità che definirei esistenziale.
RispondiEliminaharry