martedì 11 ottobre 2011
Il vero finale
Ricordo molto bene come ha avuto inizio.
Harry Naybors è un personaggio di Daniel Clowes e, come molti suoi personaggi, ha lasciato un riverbero nella mia mente.
Nel frattempo era iniziato un gioco. Ho scritto diversi racconti nei quali ho immaginato incontri personali, reali, autobiografici, con personaggi dei fumetti. Ovvero, incontri con personaggi straordinari, come recitava il titolo originario del primo blog che ho aperto (oggi, incontri con manifestazioni di vita, ed è tutta un'altra roba).
Nel progetto originale, a cadenza settimanale, o bisettimanale, avrei pubblicato un racconto inedito illustrato da un disegnatore. Quel progetto non è mai sbocciato davvero, per diverse ragioni, prime tra tutte il coinvolgimento di alcuni amici disegnatori che non sono riusciti a mantenere le promesse. E per questo non porto rancore. Perché ancora adesso ho un piccolo, divertente progetto da poter far crescere nel tempo. Se vorrò e troverò le giuste condizioni.
Ma per prepararmi a questo progetto, ho messo in cantiere diversi racconti. Al momento ce ne sono circa una trentina. Alcuni più belli, altri meno. Molti divertenti, qualcuno malinconico come mi piace essere. Dei tanti esperimenti, uno era davvero diverso. Non un vero racconto, ma una finta conversazione via mail con Harry dove il noto critico mi scriveva delle sue impressioni su un determinato fumetto. L’idea mi ha divertito molto. E da lì, in breve tempo, altre, numerose mail mi sono arrivate da Harry. La conversazione diventava fitta e il passo a immaginare un blog tenuto da Harry è stato molto breve. Così, come scritto nella presentazione, l’ho aiutato a sviluppare questa idea.
Ho sempre considerato questa scrittura critica come un esercizio personale, un gioco espressivo e dialogico, dove il mio ruolo era certo quello di analizzare, immaginare e dare forma, ma dove ho sempre tentato di utilizzare un punto di vista diverso da quello mio, strettamente personale. La mente offre intinite possibilità.
Quel che n’è uscito, dall’inaugurazione del blog a oggi, lo conosci. La sfida nella sfida era anche quella di realizzare un blog efficace, divertente, serio, che parlasse solo, esclusivamente di fumetto. Ne esistono pochi, di blog monotematici sul fumetto, in Italia. E sono ancora meno quelli che leggo con piacere. Volevo che Harry facesse quello che sa fare meglio, quindi, parlare solo di fumetto ma riversandoci dentro la vita. Vedere il fumetto in controluce per stimolare nuove letture della realtà. Uno sforzo possibile solo grazie ai tanti professionisti che realizzano fumetti e che ho avuto il piacere o la disavventura di incontrare.
Nel tempo, Harrydice… è inciampato in diversi riscontri positivi. È molto seguito dagli addetti ai lavori, e da parecchi lettori curiosi, che mi hanno spesso stimolato e incalzato. È stato l’opportunità di comprendere meglio certe dinamiche proprie della creatività del fumetto, nonché le sciocche insidie del mondo degli addetti ai lavori, che spesso parlano da sole e mal celano un grande livello di improvvisazione e di frustrazione. Giorno dopo giorno, scrivendone, ragionandoci con gli occhi di Harry, ho capito sempre più di non appartenervi, né come critico, né come pezzo del puzzle che compone le dinamiche umane di un mercato settoriale.
È arrivato quindi il momento di salutare Harry. Lui non è felice di questo. Ma sono convinto che possa farcela da solo a trovare la sua voce. Con il post di oggi, prima e unica incursione dell’autore nell’immaginario del personaggio, Harrydice… chiude. Nessun nuovo aggiornamento per il futuro.
Ho scelto di anticipare questa chiusura con le ultime strisce di tre celebri fumetti: Calvin and Hobbes, The Peanuts, Little Orphan Annie. Non è vanagloria, ma solo un modo, l’ennesimo, di sfruttare la grandezza inarrivabile di un preciso immaginario per creare un clima, per preparare un pre-testo.
È in queste piccole, enormi cose creative che mi riconosco, che ritrovo Harry. Ed è per questo che sono grato a tutti i pazzi, italiani e non, che si ostinano a creare fumetti. Tutta la mia stima (qui un esempio su tutti).
Per un po’, forse per sempre, questo blog resterà aperto, consultabile. Ma nel tempo perderà di senso. A chi volesse scrivermi, per qualunque ragione, può inviare una mail a harrynayborsdice@gmail.com. Un grazie sentito a chi mi ha letto e sostenuto. Chiedo perdono a tutte le persone che, nel tempo, ho coinvolto in progetti e idee per Harrydice… che non hanno mai trovato spazio, tempo e forza per svilupparsi. Sarà per altre vite.
Guglielmo
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domenica 9 ottobre 2011
venerdì 7 ottobre 2011
mercoledì 5 ottobre 2011
Letture postume
copertina di julia 157 di marco soldi
Il ritorno del lettore qualunqu(ista)e...
Harry
Leggo su Leggo che è morto Sergio Bonelli, l’editore, non quello che truffava gli affitti.
Di Bonelli so nulla. Mai visto, neppure in foto prima d’ora. Eppure ne respiro la presenza da molto.
Io che leggo male e quel che capita, ho visto le sue firme editoriali un po’ ovunque. E mi dispiace che muore così, di colpo, in poco tempo.
Lascia un’eredità grande, seppur contenuta, raggruppata. Ma dalle moltissime ramificazioni. Quel che accadrà si vedrà. Non so, forse noi lettori non ce ne accorgeremo neppure che è andato, sparito dove se ne vanno tutti, prima o poi.
Bonelli ha la fortuna di lasciare i suoi segni al mondo. In molti non hanno questa sorte. Va e resta, tutto insieme.
Io fatico a commuovermi, perché ho talmente tante cose da fare che commuovermi mi bloccherebbe. Il mio istinto mi dice vai avanti, vai avanti. La morte è tutta intorno a te. Ma la vita è più forte.
E quindi, ripongo Leggo dove deve stare, nel cestino del riciclo della carta. E ancora mi arrabbio, mi arrabbio a vedere il cestino accanto, quello che non ricicla un cazzo, pieno zeppo di quotidiani gratuiti. Apri gli occhi, uomo che cammini sulle nuvole. La vita ti sta chiamando! Ma andiamo avanti.
Qualche giorno dopo, in edicola c’è Julia, il nuovo numero di ottobre. Di tutto, è il Bonelli che mi dà più gioia. Mi rassicura e inquieta. E io amo queste contraddizioni. Le storie sono tutte uguali, nei disegni, nell’impostazione, non so usare termini tecnici. Apro il fumetto ed è sempre la stessa cosa. Mi sento a casa. Mi sento accolto. Ogni cambio di pagina so cosa trovo, una rigida divisione in vignette con tutte quelle facce nervose ma pulite, e quei luoghi ordinati ma pieni di violenza.
Ma in ogni numero, qualcosa di nuovo accade. E qui, lo dico chiaro perché è importante, non mi sento preso per il culo. Perché raccontare all’infinito la stessa storia fantasy con una bella donna in pericolo e l’eroe che la salva numero dopo numero dopo numero è offensivo, mortale, direi. Mentre Julia non è così. Ed è coraggioso questo strano compromesso tra staticità e movimento, tra vecchio e nuovo. È una cosa che cerco. Ma non trovo quasi mai.
E mi torna in mente il sig. Bonelli, che ha dato fiducia a un fumetto così, per esserne pienamente ripagato. Di cazzate, da editore, se ne possono fare molte. Anche l’età, dopo anni e anni di trincea, può offuscare le scelte. Ma un merito questo signore ce l’ha. Quello di essersi circondato di ottimi professionisti. E, cazzo, i professionisti sono anche uomini, quindi uno si nasconderà dietro a quell’etichetta, e farà solo storie professionali e vuote, ma qualcuno userà quella particolare esperienza per spingersi ogni giorno in nuove direzioni. Quindi, tanti saluti, Bonelli. Se il male esiste, non sta qui. Forse molti sassi nelle scarpe. Qualche dolore alle anche. Ma anche eccellenti soddisfazioni.
