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giovedì 17 dicembre 2009

Cucina. L'ingrediente segreto


Nella musica classica occidentale era uso fare esercizio di parodia. L’esempio più celebre è il lavoro di Johann Sebastian Bach sullo Stabat Mater di Pergolesi. Ma gli esempi non si contano, soprattutto in ambito liturgico e lirico. Gioacchino Rossini, noto per la velocità con la quale componeva le sue opere, era un maestro della parodia, perché riprendeva brani e musiche proprie e altrui ricucendole all’interno di un contesto nuovo. Si dice, forse a ragione, che Rossini fosse una sorta di juke box di arie celebri.
Parodiare, quindi, nella musica cosiddetta colta, non aveva nulla a che fare con lo sberleffo o con la copia. Ma sottintendeva un processo di lavoro basato sulla rielaborazione e la ri-contestualizzazione.
Se ci fermiamo a questa definizione, possiamo trovare esempi di parodie riuscite in moltissime opere a fumetti. Non so perché, ma l’esempio più immediato che mi è saltato in mente è Ronin di Frank Miller. L’autore statunitense ha parodiato apertamente Lone Wolf and Cub, di Koike e Kojima.

(c) koike e kojima

Il tentativo di Miller, parzialmente riuscito ma senza dubbio seminale, agiva su diversi livelli: il più immediato è quello visivo, nel tratto, nel disegno e nella costruzione della tavola; il secondo, più sottile, è tematico e concettuale. È il tentativo di trasformare un’antica storia di samurai orientale in una moderna favola post-industriale occidentale.
Insomma, da questo punto di vista, Ronin è una parodia che lavora sia sul piano dei codici utilizzati che su quello dei contenuti narrativi, delle suggestioni e dei contesti culturali.

(c) Frank Miller

Il fumetto, arte povera per eccellenza, arte del rimescolamento, della rimasticazione, della macellazione del suino, si è evoluta negli anni mantenendo un sottile equilibrio tra parodia, citazione, omaggio e copia. Se ne è parlato a proposito del recente inciampo nel quale Panini Comics è incappata con la realizzazione del fumetto Le Cronache Del Mondo Emerso, dove Ferrario, il primo disegnatore del progetto, ha riutilizzato, copiandoli, pezzi di fumetti e anime di altri autori, per lo più orientali.
Era parodia, questa?
Era omaggio?
Era pigrizia?
Era furbizia?

Qualche giorno fa, mi è stato segnalato un articolo che evidenzia il chiaro processo di ricalco, in perfetto stile copia-incolla-ribalta, che Cristiano Cucina ha effettuato per una copertina di Jonah Hex della DC Comics a partire da due copertine di Magico Vento, una a firma Andrea Venturi e l’altra Pasquale Frisenda.
L’articolo non lascia dubbi sul processo realizzativo della nuova copertina. È una parodia? Per certi versi, sì.
Il fumetto, come si sa, non è altro che una composizione di simboli. Ogni tratto all’interno di un disegno è una rappresentazione in sostituzione di qualcosa d’altro. È innanzitutto il tentativo di riprodurre la tridimensionalità in uno spazio bidimensionale. E il simbolo, come si sa, ha per sua natura la caratteristica della riproducibilità all’infinito.

le copertine di Frisenda e Cucina a confronto

Gli stivali, pezzi di gambe penzolanti, ripresi dal disegno di Frisenda, possono essere visti come un simbolo isolato, da ricomporre e riprodurre. È qui che si nasconde il problema del fumetto, che è anche la sua forza popolare; è qui che prende forma l’ambivalenza tra originalità e copia che il fumetto più di altri media vive dalla sua genesi.
Ma se il simbolo, di per sé riproducibile, può rimanere immutato in prodotti diversi, quello che è assente, nel lavoro di Cucina, è il suo segno. Se il simbolo è riproducibile all’infinito, il segno dovrebbe essere unico, personale, idiosincratico. È una prerogativa autoriale, cioè l’opportunità (la necessità) che ha l’autore di definirsi agli occhi dei lettori, di caratterizzarsi (darsi carattere) e di affermarsi. Non solo. Cucina evidenzia la propria incapacità di rielaborare e ricontestualizzare. Jonah Hex, come Magico Vento, è una serie di ambientazione western. Gli elementi copiati da Cucina non perdono minimamente il significato iniziale, ma lo mantengono in uno scenario parzialmente differente: due pistole incrociate e un teschio. La banalità della scelta simbolica di questi elementi – banalità per il genere narrativo in questione, il western – non permette a quegli stessi elementi di acquisire nuovi significati. Se ne deduce, quantomeno, una mancanza di cultura visiva del disegnatore in relazione al tema in oggetto. Alla quale si associa, probabilmente, pigrizia e una certa furbizia, essendo la copertina di Jonah Hex prodotta per un mercato differente da quello italiano.
In definitiva, quello che viene leso, in questo esempio, non è il diritto d’autore di Venturi e Frisenda, ma il diritto(dovere) di essere autore di Cucina medesimo.


