giovedì 30 giugno 2011

Dylan Dog - Nella testa di Gualdoni



 copertina di dylan dog 298, di angelo stano


Uno degli aspetti più riusciti dell’ultimo Dylan Dog Color Fest, quello tutto al femminile, è stata l’assenza alle sceneggiature di Giovanni Gualdoni, attuale curatore della testata di Dylan.
Finora, le sue prove, tutte limitate a storie brevi, sono state incolori e intrise di una retorica vetero-sclaviana irritante. Sbagliati i tempi, sbagliati i modi, sbagliata la visione complessiva sul personaggio e le sue dinamiche narrative. Sorprende quindi il suo ruolo in redazione, ma è pur vero che un bravo supervisore (o editor) non deve per forza essere anche un bravo sceneggiatore di quella stessa serie (non tutti si chiamano Renato Queirolo).

Gualdoni ha una storia editoriale più lunga, che non si riduce solo alla Bonelli, e con alcune prove riuscite. Ma in seno all’editore milanese, ha trovato una sua collocazione e una professione indubbiamente invidiabile. Ero certo che non avremmo tardato a leggere una sua storia lunga sul mensile. E ne aspettavo l’uscita con curiosità. Non tutti gli sceneggiatori sono abili nello scrivere storie brevi. I Trillo, i Pazienza, i Tezuka, i Berardi… veri assi della narrazione breve, sono pochi. La forma breve, nel fumetto, si riduce spesso a semplice divertissement, soprattutto in casa Bonelli. Ma con 96 pagine davanti a sé, quel numero magico e maledetto del formato quaderno, non si può ingannare nessuno, ed emerge più chiaramente la presa sul personaggio da parte dello sceneggiatore.

Ebbene, Gualdoni la realizza, la sua prima storia lunga su Dylan Dog, e il risultato è lì da vedersi, appoggiato al bancone del bar della stazione dove ho abbandonato il fumetto. Se capiti in zona, potresti ancora trovarlo, con un mio saluto in seconda di copertina.
Nella testa del killer, 298° uscita, è una storia piatta, senza mordente, un horror esistenziale che non spaventa, condotto in modo scolastico, attraverso una sceneggiatura senza alcun guizzo. Tutto, in questa storia, è vecchio, dalla caratterizzazione del protagonista, alla messa in scena del ribaltamento narrativo, all’esigenza di esplicitare tutto, tutto quello che accade. Gualdoni non lascia nemmeno per un attimo il lettore nello smarrimento di capire chi è chi, in questo sciocco gioco delle parti a cui il povero Dylan deve sottomettersi.
E poi, il protagonista della testata è assente. Cioè, è lì a occupare spazio nelle vignette tavola dopo tavola, ma non se ne capisce il motivo, non ha una collocazione, non ha un movimento, una funzione.
Ecco, per capire cosa intendo esattamente per il genere Dylan Dog, devi leggere questa storia di Gualdoni, perché è lì, appoggiata al bancone di un bar della stazione, che si sviluppa il bigino della narrazione derivativa, meccanica, prodotta per rimasticazione di cliché. Il genere, nelle sue pieghe più negative, è vuota forma riproposta all’infinito. Di questo, di questa semplificazione e banalizzazione è vittima il povero Dylan.
Tutto molto horror, e molto sovrannaturale. 

Harry

mercoledì 29 giugno 2011

Il buono, il brutto e il cattivo - libere associazioni sull'estetica horror


Esiste qualcosa come un’estetica horror.

Ma le estetiche cambiano nel tempo e con il tempo. Recentemente, per mia sfortuna, sono incappato nel prequel Non aprite quella porta, l'inizio che ho trovato fuorviante. Più che estetica horror, sembrava estetismo da videoclip: nella messa in scena, nell’abbigliamento fintamente vintage dei protagonisti, nei loro sguardi belli e vuoti, nella regia, che si ostinava a seguire il culo delle protagoniste nelle fughe, in un (finto) contrasto con la bruttezza (posticcia) dell’assassino.


estetica horror da fondoschiena: non aprite quella porta

Il bello a contrasto dell’orrore c’è sempre stato. È uno schema comune quanto abusato. Anche banalizzato (come nell’esempio del film). Eppure, questo antagonismo ricalca un principio universale: la salute e la giovinezza associati alla bellezza, in contrasto con la malattia e la vecchiaia per la bruttezza, la deformità. In effetti, la bellezza risponde al principio dell’equilibrio, della conservazione e dell’omeostasi. L’abbruttimento a quello della corruzione e della morte. Niente muta le strutture quanto la putrefazione.
Da qui, derivano due atteggiamenti nevrotici interconnessi tanto comuni nella nostra società: l’attaccamento a tutti i costi a un’ideale di bellezza etero-diretto (e imposto), con le sue tante derive patologiche quali il continuo ricorso alla chirurgia estetica; il rifiuto e il terrore per qualunque cosa che si discosti dall’ideale di bellezza, o di diverso da un preciso canone.