Un lettore qualunque.
Il ritorno del lettore qualunqu(ista)e...
Harry
Leggo su Leggo che è morto Sergio Bonelli, l’editore, non quello che truffava gli affitti.
Di Bonelli so nulla. Mai visto, neppure in foto prima d’ora. Eppure ne respiro la presenza da molto.
Io che leggo male e quel che capita, ho visto le sue firme editoriali un po’ ovunque. E mi dispiace che muore così, di colpo, in poco tempo.
Lascia un’eredità grande, seppur contenuta, raggruppata. Ma dalle moltissime ramificazioni. Quel che accadrà si vedrà. Non so, forse noi lettori non ce ne accorgeremo neppure che è andato, sparito dove se ne vanno tutti, prima o poi.
Bonelli ha la fortuna di lasciare i suoi segni al mondo. In molti non hanno questa sorte. Va e resta, tutto insieme.
Io fatico a commuovermi, perché ho talmente tante cose da fare che commuovermi mi bloccherebbe. Il mio istinto mi dice vai avanti, vai avanti. La morte è tutta intorno a te. Ma la vita è più forte.
E quindi, ripongo Leggo dove deve stare, nel cestino del riciclo della carta. E ancora mi arrabbio, mi arrabbio a vedere il cestino accanto, quello che non ricicla un cazzo, pieno zeppo di quotidiani gratuiti. Apri gli occhi, uomo che cammini sulle nuvole. La vita ti sta chiamando! Ma andiamo avanti.
Qualche giorno dopo, in edicola c’è Julia, il nuovo numero di ottobre. Di tutto, è il Bonelli che mi dà più gioia. Mi rassicura e inquieta. E io amo queste contraddizioni. Le storie sono tutte uguali, nei disegni, nell’impostazione, non so usare termini tecnici. Apro il fumetto ed è sempre la stessa cosa. Mi sento a casa. Mi sento accolto. Ogni cambio di pagina so cosa trovo, una rigida divisione in vignette con tutte quelle facce nervose ma pulite, e quei luoghi ordinati ma pieni di violenza.
Ma in ogni numero, qualcosa di nuovo accade. E qui, lo dico chiaro perché è importante, non mi sento preso per il culo. Perché raccontare all’infinito la stessa storia fantasy con una bella donna in pericolo e l’eroe che la salva numero dopo numero dopo numero è offensivo, mortale, direi. Mentre Julia non è così. Ed è coraggioso questo strano compromesso tra staticità e movimento, tra vecchio e nuovo. È una cosa che cerco. Ma non trovo quasi mai.
E mi torna in mente il sig. Bonelli, che ha dato fiducia a un fumetto così, per esserne pienamente ripagato. Di cazzate, da editore, se ne possono fare molte. Anche l’età, dopo anni e anni di trincea, può offuscare le scelte. Ma un merito questo signore ce l’ha. Quello di essersi circondato di ottimi professionisti. E, cazzo, i professionisti sono anche uomini, quindi uno si nasconderà dietro a quell’etichetta, e farà solo storie professionali e vuote, ma qualcuno userà quella particolare esperienza per spingersi ogni giorno in nuove direzioni. Quindi, tanti saluti, Bonelli. Se il male esiste, non sta qui. Forse molti sassi nelle scarpe. Qualche dolore alle anche. Ma anche eccellenti soddisfazioni.
Un lettore qualunque.
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Merchandising e un cosplayer speciale
Mio figlio si vestiva di Spider-man, a una festa, mentre simulava l'arrampicata dell'arrampicamuri.
L'identificazione con l'eroe di finzione, vestirne i panni, farsi trasportare dall'immaginazione...
Maledetto merchandising!!
Harry
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martedì 27 settembre 2011
Mentre morivo
Sto leggendo molti ricordi, pensieri, idee sulla dipartita assai inaspettata di Sergio Bonelli.
Una cosa è certa. Come Tex è rimasto dopo la morte del padre Gianluigi, così resterà un capitale culturale, umano e popolare dopo la morte di Sergio.
Ecco, il ricordo che mi sembra più forte, chiaro e, perché no, stimolante rispetto alle tante parole scritte su questo blog in questi mesi, è quello di Moreno Burattini, a cui ti rimando.
C'è un passaggio che mi ha colpito molto, per la sua chiarezza:
In sessant'anni, disse rivolgendosi ai suoi lettori, io vi ho talmente rispettato che mai vi ho inflitto una sola pagina di pubblicità. Bonelli era un editore puro: voleva reggersi con l'unica forza del suo lavoro, delle sue idee, delle sue storie scritte, disegnate e stampate su carta. Per questo è sempre stato fondamentalmente ostile anche al merchandising.Forse queste cose, ancora oggi hanno un senso. Che è molto di più del lettering fatto a mano, ma che è tutto dentro a quest'idea di dignità artigianale. La forza e la debolezza della Sergio Bonelli Editore erano in queste idee, in questa convinzione, in questa determinazione più grande di qualunque altra considerazione.
Harry
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lunedì 26 settembre 2011
Il consumatore finale
La storia di Chester Brown era già scritta nelle vicende autobiografiche raccontate in Non mi sei mai piaciuto. In quel bellissimo libro seminale, l'autore canadese ci aveva raccontato delle sue delusioni affettive, con uno sguardo impietoso e tagliente. Lucido. Razionale. In quella rappresentazione, in quei ricordi, si nascondeva un grande dolore, controllato e gestito da una forte personalità e volontà.
Questo è possibile comprenderlo oggi, alla luce di quanto Brown racconta nella sua nuova opera, dal titolo inglese Paying for it, ovvero il resoconto lucido, razionale e dettagliato dei suoi rapporti sessuali con prostitute.
Usciamo dai pregiudizi morali, entriamo nelle vicende personali che l'autore racconta.
In estrema sintesi, e per non annoiarti, ti dico soltanto che, dopo l'ennesima delusione d'amore, Brown sceglie di non avere più rapporti affettivi con alcuna donna, ma di praticare sesso a pagamento, per assecondare un bisogno che sente ancora vivo e presente.
Mentre leggi, ricordati della forza della mente, e del potere delle razionalizzazioni.
In un susseguirsi di appuntamenti e racconti minimali, Brown disseziona la sua sfera sessuale (e affettiva?). A margine, o al centro, a seconda dei punti di vista, una sorta di manifesto: normalizzare la prostituzione; farla uscire dall'illegalità e anche da qualunque proposito di regolamentazione, di legalizzazione.
Quello che colpisce, di Brown come persona, è il coraggio, la fermezza, la lucidità. Quello che spaventa è il distacco emotivo. Sembra che accogliere questo nuovo stile di vita, per Brown, sia stato del tutto indolore, anzi, una via di cambiamento oltre il dolore. Eppure, dietro a questa attenzione manichea per i particolari (Brown annotava tutto quello che accadeva di volta in volta, appuntamento dopo appuntamento, conversazione dopo conversazione), si indovina un meccanismo fortissimo di razionalizzazione e di negazione (che l'autore, ovviamente, nega egli stesso, a confronto con gli amici fumettisti Seth e Joe Matt).
Quel che importa non è un giudizio sull'uomo, ma una riflessione sulla natura umana della sessualità, dell'amore e dell'intimità. Paying for it è la messa in scena della scissione tra queste tre sfere, operata dalla mente, per un bisogno di controllo straordinariamente forte. Non è un atto di liberazione, di vita. Ma appare piuttosto come un atto di prevaricazione, di chiusura alla completezza dell'uomo.
Ed è per questo, io credo, che il racconto, nel suo complesso, appare distaccato, ripetitivo, meccanico, privo di vita. Manicheo.
Paying for it, sul piano strettamente fumettistico, è un'opera non riuscita, povera di spunti di autentica riflessione, se non quella del manifesto sulla prostituzione; è un lavoro che non riesce a coinvolgere il lettore, che sembra osservare di là da un vetro.