Harry.

mercoledì 1 luglio 2009

Patagonia non è un capolavoro

Consiglio a tutti di leggere Patagonia, il nuovo albo gigante di Tex, a firma Mauro Boselli e Pasquale Frisenda.
Da quando Claudio Nizzi ha abbandonato Tex, il personaggio simbolo della Sergio Bonelli Editore, si sono succedute una serie di buone notizie e di buone storie: Boselli è diventato lo sceneggiatore principale, affiancato da Tito Faraci che, come ammesso da lui stesso, con Tex ha l’ambizione di trovare una casa (spero non si riferisca alla sicurezza economica) e a breve da Gianfranco Manfredi (che dice di divertirsi con Tex come non gli capitava da tempo); il parco disegnatori, già ricco, è diventato il più significativo del fumetto italiano e Pasquale Frisenda è solo uno degli ultimi degli importanti innesti.
Le storie, come detto, sono cresciute notevolmente. Sempre all’insegna dell’avventura più classica, gli autori stanno riscoprendo e restituendo al lettore il divertimento che nasce dall’invenzione narrativa dentro a regole e canoni prevedibili e molto chiari. A dire il vero, al momento, l’esordio di Manfredi sulla testata regolare deve ancora avvenire, e sono soprattutto Boselli (il miglior autore di Tex dopo Bonelli) e Faraci a motivare il nuovo entusiasmo per la testata.
Per gusti personali e sensibilità, non credo che Tex sia oggi la migliore serie Bonelli, ma certamente lo sforzo editoriale degli ultimi mesi si muove in questa direzione.

Patagonia può essere il simbolo di quanto detto. Il cosiddetto Texone è da sempre un esempio positivo di progettazione editoriale, per lo meno per due ragioni: l’intenzione reale di Sergio Bonelli di rendere questi albi davvero speciali; il prezzo disarmante.
Il Texone costa poco, pochissimo per l’impegno che gli autori e la casa editrice investono ogni anno. È un costo che è assolutamente fuori mercato rispetto a qualunque altra pubblicazione prodotta in Italia. La motivazione risiede nelle vendite, senza dubbio. È un albo dalla produzione costosa che si ripaga completamente. E lo fa, come detto, grazie al pieno rispetto del concetto di “evento speciale” che dal primo numero lo caratterizza.
In Patagonia l’evento sono gli straordinari disegni di Pasquale Frisenda. Il disegnatore, già collaboratore di Ken Parker e di Magico Vento, ha un talento visivo raro che nelle tavole di grandi dimensioni del Texone letteralmente esplode. È romantico, crepuscolare, dinamico, evocativo, …
Ogni disegno è formalmente equilibrato nella composizione, mai automatico, pensato nei particolari. La caratterizzazione del protagonista non sempre è perfettamente fuoco, forse, ma è la coralità della storia imbastita da Boselli a dare forza all’impostazione grafica di Frisenda. E gli sconfinati ed esistenziali territori della Pampa argentina.

Detto ciò, Patagonia resta solo un buon fumetto, ricco di talento ma nulla più.
Il soggetto è trattato da Boselli in modo poco equilibrato. Più di metà storia è fatta di chiacchiere, di pesanti ritorni e riflessioni sugli eventi. Il meccanismo narrativo è poco fluido, macchinoso. Quando si precipita al finale, è troppo tardi. A ciò va aggiunto che Frisenda, con la sua cura e la sua attenzione, con il suo amore visivo, risulta a volte autocompiacente, altre volte eccessivamente retorico. È come se la sovraesposizione dello speciale avesse amplificato i latenti e potenziali difetti dei due autori, trasformando un possibile capolavoro in una sua versione grottesca.
Il termine grottesco non inganni. Nulla in questa storia ha i toni dell’ironia o del poco serio. Ma è il risultato finale ad apparire talmente consapevole (sul piano dei mezzi, delle capacità, degli obiettivi da voler raggiungere, ecc.) da risultare macchinoso, inutilmente bello, in definitiva sterile.

Forse il difetto è genetico. Tex, dopo anni e anni di storie popolari, non può che essere una parodia di se stesso, una figura retorica del fumetto italiano, dove lo spazio per raccontare una vera storia è pressoché inesistente. All’interno di Tex è solo possibile essere dei bravi, freddi professionisti, o non esserlo affatto (l’ultimo Nizzi, ormai stanco e anonimo, ne è un esempio). Ma la tecnica non è sufficiente per emozionare il lettore, o per dare forma a un’opera davvero significativa. Realizzare Tex è quindi un atto di professionale dedizione, per lo meno quanto leggerne le storie. Si possono fare bene o male entrambe le attività. È un patto tra autore, editore e lettore in auge da decenni, che funziona, ma che non può più riservare vere sorprese. E che ha molto a che fare con la fiducia. Una fiducia che Sergio Bonelli sta cercando di confermare con tutte le sue forze.


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La versione a fumetti di Harry è (c) di Daniel Clowes.