Da un punto di vista psicologico, bellezza e orrore si possono facilmente collegare al concetto di ombra espresso da Jung, e di cui, sul piano narrativo, Louis Stevenson ci ha dato una perfetta e insuperata rappresentazione in Dottor Jekyll e Mister Hyde. La deformità di Mister Hyde (la nostra ombra nascosta) è proporzionale alla sua perversione, contaminazione morale. E qui, un nuovo collegamento. Al bello è associato il giusto e il puro, su un piano morale.

dottor jekyll e mister hyde nell'interpretazione grafica di mattotti

Bellezza e saggezza hanno anche un principio biologico: la rabbia, la tristezza, la paura, l’angoscia deformano l’espressione del viso e piegano il corpo; la gioia e la pace d’animo accendono il sorriso ed elevano il corpo.

Nel fumetto, che vive di semplificazioni visive e iconiche, la rappresentazione del male e dell’orrore è spesso associata a caratterizzazioni dei personaggi coerenti con il principio di cui sopra. E sorprendono ancora oggi esempi che contrastano con questa legge: la perversione e il male nascosti dietro a volti angelici, puliti, apparentemente puri. Infrangere la regola vuol dire utilizzare la tecnica della sorpresa, della mistificazione, della finzione.

C’è un principio ulteriore nell’orrore nascosto dietro al bello. Quello del distacco. Un essere corrotto, per mantenere una sembianza bella, incontaminata deve distaccarsi dalle emozioni che si collegano all’orrore e al male. Queste figure sono spesso rappresentate come inespressive, gelide, se non enigmatiche. Un maestro dell’ambiguità (morale e nella caratterizzazione dei personaggi) è Naoki Urasawa. Monster, che al momento considero la sua opera più appassionante, è piana di personaggi di questo tipo, sia maschili che femminili, coerentemente con il mistero che sottende la narrazione e l’ambiguità dei comportamenti.

naoki urasawa: buono o cattivo?


Al contrario, in Tex della Bonelli, serie che non è certo nota per il suo approccio iconoclasta, i cattivi sono spesso rappresentati in modo tradizionale: brutti, sporchi e cattivi. Un approccio di cui a suo tempo si lamentò Gianfranco Manfredi, in occasione della sua collaborazione con Miguel Angel Repetto, colpevole a suo dire di rappresentare i personaggi secondo questi principi che lo sceneggiatore definisce cliché. Non è un caso, quindi, se il protagonista negativo dell’ultimo lavoro di Manfredi su Tex (nel Texone attualmente in edicola) è rappresentato come un uomo bello, pulito, e… enigmatico.

copertina del max tex di manfredi e repetto

L’horror, tuttavia, ha un arma in più. Collegandosi spesso al metafisico, se non al fantasy, e comunque a un’idea dell’esistenza che non si limita solo a quanto è concretamente visibile, le manifestazioni del male (e la loro rappresentazione) possono giocare con il grottesco, con l’estremo. Basta riprendere in mano le classiche storie horror della EC Comics per osservarne una carrellata. Sono, questi, fumetti seminali, perché definiscono davvero un’estetica specifica, piegando tecnica e ideazione visiva degli autori alle esigenze narrative che sfoceranno, in particolare nella fase di apice delle pubblicazioni, in esagerazioni discutibili sul piano dei risultati narrativi ma senza dubbio potenti e consistenti. È a questa tradizione che si ricollegano per esempio Alan Moore e Steve Bissette nella creazione delle prime storie di Swamp Thing, così come Charles Burns nel suo capolavoro horror Black Hole. L’estetica EC Comics, per quanto disomogenea come ci si potrebbe aspettare visto i numerosi talenti che vi hanno collaborato, a mio avviso può essere sintetizzata in tre concetti: freddezza e distacco; deformità; ribaltamento dei punti di vista.


alan moore e steve bissette: swamp thing

A questa tradizione, commista a un’attenta rilettura di una specifica ricerca horror giapponese e a un segno che sembra avere legami stretti con certa tradizione italiana (Magnus su tutti), sembra rifarsi Ratigher nel suo Trama, un lavoro che gioca sul luogo comune e sulla contaminazione delle coscienze. In attesa di approfondire Trama, ti lascio con un videoclip horror inaspettato e riuscito, che perfettamente riflette su quanto ho parlato qui: bellezza, corruzione del corpo, inquietudine e ambiguità. La canzone è Istrice dei Subsonica, il regista è Cosimo Alemà.