Ma Paying for it è anche un interessantissimo materiale per comprendere il percorso umano di Chester Brown, e la determinazione di una razionalità che tutto controlla, tutto analizza, tutto determina. E questo, se vogliamo, è il più grande inganno della modernità occidentale.
Harry
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giovedì 22 settembre 2011
Il gioco al ribasso nel Dylan Dog di Pasquale Ruju
Finali rivisitati… realtà alternative… quando un creativo ricorre a roba del genere, vuol proprio dire che è già morto e sepolto!
Angelo Stano, il personaggio. Da Dylan Dog 300
Con queste parole vorrei chiudere due cicli: le riflessioni su Dylan Dog e, tangenzialmente, quelle sul fumetto horror.
Dylan Dog 300 è l’esemplificazione del gioco al ribasso nel fumetto seriale. Nella storia, gli autori mettono in scena un gioco metanarrativo che nasconde il vuoto di idee, un vuoto che viene non solo rivelato al lettore, ma anche blandamente ridimensionato da una parvenza di consapevolezza (come suggerito dalla citazione a inizio articolo). D’altra parte, Pasquale Ruju è l’autore che meno ha capito Dylan Dog, che peggio ne ha raccontato le gesta, e che meglio rappresenta il qualunquismo artistico nei prodotti seriali. Sotto al peso delle sue banalità, viene schiacciato anche l’estro normalizzato di Angelo Stano, che non graffia, non emoziona, non evoca.
Eppure, al di là di un risultato narrativo ed espressivo completamente deludente, Dyland Dog 300 rappresenta un ottimo specchio attraverso il quale osservare i difetti principali di un certo approccio al fumetto seriale. Ruji, per voce finto-autobiografica di Stano, personaggio reo confesso, si potrebbe dire, esplicita al lettore il fine ragionamento che si cela dietro alla creazione di una nuova storia di Dylan Dog.
Le riflessioni appaiono avvilenti, perché come gioco metanarrativo sono talmente scontate da essere inutili; e prese sul serio rivelano un approccio allo sviluppo creativo come minimo cadaverico (e neanche l’ombra di uno zombie, in effetti,può risollevarne le sorti).
Ma vediamo uno per uno i passi salienti che l’autore Stano/Ruju fa per dare forma a questo numero celebrativo. Intanto, trovare un’idea per l’inizio. Ecco le prime riflessioni:
“No… nessuna dannata idea…”
“Si forse ci sono”
“Basta tornare all’inizio”
Una delle regole d’oro della narrativa seriale è, quando non si hanno idee, di tornare all’origine del personaggio. Uno sguardo acuto individua per inizio la sua idea portante, la sua consistenza come elemento dell’immaginario popolare; uno sguardo spento ne riprende semplicemente alcune idee narrative, come in questo caso. Successivamente, a narrazione avviata, Ruju rivela in un passaggio di non aver mai compreso nulla del personaggio di Groucho:
“Lo so, lo so, è un po’ vecchia, come battuta… ma Groucho non è certo un fine umorista. Può andare.”
E, per chi avesse ancora dei dubbi, Ruju mostra il suo approccio di gioco al ribasso: accontentiamoci. È un lavoro e lo devo portare a termine, come già la riflessione su Groucho aveva illustrato:
“Comunque l’inizio non mi dispiace… la strada è quella giusta!”
Più avanti, in pieno stile culinario televisivo, ci spiega la sua ricetta in merito al personaggio di Dylan Dog:
“Bene. A questo punto ci voleva proprio un po’ di sangue!”
“… perciò ora ci vuole un bel colpo di scena!”
Quando Ruju prepara il falso finale, o doppio finale, con colpo di scena annesso, ci spiega le sue perplessità in merito agli ingredienti, senza riflettere sulle difficoltà di ritmo, efficacia, emozione, identificazione, … che la sua storia ha:
“Potrebbe finire così questa storia”
“… trattandosi di un fumetto horror… forse avrei dovuto metterci più sangue e meno sentimento!”
Arriva quindi come una necessità liberatoria l’uccisione del personaggio creativo. Nessun lettore avrebbe potuto sopportare oltre il pedante Ruju/Stano. Quel colpo di scena, preparato in modo così avvilente, senza pathos, senza ritmo, è l’apice del vuoto espressivo di questa storia, ed è l’esemplificazione dell’insieme dei problemi che caratterizzano la serie di Dyland Dog attualmente: approssimazione, mancanza di sentimento, eccessiva professionalismo, vuoto di idee, gioco al ribasso. Di questo passo, non se ne esce né vivi né zombie.
Harry
tutte le tavole sono realizzate da pasquale ruju e angelo stano
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giovedì 15 settembre 2011
Mentirei
disegno di giacomo nanni
Mentirei se ti dicessi che mi sto divertendo.
No, non mi sto divertendo. Quello che leggo ultimamente non mi piace molto.
Scelte sbagliate? O una tendenza? O il mio umore?
E poi, gli incontri. Parlo con autori demoralizzati. Non poco.
E tutti che mi dicono la stessa cosa: non so bene perché vado avanti.
Cos'è questa urgenza di esprimersi coi fumetti?
Se ci pensi, a prescindere da qualunque giudizio critico ed estetico, la quantità di fumettisti che si impegnano a portare avanti un loro discorso è grande, e ancor più... incomprensibile.
Immotivata?
Forse però questa loro fatica si respira attraverso le loro opere. Sento spesso una sottile barriera. Un'incomunicabilità, una mancanza di direzione, un'incoerenza inconsapevole di fondo, che riverbera attraverso le loro creazioni.
E mi sembrano mancare, da un lato, la determinazione che deriva da una profonda convinzione dei propri mezzi e della propria voce; dall'altro, la confidenza nel credere che si stia realizzando qualcosa di cui le persone hanno bisogno, che potrebbero cercare, amare, condividere con parenti e amici. C'è l'ombra dell'invisibilità. E del vuoto.
Harry
Mentirei se ti dicessi che mi sto divertendo.
No, non mi sto divertendo. Quello che leggo ultimamente non mi piace molto.
Scelte sbagliate? O una tendenza? O il mio umore?
E poi, gli incontri. Parlo con autori demoralizzati. Non poco.
E tutti che mi dicono la stessa cosa: non so bene perché vado avanti.
Cos'è questa urgenza di esprimersi coi fumetti?
Se ci pensi, a prescindere da qualunque giudizio critico ed estetico, la quantità di fumettisti che si impegnano a portare avanti un loro discorso è grande, e ancor più... incomprensibile.
Immotivata?
Forse però questa loro fatica si respira attraverso le loro opere. Sento spesso una sottile barriera. Un'incomunicabilità, una mancanza di direzione, un'incoerenza inconsapevole di fondo, che riverbera attraverso le loro creazioni.
E mi sembrano mancare, da un lato, la determinazione che deriva da una profonda convinzione dei propri mezzi e della propria voce; dall'altro, la confidenza nel credere che si stia realizzando qualcosa di cui le persone hanno bisogno, che potrebbero cercare, amare, condividere con parenti e amici. C'è l'ombra dell'invisibilità. E del vuoto.
Harry
giovedì 8 settembre 2011
Editori che arretrano
Ma gli editori di fumetti, secondo te che ogni tanto mi leggi, hanno o non hanno la responsabilità di promuovere i propri prodotti culturali?
La casa editrice Marcos Y Marcos, in ambito letterario, ha da qualche anno deciso di utilizzare un approccio diverso al mestiere di editore: meno pubblicazioni all’anno (solo 13) ma tutte attentamente curate e valorizzate attraverso iniziative promozionali di diverso tipo (tra le quali ricordo la collaborazione con la compagnia teatrale Quelli di Grock per la drammatizzazione di alcuni romanzi della casa editrice).
La sua idea è, strano a dirsi, quella di avere un ruolo culturale e non solo commerciale.
Senti che pensiero grande, potente, sarebbe questo nel mondo del fumetto: una casa editrice che si assume un ruolo culturale, programmatico, non fine a se stesso, e che si muove nel territorio con gli autori per creare iniziative creative e stimolanti. Trovare nuovi lettori, stimolare nuovi interessi, mantenere una forte identità, ed avere una funzione anche sociale. È troppo, vero?
Invece, abbiamo case editrici che raramente hanno un progetto chiaro, a volte boicottano più o meno volutamente i propri prodotti o le iniziative di alcuni dei propri autori (!!), oppure se ne disinteressano, e vedono terminare il proprio lavoro nel momento della stampa o della grande fiera-mercato.
Gli autori sono soli. Non solo non percepiscono grandi guadagni nel momento della pubblicazione, se ne percepiscono, ma devono anche avere le forze da soli di promuovere i propri libri, di trovare uno spazio personale, di creare un seguito.
E non lo dico per deresponsabilizzare gli autori, sia chiaro.
Ma dove sono le sinergie? La progettualità? La forza di sviluppare un’idea culturale precisa? Di delineare una funzione sociale (l’ho ridetto) per l’editore stesso e i suoi autori?
Per generare un bisogno (vitale) nei potenziali lettori che sono sparsi nel territorio italiano?
Harry
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martedì 6 settembre 2011
Merchandising e un brutto fumetto
Ieri, all'ipermercato, mio figlio si ferma incantato a osservare uno scaffale pieno di shampoo con le immagini dei suoi cartoni animati preferiti. Gli parlo: sono solo veli di adesivo incollati allo stesso prodotto, uno shampoo chimico di bassa qualità. Il gioco e il divertimento che ti aspetti, non ci sono.
A luglio, il settimanale Topolino si rinnova. Importa davvero? No. Ma escono i pezzi della Makkinaz, il gadget estivo di rito che a mio figlio piace tanto. Nel primo numero con allegato, il 2902, ci sono parecchie storie, tra le quali, ovviamente, quella con la Makkinaz che… è già iniziata nel numero precedente?! Non ne capisco il motivo. A mio figlio non interessa. Lui sfoglia il giornaletto, e si fa leggere le cose che gli piacciono. Di tutte le storie che ci sono, la sua preferita è questa (fatti coraggio e leggila tutta. L'ho inserita apposta ad alta risoluzione):
La sua preferita. Perché?
Questo fumetto è totalmente sbagliato. Non è un problema solo tecnico, ma proprio di conoscenza del fumetto come mezzo di comunicazione. Non si riesce a leggere, non c'è sequenzialità e logica nei passaggi. Il punto è chiaro, si tratta soltanto di un prodotto derivato, un collaterale (come gli effetti delle medicine). Nel racconto, viene malamente fatta la sintesi del film di animazione con le avventure di Max, una sorta di Kung Fu Panda a basso costo, di cui tra le altre cose esiste un pessimo gelato frizzante.
Mio figlio mi avrà fatto leggere questo orrendo fumetto decine e decine di volte. Perché il personaggio gli era familiare, grazie ai canali tematici gratuiti per bambini della tv digitale.
Una nota di passaggio: la tv digitale gratuita è pura immondizia, perché continua a ridare le stesse puntate degli stessi personaggi, col solo fine di veicolare le ore di pubblicità. E funziona.
E i fumetti Disney?
Che importa? Quello con la casetta che appare in tv è troppo diverso da questo.
C’è un filtro, un’ombra sopra queste storie, questi personaggi.
Ovviamente conservo i fumetti per provare a riproporglieli quando è più grande. Anche se a leggerle, quelle storie, io da grande, non è che mi sembrano proprio coinvolgenti. Tutt’altro.
In fondo, la speranza, o la fede, non si esaurisce mai.
Harry
A luglio, il settimanale Topolino si rinnova. Importa davvero? No. Ma escono i pezzi della Makkinaz, il gadget estivo di rito che a mio figlio piace tanto. Nel primo numero con allegato, il 2902, ci sono parecchie storie, tra le quali, ovviamente, quella con la Makkinaz che… è già iniziata nel numero precedente?! Non ne capisco il motivo. A mio figlio non interessa. Lui sfoglia il giornaletto, e si fa leggere le cose che gli piacciono. Di tutte le storie che ci sono, la sua preferita è questa (fatti coraggio e leggila tutta. L'ho inserita apposta ad alta risoluzione):
La sua preferita. Perché?
Questo fumetto è totalmente sbagliato. Non è un problema solo tecnico, ma proprio di conoscenza del fumetto come mezzo di comunicazione. Non si riesce a leggere, non c'è sequenzialità e logica nei passaggi. Il punto è chiaro, si tratta soltanto di un prodotto derivato, un collaterale (come gli effetti delle medicine). Nel racconto, viene malamente fatta la sintesi del film di animazione con le avventure di Max, una sorta di Kung Fu Panda a basso costo, di cui tra le altre cose esiste un pessimo gelato frizzante.
Mio figlio mi avrà fatto leggere questo orrendo fumetto decine e decine di volte. Perché il personaggio gli era familiare, grazie ai canali tematici gratuiti per bambini della tv digitale.
Una nota di passaggio: la tv digitale gratuita è pura immondizia, perché continua a ridare le stesse puntate degli stessi personaggi, col solo fine di veicolare le ore di pubblicità. E funziona.
E i fumetti Disney?
Che importa? Quello con la casetta che appare in tv è troppo diverso da questo.
C’è un filtro, un’ombra sopra queste storie, questi personaggi.
Ovviamente conservo i fumetti per provare a riproporglieli quando è più grande. Anche se a leggerle, quelle storie, io da grande, non è che mi sembrano proprio coinvolgenti. Tutt’altro.
In fondo, la speranza, o la fede, non si esaurisce mai.
Harry
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domenica 4 settembre 2011
Il bisbiglio del cane
Riprendo il filo del discorso su Black Jack di Tezuka Osamu direttamente da qui. Se hai voglia rileggilo.
E poi goditi questa splendida, surreale, romantica, orrorifica storia karmica. Si tratta del racconto numero 81 di Black Jack, Il bisbiglio del cane, nell'edizione italiana di Hazard Edizioni, che devi avere nella sua interezza (25 volumetti imperdibili).
Harry
opera di tezuka osamu, hazard edizioni, tutti i diritti riservati
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sabato 3 settembre 2011
Dacci dentro, Baru!
Toni da commedia per scenari tragici di immigrazione e delinquenza quotidiana.
Colpisce la sintesi e l’essenzialità dell’ultimo Baru.
L’implicito di quanto narrato è talmente vasto che rischia di rimanere sommerso.
Ogni segno è talmente carico di significati!
Pompa i bassi, Bruno! (Coconino Press) come titolo della storia, una frase detta e passata come un grido qualunque all'interno di una vicenda complessa, a rappresentare il movimento della vita.
Ciò detto, non la migliore storia di Baru. Ma non sottovalutarla.
Harry
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venerdì 2 settembre 2011
giovedì 1 settembre 2011
Merchandising e dove siamo arrivati
Ricorderei solo che l'Italia su queste cose insegue l'America da sempre. Segue e diventa allieva perfetta.
E quindi, per un punto storico chiaro, partirei da qui:
Negli otto interminabili anni in cui rimase alla Casa Bianca, Ronald Reagan bloccò qualsiasi proposta di legge che limitasse la presenza degli spot pubblicitari negli spot televisivi per ragazzi. Eppure l’ultima di tali proposte proponeva limitazioni addirittura risibili: 10 minuti e 30 secondi per ogni ora durante i fine settimana, 12 minuti nei giorni feriali. Due anni dopo, nel 1990, il provvedimento fu approvato dal Congresso; ma l’allora presidente Gorge Bush si rifiutò di firmarlo, appellandosi al primo emendamento della costituzione che garantisce la libertà di parola. In questo caso, libertà soltanto per i pubblicitari delle reti televisive.