Harry

martedì 28 giugno 2011

I generi si inseguono - Dylan Dog a la maniera di Vinci


Dylan Dog è diventato un genere. Succede al fumetto seriale. Un meccanismo che è possibile vedere esclusivamente in certo fumetto, con la sua ripetizione infinita dalla cadenza mensile, ma che raramente appartiene ad altre forme di comunicazione (nemmeno i telefilm, dalla vita più breve e ciclica. Nemmeno certa letteratura di maniera). Ecco, in questa ritualità capita che una serie diventi essa stessa genere. Dylan Dog a maggior ragione, con i suoi epigoni passati. Ma in particolare, osserviamo una sorta di centratura auto-referenziale, che si rivolge ai propri lettori, al famoso zoccolo duro, con la rassicurazione del già noto; che impone agli autori un linguaggio e un sguardo interno, che comprime e per certi versi rimastica il reale in un modo che non sarebbe possibile al di fuori di esso (tanto che autori anche validi risultano illeggibili alla prova con un particolare personaggio e, specularmente, autori con poco o nulla da dire possono cavarsela con un po’ di sano mestiere).

Diventa difficile, da questo punto di vista, capire se Dylan Dog oggi sia un fumetto horror, o se sia semplicemente un fumetto a la Dylan Dog. Per estensione, non è quindi facile capire se le singole storie che ne raccontano le vicende mese dopo mese dopo mese, che per necessità appartengono al genere Dylan Dog, appartengano anche automaticamente al genere horror.

Lo so che ti sto confondendo. Ma la spirale prosegue. Se leggi l’interpretazione che Vanna Vinci dà di Dylan Dog nel Color Fest del mese scorso, succede qualcosa di speciale, e al contempo di semplicissimo: Vinci si adegua al genere derivativo (Dylan Dog) soddisfacendo il genere originario (horror) attraverso il suo stile personale che, per come è condotta la storia in questo specifico caso, sembra a sua volta un genere (Vinci). È il gioco degli specchi, che nasconde una domanda interessante quanto di difficile soluzione: come nasce un genere? Quando nasce un genere? Come si collegano i diversi stili al genere? Come si armonizza il rapporto tra ripetizione e innovazione?

Vinci aveva già realizzato alcuni lavori per Bonelli, ma questo Dylan Dog è la prima occasione che l’autrice di origini sarde ha per utilizzare appieno il proprio stile. Perché il Color Fest è un fuori collana aperto a impostazioni diverse. Vinci lo sa, ed è magistrale. In senso letterale, è come se l’autrice fosse salita in cattedra per mostrare come si fa una storia alla sua maniera, senza tradire, anzi esaltando i tratti propri del personaggio e dell’horror (un horror malinconico e romantico, decadente). Purtroppo, La villa degli amanti è anche, soltanto, un ottimo esercizio di stile. Non c’è cuore. C’è amore, per un lavoro che l’autrice ha affrontato senza dubbio come una nuova sfida. Ma pesa troppo il formato, e l’effetto commissione, che conduce al mestiere. Insomma, c’è perizia, densità artistica, ma non intensità emotiva. In particolare, chi conosce il genere Vinci, percorso e ripercorso nei suoi tanti racconti per Kappa Edizioni, ritroverà in questa storia la stessa ironia e gli stessi interessi, il medesimo gusto per la linea e la costruzione della tavola, la vitalità espressiva ma triste dei volti, i tratti somatici dei suoi personaggi, … In un’operazione di mimesi e di equilibrismo, frutto della sensibilità che contraddistingue da sempre l’autrice, Dylan Dog è il suo personaggio tanto quanto l’icona popolare, la storia è una sua storia quanto facilmente inseribile nei classici della serie, e così via. L’esperimento riesce su un piano estetico e decorativo, perché frutto di una fusione stilistica (di genere?) intelligente e, per certi versi, provocatoria. Fallisce su un piano più strettamente espressivo, in quanto Vinci non riesce a offrire reale coinvolgimento e non va oltre un gustoso manierismo. Purtroppo, sono convinto che ai lettori di Dylan Dog serva altro, qualcosa che ne svegli il torpore ormai decennale. Qualcosa che tolga loro dalla faccia quel sorrisetto compiaciuto che deriva dalla rassicurazione di quanto accade, dalla prevedibilità. Anche se sospetto che molti lettori fedeli, fedelissimi, abbiano storto il naso al canone Vinci.