Grazie alle continue pressioni di insegnanti, psicologi e genitori, alla fine il provvedimente fu “lasciato passare”, sebbene senza la firma del presidente. Comunque la sua applicazione fu episodica e, presto, cautamente disattesa. In quel decennio la “supercommercializzazione” dei programmi per ragazzi subì un’incredibile impennata: si calcolò che il bambini, prima ancora di raggiungere l’età scolare, venisse esposto a più di 5.000 ore di televisione, un quinto delle quali era costituito da pubblicità diretta e, prima di finire le superiori, il ragazzo medio aveva già riempito la sua vita con un totale di esposizione televisiva che andava dalle 19.000 alle 20.500 ore. Centinaia di ricerche registrarono una caduta verticale del profitto scolastico, della capacità di fissare l’attenzione e dell’interesse nella lettura, compresa quella dei fumetti.Nacque un nuovo formato per i programmi dei ragazzi: i comunicati commerciali erano indissolubilmente legati ai prodotti loro destinati. I legislatori si limitarono a raccomandare alla Commissione Federale per le Comunicazioni (FCC) di verificare che non si perdesse di vista “l’interesse pubblico nei programmi per ragazzi”. Così l’egemonia della promozionalità si estese a tutto il mercato multimediale, dai disegni animati agli albi a fumetti, ai graphic novel, gonfiando enormemente il già fiorente merchandising per l’infanzia.
Roberto Giammarco,
dalla Prefazione di Maledetti Fumetti
di David Hajdu (Tunuè 2010)
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roberto giammarco
martedì 30 agosto 2011
Garibaldi come l'Uomo Tigre
Stavo leggendo le epiche imprese dello stupefacente Garibaldi di Tuono Pettinato e...
dove può andare l'immaginario.
Mi interrompo per andare in bagno. Lavo i denti. E mi ritrovo a canticchiare
"E l'Uomo Tigre che lotta con furore, combatte sempre per la libertà..."
Il potere delle libere associazioni.
Garibaldi, il nuovo supereroe.
Quando l'immaginario nazional popolare riprende piena vita.
Harry
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venerdì 26 agosto 2011
Rivelazioni (2)
Ogni tanto escono nuove rivelazioni dagli archivi di WikiLeaks che riguardano il fumetto.
Oggi si parla di una delle principali icone del fumetto italiano.
Pare che tutte le storie di Dylan Dog raccontate fino ad oggi siano solo una parte della verità.
Tiziano Sclavi aveva in programma di scrivere il numero 300 (in uscita in questi giorni) per raccontare la finzione dietro alla vita di Dylan Dog.
Dalle indiscrezioni emerse sembra che il protagonista avrebbe approfittato di ogni spazio bianco tra le vignette per rimepirsi di vodka e brandy, e che non avrebbe mai superato la sua dipendenza dall'alcool.
Le tante relazioni precarie con le donne sarebbero la più classica delle coperture per un orientamento omosessuale (non è chiaro se Groucho sia a sua volta coinvolto).
Sembra che un console russo a Londra abbia visto Dylan Dog a una festa vestito con camicia blu elettrico e pantaloni di lino bianco, lo avesse scambiato per Rupert Everet e gli avesse rivolto un complimento nella sua lingua. Il presunto Rupert Everet sarebbe scappato esclamando "Giuda Bastardo".
Negli ultimi anni Sclavi avrebbe voluto raccontare la verità, ma Bonelli gli avrebbe imposto il silenzio. Da qui il progressivo allontanamento dalla testata.
Le ultime vicende personali del sig. Dog, sempre più avvilenti e tristi (Dylan Dog sembra sempre più una caricatura di se stesso), sarebbero dovuto a un crollo psico-fisico dovuto all'abuso di alcool, sesso e alla finzione che ha dovuto sostenere per tutto questo tempo.
Il ministro della cultura italiano, interpretato su questi dati, avrebbe detto che "si tratta solo di un complotto comunista per attaccare il nostro paese".
I ritardi nella pubblicazione dell'intervista di Sclavi sul quotidiano l'Unità sarebbero dovuti all'imbarazzo della redazione di fronte alla verità che l'autore avrebbe rivelato senza giri di parole. L'intervista sarebbe stata profondamente ri-editata.
A proposito di KikiLeaks, segnalo l'uscita in libreria del libro su Assange, Julian Assange, la vita del fondatore di WikiLeaks (Becco Giallo), realizzata da Dario Morgante e Ginaluca Costantini. Il libro è presentato così:
Non una semplice biografia di Julian Assange o un reportage su WikiLeaks, ma un libro che parte da questi spunti per esplorare argomenti caldi come l’etica hacker, la libertà d’informazione, le basi della democrazia.
Per me è importante.
Harry
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giovedì 25 agosto 2011
Merchandising e la posizione di Bill Watterson
un'immagine a caso presa da internet
Immerso in Calvin and Hobbes fino al collo, mi lascio ammaliare dalla sconvolgente posizione di Bill Watterson sul merchiandising, a me nota da tempo, ma che mi torna alla mente con prepotenza. Una posizione che, dentro a queste pagine, dentro a questa famiglia, ha ancora più forza e senso per me.
Se non lo sai, all'apice del successo di Calvin and Hobbes sui quotidiani, il Syndacate che pubblicava la striscia ha chiesto (è un eufemismo) a Watterson di sviluppare la solita, enorme, ubriacante, miliardaria trafila dei prodotti marchiati C&H. Magliette, pupazzetti, tazzine, mutande, ... se pensi a dove nei decenni hai trovato Linus con la sua copertina, o Snoopy e gli altri personaggi dei Peanuts, sai bene di cosa parlo.
La risposta naturale, forte del successo, sarebbe stata un contratto d'oro per Watterson e un futuro da milionario vita natural durante. Eredi degli eredi compresi.
Ma
Watterson decise che no, che non voleva vedere diffuse le sue creature a fumetti in tutti gli oggetti della vita quotidiana. La ragione? La dignità del suo fumetto, dei suoi personaggi. Voleva che i suoi personaggi continuassero ad avere vita propria nella forma per la quale sono stati realizzati. Il fumetto!
Incredibile a pensarci oggi. No?
Oggi il fumetto popolare è per lo più un veicolo pubblicitario, un traino per la mercificazione spinta dei collaterali. Da anni si inventano fumetti pensando a come poterli sfruttare commercialmente. Per Watterson, uomo solitario e coerente, il fumetto dovrebbe avere la dignità di esistere per quello che è.
Quindi, se anche tu hai nel tuo cassetto una bella maglietta con Calvin che piscia contro il muro, ricordati che non è autorizzata da Watterson. E che in qualche modo contraddice i presupposti stessi sui quali Watterson ha costruito le sue creature, la sua professionalità e la sua credibilità.
Harry
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Idee per i prossimi Dylan Dog Color Fest
Ieri sera, a un aperitivo con un paio di amici fumettisti, ci sono venute alcune idee per le prossime pubblicazioni del Dylan Dog Color Fest.
Dopo il Color Fest realizzato da sole donne, ecco alcune proposte per le prossime categorie di persone che potrebbero farne uno:
omosessuali
ciccioni
nani
alcolizzati (che potrebbero realizzare un ottimo Dylan Dog Year One a colori)
autori di fumetti che non leggono fumetti
ipoacusici
non vedenti
tassisti
avvocati (per una volta, la categoria tanto invocata ultimamente potrebbe avere una funzione reale nel mondo del fumetto)
...
Pensa, un Dylan Dog Color Fest realizzato solo da avvocati. Non sarebbe male.
Ah, e un'ultima idea, davvero provocatoria, che incontra il paradosso: un Color Fest realizzato solo da inchiostratori. Un Color Fest in bianco e nero.
Una rivoluzione concettuale! Gualdoni!!
Harry
(grazie ad Alberto e Gabriele. Grande serata quella di ieri)
mercoledì 24 agosto 2011
La completezza come arte
L'ho accennato.
Ho comprato dopo anni di desiderio a distanza, Complete Calvin and Hobbes (Universal Press Syndicate ), un'opera monumentale che raccoglie tutto quanto realizzato da Bill Watterson per la sua immortale striscia.
Watterson è un caso unico nel fumetto mondiale, per la sua nota opposizione al merchandising di Calvin and Hobbes, e per il fatto di essersi ritirato dal mondo del fumetto dopo la conclusione della striscia giornaliera. L'uomo da un'opera (monumentale) soltanto? Chissà.
Intanto, due cose a seguito della lettura di questa edizione. Se esiste un mercato nel quale qualità e cura editoriale sono marchio di fabbrica è certamente quello della ristampa delle strisce. Ne ho già parlato. Con Complete Calvin and Hobbes questo fenomeno è spinto alle estreme conseguenze. In ogni pagina, di grande formato, sono contenute tre strisce giornaliere o la striscia domenicale a colori. La qualità della carta e della stampa è altissima. La rilegatura, il cofanetto, la grafica fanno di quest'opera una pietra miliare. E questo, senza parlare dei contenuti.
Ritengo che Calvin and Hobbes sia una delle rare (rispetto al mare magnum delle produzioni e dei presunti best-seller) opere culturali che abbiano avuto un successo e un riconoscimento pari al suo valore. Merito della lucidità di Watterson, e della sua capacità di parlare in modo trasversale a persone di diverse appartenenze culturali e generazionali.
Ma leggendo quei tre volumi, così spaziosi, delicati (sul piano dei contenuti), solidi (contenuti ed edizione), accoglienti, intelligenti, movimentati, gioiosi, ... leggendoli in fila, si coglie per la prima volta davvero l'omogeneità artistica del capolavoro di Watterson. Basta vedere la cura che Bill ha messo nella realizzazione del lettering, oppure nella colorazione delle tavole domenicali. O l'impressionante coerenza con cui sono stati ritratti i diversi personaggi nel corso degli anni, striscia dopo striscia. Tutti aspetti che la Complete Edition valorizza al massimo.
Insomma, Complete Calvin and Hobbes è un'opera unica, capolavoro nel capolavoro. E se vuoi un divertente spaccato di vita vera su Calvin and Hobbes, ti consiglio di leggere questo, di cui riporto il finale:
" [...]E quello stronzo di Bill Watterson ti dice così, facendoti pure ridere, che non è possibile nel mondo– aiuto!- una conoscenza di quel tipo. Figurarsi nel fumetto. Devi fare una scelta. Tu: devi guardare la complessità e farla, una scelta. Questo è il fumetto, piccolo. E’ una roba iperbolica, mica euclidea. Qui sta il suo bello.”
Harry
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lunedì 22 agosto 2011
Punpun cos'è
Paolo Interdonato, qualche tempo fa, elencava alcuni buoni motivi per evitare future pubblicazioni italiane della linea manga di Panini Comics. Il riferimento dell'esempio è a un'opera molto bella di un autore molto bravo, Inio Asano.
Uno sforzo interessante per migliorare, Panini Comics lo fa con la pubblicazione di Buonanotte Punpun, il nuovo lavoro dell'autore giapponese, che riprende pari pari l'edizione originale. Sono piccoli albi colorati, con sovraccoperta. L'albo è bello al tatto e bello da sfogliare.
Il lettering è lo stesso. Il prezzo non è popolare.
La serie è ancora in corso in Giappone. In Italia sono finora usciti tre volumetti, di cui ho potuto leggere finora solo il primo. Il primo di cosa? Cos'è Punpun?
Asano ci immerge nella quotidianità, quella che lui conosce e rappresenta così bene, quella depressa, inquieta e isolata dell'adolescenza nipponica. E per certi versi, l'inizio di Buonanotte Punpun è nel solco di certa tradizione manga che si occupa di scuola, innamoramenti, sessualità, ... Non manca il suo tocco poetico e vago, quel vagare emotivo tipico dell'insofferente ricerca dell'adolescenza. E non mancano le sorprese nei particolari.
Il primo è eclatante: Punpun non è un ragazzo, ma una sorta di uccellino, disegnato in modo infantile, essenziale. Quel che domina, è l'icona. Punpun è un'icona vivente in un mondo reale, e la rincorsa al non detto, alla rappresentazione e all'immaginazione è un baratro, un buco nero narrativo che assorbe il lettore in domande e sensazioni. Hai presente quella strana sensazione a cui pensi quando immagini La Cosa dei Fantastici Quattro che fa sesso con la sua fidanzata cieca? Ecco, qualcosa di simile, ma in un impianto molto più realistico e spaventoso.
Ma i particolari sono molteplici. E sottili. Per esempio, il rapporto di Punpun con i suoi genitori. Lo zio che arriva a soccorso e l'immaginario rivoluzionario che si porta con sé.
E poi, una svolta violenta, inaspettata, che rompe ogni equilibrio.
Asano finge la favola vagamente antropomorfa, per parlare di una realtà violenta e incontrollata. Punpun non è dolce, o semplicemente simpatico. Ma una rappresentazione iconica della vittima. Della fragilità degli adolescenti in un contesto più grande, doloroso e pericoloso di quello che appare.
E per forza di questo punto di vista, l'inizio della saga di Punpun mi sembra imperdibile.
Harry
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Didascalico - come ti uccido il fumetto di avventura
asttear, (c) renee french
Tempo fa il fumetto di avventura aveva una cultura dell'immagine tutta da creare. Il riferimento più vicino era l'illustrazione. I testi erano verbosi, molto descrittivi, derivativi della letteratura. I disegni erano un compendio. In quel contesto, c'era una doppia esigenza: accompagnare il lettore passo a passo attraverso una nuova forma di comunicazione; riuscire ad essere popolari.
Perdonami l'estrema semplificazione. E andiamo avanti.
Il tempo è passato. La cultura visiva del fumetto è mutata sotto tutti i punti di vista. Il modo di funzionare della nostra mente è cambiato. Il visivo è diventato predominante. Nel fumetto, le parole, la parte testuale, ha visto complessivamente stravolto il suo ruolo. Il cosiddetto storytelling lo si osserva sempre più nello sviluppo delle tavole, vignetta dopo vignetta, in un'insieme organico e composito. Si è capovolto il rapporto. E la faccio breve.
Perché allora nel fumetto popolare seriale italiano, quello di avventura, si osservano così tante prove forzatamente didascaliche?
Esistono due approcci didascalici, attualmente ben reappresentati. Il primo è di tipo redazionale. Ne ho parlato a proposito di Julia (Sergio Bonelli Editore) un po' di tempo fa. La redazione, a piè di pagina, inserisce una nota, per esplicitare un termine, un concetto o un dato storico. In Bonelli è un metodo molto usato da sempre, che per fortuna si sta in parte riducendo. Ma è tuttora presente, con effetti che vanno dal ridicolo al fastidioso. Dietro a questo artificio, si nasconde una vocazione superficialmente educativa, retaggio di tempi in cui al fumetto si attribuiva una funzione didattica piuttosto forte (funzione strettamente legata all'esigenza di rendere il prodotto il più accessibile e popolare possibile).
Se tale usanza è ormai obsoleta ma, in parte, comprensibile, non si può dire la stessa cosa di un approccio didascalico allo specifico della narrazione. Da un lato, nel fumetto seriale, troviamo sempre più tentativi di ampliare i temi, i riferimenti e le suggestioni (culturari e di intrattenimento) alla base dell'impianto avventuroso delle storie. Dall'altro, si nota una grande difficoltà da parte degli autori (in particolare gli sceneggiatori) nell'utilizzare questi nuovi riferimenti in un modo efficace sul piano narrativo. In pratica, anziché essere questi riferimenti al servizio della storia, è la storia che diventa al servizio di questi temi, che necessitano lunghe spiegazioni, la massima esplicitazione, al limite della descrizione didattica. Inutile dirlo, questo approccio uccide il fumetto. Mortifica la storia.
Se una sceneggiatura così esplicita da risultare didascalica rimane un tentativo (sciocco) di mantenere un lavoro popolare, dall'altro è segno di una grande incapacità degli autori a rielaborare, selezionare, metabolizzare e utilizzare in modo efficace le diverse matrici culturali. Il problema esiste anche sul piano visivo. Spesso i disegni sono banalizzati dai riferimenti fotografici, e il realismo si trasforma in foto-grafismo. Tutto, in questo processo, appare omologato e appiattito. Il risultato è quello di togliere vita alla storia, e di non stimolare in alcun modo la fantasia, la curiosità e l'intelligenza dei lettori. Oltre, ovviamente, a togliere qualunque ritmo narrativo al racconto, appesantito da contenuti testuali e visivi già morti.