Harry




 
 
tutti le tavole sono di vanna vinci

lunedì 27 giugno 2011

Disfunzioni familiari e di genere



Credo che ognuno di noi abbia esperienza diretta o indiretta di meccanismi da famiglia disfunzionale. Credo anzi che il concetto di malfunzionamento sia implicito al concetto stesso di famiglia. Le relazioni obbligate e i rapporti di potere (genitore/bambino, fratelli minori/maggiori, eredità degli antenati, ecc.) mettono in atto ricatti, sensi di colpa, segreti che non possono che generare dolore. L’amore su cui dovrebbero basarsi le relazioni familiari è spesso un’illusione, se non un’espressione chiara dell’attaccamento patologico e della dipendenza reciproca.
Non dovremmo sorprenderci quindi per i tanti, inaccettabili delitti intra-familiari di cui la cronaca nera è piena (soprattutto in estate, ma la curva si sta spaventosamente allargando); soprattutto non dovremmo sorprenderci del potere ipnotico che questi delitti hanno sulle persone. Ne siamo spaventati e attratti allo stesso tempo. Senza il distacco che deriva da un po’ di consapevolezza, inoltre, è possibile convincersi che i tempi sono peggiori di sempre, che la paura è giustificata, e che è impossibile non vivere in una costante apprensione sociale. Il grande imbonitore televisivo lo sa. Vittima e carnefice si confondono e diventano una cosa sola.

Di dolori familiari sono pieni il genere horror e noir. Prima ancora il folklore e la cultura orale. Possiamo dire che siano il primo nutrimento della letteratura popolare, insieme alle credenze religiose. E in questo filone si inserisce anche il lavoro di Denise Mina, in Una malattia di famiglia, pubblicato in una sottoetichetta da DC Comics in USA e in Italia da Panini Comics. Mina è stata sceneggiatrice già dell’orrorifico Hellblazer (di un ciclo non certo memorabile, schiacciata per di più dal confronto con gli altri ottimi autori che l’hanno preceduta e seguita – Ennis, Ellis, Milligan, Azzarello e i seminali Moore e Delano), ma non è facile per me comprendere la sua cifra stilistica. Una malattia di famiglia, in ogni caso, è un fumetto di genere esemplare, congeniato in modo limpido, schematico e fedele. La fedeltà di Mina mette al riparo dal rischio del fallimento, sia sul piano della comprensione da parte del pubblico, che sul piano dell’appartenenza al genere stesso. Mina non rischia, insomma. Ma lo schematismo di Una malattia di famiglia si traduce alla fine in prevedibilità e freddezza. Non so dire se ci sia del talento vero, in queste tavole (e mi riferisco anche al lavoro professionale ma senza guizzi del disegnatore Antonio Fuso), e non riesco nemmeno rintracciare emozioni autentiche. La famiglia disfunzionale rappresentata nella storia si muove per stereotipi e necessità esclusivamente narrative. Il che non vuol dire che Mina non sia abile e non sappia creare momenti di tensione e di pathos. Ma è troppo, troppo alta la richiesta del genere perché il suo tentativo convinca appieno.
                                                     2 tavole da una malattia di famiglia, di mina e fuso


Il nocciolo importante, a mio avviso, del rapporto di un’opera con i generi fumettistici (e letterari, e musicali, e cinematografici, e…) è quanto si sia disposti a forzare il genere stesso, e quanto si sia capaci di mettere la vita vera nella finzione, nella cornice fittizia che il genere impone. Certo è che, nella mia mente, ha lasciato tracce ben più inquietanti la disfunzionalità della famiglia reale descritta da David Small nel suo Stitches (Rizzoli/Lizard) che nel racconto di Denise Mina. E questo, non certo, o non solo, per effetto del maggior grado di realismo o di verità contenuto in Stitches (non dimentichiamo che ogni autobiografia è essa stessa un’opera di finzione, filtrata dal punto di vista del narratore). Quanto piuttosto per l’acutezza dello sguardo e l’efficacia visiva e ideativa che la sorregge.