Harry
Tempo fa il fumetto di avventura aveva una cultura dell'immagine tutta da creare. Il riferimento più vicino era l'illustrazione. I testi erano verbosi, molto descrittivi, derivativi della letteratura. I disegni erano un compendio. In quel contesto, c'era una doppia esigenza: accompagnare il lettore passo a passo attraverso una nuova forma di comunicazione; riuscire ad essere popolari.
Perdonami l'estrema semplificazione. E andiamo avanti.
Il tempo è passato. La cultura visiva del fumetto è mutata sotto tutti i punti di vista. Il modo di funzionare della nostra mente è cambiato. Il visivo è diventato predominante. Nel fumetto, le parole, la parte testuale, ha visto complessivamente stravolto il suo ruolo. Il cosiddetto storytelling lo si osserva sempre più nello sviluppo delle tavole, vignetta dopo vignetta, in un'insieme organico e composito. Si è capovolto il rapporto. E la faccio breve.
Perché allora nel fumetto popolare seriale italiano, quello di avventura, si osservano così tante prove forzatamente didascaliche?
Esistono due approcci didascalici, attualmente ben reappresentati. Il primo è di tipo redazionale. Ne ho parlato a proposito di Julia (Sergio Bonelli Editore) un po' di tempo fa. La redazione, a piè di pagina, inserisce una nota, per esplicitare un termine, un concetto o un dato storico. In Bonelli è un metodo molto usato da sempre, che per fortuna si sta in parte riducendo. Ma è tuttora presente, con effetti che vanno dal ridicolo al fastidioso. Dietro a questo artificio, si nasconde una vocazione superficialmente educativa, retaggio di tempi in cui al fumetto si attribuiva una funzione didattica piuttosto forte (funzione strettamente legata all'esigenza di rendere il prodotto il più accessibile e popolare possibile).
Se tale usanza è ormai obsoleta ma, in parte, comprensibile, non si può dire la stessa cosa di un approccio didascalico allo specifico della narrazione. Da un lato, nel fumetto seriale, troviamo sempre più tentativi di ampliare i temi, i riferimenti e le suggestioni (culturari e di intrattenimento) alla base dell'impianto avventuroso delle storie. Dall'altro, si nota una grande difficoltà da parte degli autori (in particolare gli sceneggiatori) nell'utilizzare questi nuovi riferimenti in un modo efficace sul piano narrativo. In pratica, anziché essere questi riferimenti al servizio della storia, è la storia che diventa al servizio di questi temi, che necessitano lunghe spiegazioni, la massima esplicitazione, al limite della descrizione didattica. Inutile dirlo, questo approccio uccide il fumetto. Mortifica la storia.
Se una sceneggiatura così esplicita da risultare didascalica rimane un tentativo (sciocco) di mantenere un lavoro popolare, dall'altro è segno di una grande incapacità degli autori a rielaborare, selezionare, metabolizzare e utilizzare in modo efficace le diverse matrici culturali. Il problema esiste anche sul piano visivo. Spesso i disegni sono banalizzati dai riferimenti fotografici, e il realismo si trasforma in foto-grafismo. Tutto, in questo processo, appare omologato e appiattito. Il risultato è quello di togliere vita alla storia, e di non stimolare in alcun modo la fantasia, la curiosità e l'intelligenza dei lettori. Oltre, ovviamente, a togliere qualunque ritmo narrativo al racconto, appesantito da contenuti testuali e visivi già morti.
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giovedì 18 agosto 2011
I cinque ingredienti (vincenti?) per ristampare le strisce
Tom De Haven in un articolo sul sito del Comics Journal analizza le ragioni del successo editoriale della ristampa cronologica delle strisce storiche negli Stati Uniti, indicando cinque ingredienti tematici che si aggiungo ai fumetti e che, insieme alla cura del volume (grafica, carta pesante, rilegatura, ecc.), rendono imperdibili questi volumi.
I cinque ingredienti sono:
1. Contesto storico e socio-culturale
2. Un’analisi tecnica dell’efficaca delle strisce pubblicate e come funzionano sul piano narrativo e stilistico
3. Le influenze stilistiche, culturali e narrative dell’autore
4. Le biografie degli artisti, con particolare attenzione alla famiglia e al rapporto con gli editori
5. Aneddoti sulla vita e la carriera dell’artista
Giustamente De Haven sottolinea il grande lavoro di ricerca, cura e amore che c’è dietro alla riuscita di un volume di questo tipo. Ricordo per esempio che la ristampa cronologica e completa di Gasoline Alley (Walt & Skeezix per Drawn & Quaterly) curata da Chris Ware, fatica a ripagarsi le spese di produzione, ma è un autentico pezzo di storia (del fumetto e in senso lato della cultura americana) che ritorna alla luce a disposizione di tutti.
De Haven evidenzia inoltre, quasi di passaggio, la contraddizione tra la transizione in atto verso un nuovo concetto di libro (ebooks) digitale e volatile, e l’imponenza e la consistenza (anche fisica!) di questi prodotti.
Ricordo che in Italia, un solo editore ha recentemente avviato un lavoro altrettanto importante, seguendo a grandi linee i cinque criteri elencati da De Haven, che è Black Velvet con l’integrale di Doonesbury, di cui aspetto trepidante il secondo volume.
Le mie personali preferenze sono comunque per Gasoline Alley, Popeye e King Aroo, ma la scelta è davvero ampia.
Harry
Per inciso, aggiungo che mi è appena giunto dalla Gran Bretagna la mastodontica edizione integrale di Calvin & Hobbes, a proposito di volumi consistenti. Una vera meraviglia. Ne riparlerò.
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mercoledì 17 agosto 2011
Tezuka sotto il sole del positivismo?
Torno a parlare di Tezuka Osamu. Sfogliando questo blog mi accorgo, in effetti, di avergli dedicato davvero poca parte del mio tempo rispetto al grande interesse e amore che nutro per questo autore.
Ieri, nella calura estiva, rileggevo Black Jack (Hazard ed.), l'opera più trasversale e sorprendente di Tezuka, quella in cui ha maggiormente giocato con la sua perizia e la sua intelligenza, racconto dopo racconto.
Il dottor Black Jack, abilissimo chirurgo senza licenza, è una delle figure narrative più sfaccettate e complesse che abbia mai incontrato nelle mie esperienze di lettore. Nobile, anarchico, saccente, avaro, generoso, ... ha una tale profondità e ambiguità che è impossibile catalogarlo. Nelle sue scelte e nelle sue azioni, si respira tutta la complessità di pensiero di Tezuka, e la conflittualità morale che lo ha da sempre attraversato. Tezuka si divide a metà tra una vocazione spirituale molto forte e ancorata nella tradizione (in parte induista, in parte buddhista, in parte cristiana) e un positivismo scientifico figlio del suo tempo. La medicina (e la chirurgia, per certi versi perfezionamento e massima espressione della medicina stessa) ha un luogo immaginario particolare, in Black Jack, poiché rappresenta sia il potere della tecnica dell'uomo sulla natura (il dominio della medicina sulla malattia), sia la forza della volontà e della perizia sul fato. Black Jack, da questo punto di vista, è un grande medico, per nulla mistico, ma totalmente, concretamente pratico, essendo la prassi e la tecnica le sue ineguagliabili risorse.