                                                         una tavola da stitches, di david small


Insomma, quel che manca a Una malattia di famiglia è l’imprevisto che si stacchi dalla cornice narrativa di riferimento, in modo che la figura risalti sopra a uno sfondo troppo prevedibile. Ma il rapporto tra innovazione e genere merita un ulteriore approfondimento. Ne parlo a breve, partendo dal Dylan Dog di Vanna Vinci.

Harry

giovedì 23 giugno 2011

L'impossibile critica 3 (bis)


Sono passati due mesi dall'ultima puntata pubblicata dell'Impossibile Critica, il viaggio di harrydice... sullo speculare dell'approccio critico al fumetto. In quell'ultima puntata, avevo parlato di Industria culturale, di fumetto/gadget e della critica come strumento per indurre l'acquisto. Di qualcosa di simile parla Simone Rastelli su LoSpazioBianco.it in un articolo sintetico e potente.
Lo segnalo perché è un perfetto corollario all'Impossibile Critica, e perché di questa è in qualche modo controcanto.
Ecco il passo più importante per me, e anche più controverso, passo che esemplifica in modo perfetto il concetto di critica come induzione all'acquisto, che è uno dei più comuni punti di vista sulla pratica della critica fumettistica italiana:

Una critica è autorevole nella misura in cui è influente; ed è influente nella misura in cui è autorevole. Ancora lo ripetiamo: autorevolezza è sinonimo di capacità di influenzare le scelte. [...] Dal punto di vista della relazione con il mercato, se un articolo smuove le vendite, quell’articolo è autorevole; se un critico riesce a promuovere un autore, quel critico è autorevole. Se “autorevole” suona troppo impegnativo, possiamo sostituirlo con “significativo”. Anzi, nel approccio di questo discorso, l’aggettivo appropriato è “influente”.



Ma leggi tutto l'articolo, che di spunti ce ne sono molti.
 
Harry

domenica 19 giugno 2011

Orrori quotidiani (intermezzo)



Sai che se non scrivo è perché ho cose più importanti da fare.
In questa settimana, anche più divertenti.

Però, pensando agli orrori quotidiani di cui ti ho parlato, ammetto di aver volutamente tralasciato Dylan Dog. E non perché ne ho già parlato recentemente, ma perché in particolare il Dylan di Sclavi meriterebbe approfondimenti che non ho il tempo di fare e altri farebbero molto meglio di me.

Ma ho lasciato in sospeso il Dylan di Vanna Vinci. Quindi, prima di arrivare a Trama, dovremo passare di lì, attraversando anche il passaggio stretto di Una malattia di famiglia, sceneggiato da un'altra donna, Denise Mina. L'estate arriva, e l'estate è la stagione dell'horror, o no?

Harry

giovedì 9 giugno 2011

Orrori quotidiani

(c) thomas ott


Nella mia esperienza di lettore di fumetti, c’è un idea piuttosto chiara che si è consolidata nel corso degli anni di letture: il fumetto horror per lo più fa schifo.

Ammetto di non essere un amante del genere in ogni sua forma. Quella che più apprezzo è forse quella letteraria, mentre il cinema o mi annoia terribilmente, o mi innervosisce al punto da non comprenderne la finalità. Questi i miei limiti personali. Li dichiaro, così sai il punto di partenza.
Sarebbe bello quindi stabilire cosa connota oggi il genere horror, ma soprattutto perché un autore di fumetti dovrebbe realizzare oggi un horror. Qualcosa di simile fu tentato da De:Code nella sua ultima incarnazione in pdf prima della sua compianta e prematura scomparsa, ma si limitò a parlare di zombie, e lo fece dal punto di vista più nerd possibile. Una leggerezza? O una necessità imposta dall’assenza reale di argomenti, se non quello di un vago approccio nostalgico?

Purtroppo sai quanto mi piace entrare in strade impervie e soprattutto quanto mi annoiano le definizioni. Anzi, alle definizioni mi piace avvicinarmi per difetto, per contrapposizione. Quindi, provo a pensare al genere horror in modo non convenzionale, obliquo. Da questo punto di vista, il primo autore che mi viene in mente è lo svizzero Thomas Ott (Black Velvet). Le sue storie sono governate da una logica del fato talmente precisa che mi provocano immediatamente un senso di oppressione, di soffocamento. Ott rivela l’ineluttabilità del male nell’esistenza umana. Non riesco a pensare a qualcosa di più spaventoso. Impotenza, mancanza di libertà, unico destino la disperazione e la morte.





Un secondo autore che percorre i territori dell’orrore in modo obliquo ma sempre più deciso, lucido e spaventoso, è Gilbert Hernandez che con i suoi fumetti/B movies mostra l’abbruttimento che ambizione, sesso e denaro generano necessariamente. Chance in Hell ne è l’esempio più limpido. Difficile non immedesimarsi nella ragazzina protagonista e vittima di una parabola di vita violenta e segnata.


(c) gilbert hernandez
In ambito più mainstream, continuo a pensare che il miglior fumetto horror realizzato negli ultimi anni non sia The Walking Dead ma Girls dei Luna Brothers (pubblicato in Italia da Free Books), dove su uno sfondo fantascientifico in stile Invasione degli Ultracorpi si sviluppa una vera e propria tragedia sociale, mossa dal principio universale della differenza di genere tra uomo e donna. Una metafora attuale e spaventosa, gestita con una lucidità sorprendente dalla coppia di autori, soprattutto nelle implicazioni sociologiche ed epidemiologiche che così tanto risuonano con i terrori della nostra quotidianità (violenze sessuali, aids, omofobia, misoginia, …). I Luna Bros. muovono i loro personaggi in uno scenario fittizio, in un microcosmo controllato ma non per questo irreale. Solo dannatamente sperimentale (leggi laboratorio sperimentale) e asfissiante.






Come vedi, da questa breve, brevissima lista, quello che mi interessa è l’orrore del quotidiano che prende strade impreviste. Che esplode da dietro le coscienze. Lo stesso effetto che mi fa immaginare una figlia che uccide il proprio padre, o il fidanzato la fidanzata, o una coppia i propri vicini rumorosi… insomma, quello che subiamo quotidianamente nella cronaca nera. Con la differenza che la cronaca nera spettacolarizzata da Vespa e insetti simili diviene perverso voyerismo, mentre quella raccontata da Ott, Hernandez e Luna Brothers è un pozzo nero che si apre sulle infinite possibilità della narrazione. E tutte con un approccio che è totalmente fumettistico.

Ed è qui che arrivo a Ratigher e al suo Trama. Ma ne parlo un’altra volta.
Harry

mercoledì 8 giugno 2011

Fumetto naturale

E l'albero disse...


Harry

martedì 7 giugno 2011

Interpretare una canzone - Trottole e Putiferio

 copertina di miguel angel martin

Ho male a un orecchio.
Una cosa che mi capita da due mesi.
Non ne conosco il motivo. Mai sofferto di otiti in vita mia.

Aver male all'orecchio non impedisce di leggere. Ma di ascoltare sì.
Quindi mi leggo Il paradiso delle trottole, fumetto disco della Banda Putiferio (Tunué).
Leggo e non ascolto.
Capisco e non capisco.
La frammentazione, la disomogenietà, la pluralità di approcci, ... il putiferio.
Credo che la parte a fumetti, il libro, avrebbe meritato scelte più organiche. Non amo in particolare il disegno che segue in modo didascalico i testi.
Ma poi mi fermo su due gioielli.

Luca Enoch interpreta con una storia muta e uno stile cartoon favoloso Il grillo e la formicuzza, canzone popolare tragica e surreale, di cui non conosco la storia o la genesi, ma certo la tradizione popolare è ricca di esempi di questo tipo, dove l'orrore quotidiano si mischia al fato. Ed Enoch ci regala un fulminante esercizio di stile. Pura abilità tecnica al servizio di un divertissment prezioso.

luca enoch


E poi la storia di Akab, che segue il monologo Fui feto di Antonio Rezza, che di per sé è un testo orrendo, ovvero bellissimo, per il suo cinismo e la sua inquietudine. E Akab, se possibile, lo rende ancora più inaccettabile, fastidioso, disturbante. Che è quello che Akab fa alle storie da quando lo leggo.
Ecco, il progetto in sé non mi convince in pieno. Eppure queste due singole perle meritano di essere lette e rilette. 

C'è poi un cd. Che è il cuore. Ma davvero, con otiti ricorrenti, vi mettereste ad ascoltare un gruppo che si chiama Banda Putiferio?

(si, l'ho fatto, ma senza grande attenzione e ne parlerò un'altra volta).

Harry

p.s. C'è anche Massimo Giacon

massimo giacon


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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.