D'altra parte, l'esasperazione concettuale a cui giunge Tezuka, in più occasioni sembra trasformare l'uomo Black Jack in una divinità (positivita. Si potrebbe utilizzare il concetto di ateismo religioso). Con grande intelligenza (e grottesca ironia), il Maestro rivela un altro meccanismo tipico della modernità, ovvero quell'attesa salvifica verso la medicina e la Scienza in senso lato, che domina in particolare nelle persone colpite dalle grandi malattie del nostro tempo. Viene svelato, cioè, quel rapporto di potere fortemente asimmetrico per il quale il malato è in balia totale delle scelte e delle capacità del medico, che raramente spiega, raramente conforta, raramente si confronta con il paziente malato, e che ne governa le sorti dall'alto della sua conoscenza e della sua tecnica. Le conseguenze di tale distorsione sociale sono esperienza quotidiana di tutti noi, e sono spesso portatrici di nuova sofferenza e frustrazione, in aggiunta a quella che già abbiamo per colpa della malattia. Tezuka, nella sua gestione volutamente ambigua del personaggio, non bara mai. Più volte, è lo stesso Black Jack che dichiara ai suoi pazienti che non è un dio, ma solo un uomo molto abile. Spesso, sono i pazienti che sembrano non ascoltare (altra dinamica tipicamente umana).
Ma è proprio nel positivismo portato all'estremo che Black Jack muta fino a ribaltare completamente il punto di vista del lettore. La narrazione vista nel suo insieme, capitolo dopo capitolo, si sviluppa attraverso un andamento non lineare (neppure circolare, piuttosto a spirale, tipicamente orientale) che si appoggia su una struttura morale (o karmica) per la quale Black Jack, che non è un dio per ragione delle sue capacità (salvifiche), diventa una sorta di divinità karmica nel suo ruolo di maieuta, di facilitatore dei destini delle persone che incontra. Black Jack, malgrado le sue operazioni al limite del possibile, non ha potere di vita e di morte sulle persone. Il suo compito, piuttosto, sembra essere quello di favorire il compimento di un cammino karmico del genere umano a cui è impossibile sottrarsi. Nell'accezione tipicamente orientale, però, il destino di cui si parla non è qualcosa di deciso dall'alto, di predeterminato in senso assoluto da una divinità estranea e lontana, ma semplicemente la conseguenza inevitabile delle scelte e delle condotte individuali. Gli esempi sono numerosi, e vanno dal giovane nuotatore affetto da malattia congenita, al bambino intrappolato sotto le macerie, alla piccola ma adolescente Pinoko, ecc.
Nel prossimo articolo riporterò una storia che è perfetta nell'esplicitare quanto ho cercato di spiegare, una breve parabola morale toccante e in perfetto equilibrio tra sentimentalismo, grottesco, orrore, commedia, ...
Harry
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giovedì 11 agosto 2011
Tezuka ai quattro venti
Io amo Tezuka Osamu in modo viscerale. Le sue storie sono per me fonte di enorme soddisfazione. Dalla più ironica e infantile a quelle più adulte e sofisticate. Tezuka rappresenta ai miei occhi l'autore completo per antonomasia, colui che ha toccato tutti i generi e ogni volta con estrema intelligenza, mettendo sempre in discussione quanto fatto prima, sfidandosi costantemente e... sfidando le aspettative dei lettori. Tezuka è un unicum nel mondo fumettistico globale.
In Italia, per molti anni, la sola Hazard Edizioni è sembrata interessata alla sua opera. A lei, al suo lavoro mai perfetto ma sempre importante, dobbiamo la versione italiana dei principali capolavori riconosciuti di Tezuka (Budda, Black Jack, La storia dei tre Adolf, La Fenice tuttora in corso di pubblicazione). Non so se in precedenza Hazard avesse l'esclusiva italiana, oppure fosse l'unica casa editrice realmente interessata alla sua opera. In effetti, a memoria, ricordo una pubblicazione interrotta di un suo lavoro, Dororo, edita da Kabuki Publishing, agli inizi del 2000, quindi immagino che non ci fossero contratti di esclusiva tra Hazard e gli eredi Tezuka.
Ebbene, nell'ultimo periodo sembra che ci sia un ritorno a Tezuka, da parte di più di un editore. Prima fu Panini Comics, che pubblicò alcuni volumi antologici di Astro Boy, a sfruttare il traino commerciale del film. Oggi ci sono Free Books con Alabaster, Ronin Manga con Don Dracula e Kappa Edizioni con Pinocchio.
La qualità delle proposte è altalenante, sul piano della cura editoriale. E credo che in generale, troppo spesso l'opera di Tezuka sia stata malamente punita da una confezione inadeguata e spesso incapace di attrarre davvero i potenziali lettori. Potenziali lettori che, nel caso di Tezuka, dovrebbero/potrebbero essere tutti gli esponenti della razza umana! Perché la varietà dei temi e degli stili è davvero in grado di parlare a tutti e di trasmettere a ognuno qualche intuizione e qualche emozione sulla nostra vita.
Non mi è chiaro, tuttavia, il perché di questo ritorno a Tezuka, in un periodo di fatica del mercato e di difficoltà di collocazione. Ho due idee: o l'amore per Tezuka è talmente forte, da parte di alcuni editori, da voler in ogni caso rischiarne la pubblicazione pur di vederne un'edizione italiana; oppure si conta su uno zoccolo duro di appassionati immortali lettori di Tezuka come il sottoscritto.
Il primo caso mal si concilia con la scarsa cura editoriale di alcune pubblicazioni (vedi Free Books, ma anche Hazard, per quanto decisamente migliore). Il secondo caso potrebbe essere un miraggio, compensato solo dalla distribuzione per librerie specializzate e dall'alto costo di copertina.
Di Tezuka amo molto alcune edizioni statunitensi (Apollo's Song, per esempio). Ma in ogni caso, vi prego, piccoli o grandi editori che avete la determinazione di pubblicare il Dio dei manga, credeteci fino in fondo e fatelo guidati dal cuore. Amatelo. Coccolatelo. Curatelo in ogni dettaglio. Non merita niente di meno.
Harry
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mercoledì 10 agosto 2011
Coprire di colore
(c) jeff smith
Torno sul Tex a colori.
Come suggerito da Tiziano Angri in un commento al post precedente, la colorazione delle storie classiche di Tex è un po' come la colorazione di vecchie pellicole cinematografiche.
Il che è comprensibile. Si interviene a posteriori su un prodotto vecchio di anni, concepito per un altro formato e... un altro gusto. Non tutti possono permettersi di investire tempo, risorse, ingegno per ripensare il prodotto originale alla luce della nuova colorazione, come ha fatto Jeff Smith con il suo Bone a colori (attualmente in pubblicazione per Panini Comics). Nel caso di Bone, l'autore ha ricreato una nuova opera, per un diverso pubblico (i bambini e i giovani ragazzi). Sono stati anche rivisti parecchi dialoghi, per renderli o meno oscuri o meno adulti nel linguaggio. Personalmente non concordo con Art Spiegelman (che a quanto si dice diede a Smith l'idea del Bone a colori) nel ritenere che i colori avrebbero perfezionato il capolavoro di Smith. Rileggo e confronto le due edizioni e sono ancora convinto che gran parte della forza di Bone stia in quel bianco e nero netto e attento, vero stile intuitivo e geniale dell'autore. Tuttavia, apprezzo e capisco il senso di tale operazione. E immagino che la nuova edizione a colori abbia davvero avvicinato migliaia e migliaia di nuovi lettori negli States (nota a margine, l'incapacità di sfruttare le potenzialità di Bone in Italia sono imbarazzanti. Vedremo cosa ne farà Bao Publishing con la One Volume Edition in bianco e nero).
Ma per Tex, la questione è ovviamente completamente diversa. Innanzitutto perché, strano ma vero, il target di riferimento del Tex a colori è molto probabilmente lo stesso che ha letto e legge il Tex classico. Credo ci sia piena sovrapposizione, o quasi (escluderei qualche nostalgico purista). E soprattutto perché sul materiale già edito di Tex è impossibile immaginare una qualunque forma di revisione in funzione del colore. L'unica via, è coprire di colore. Qualche autore ne uscirà meglio, qualche autore ne uscirà peggio, a seconda del suo personale uso dei tratteggi, dell'ombreggiatura, delle campiture, ecc.
Quel che tuttavia mi colpisce, e mi lascia davvero perplesso, è la scelta di Bonelli di non produrre neppure le nuove storie (a colori) in funzione del colore, a parte il fatto di scegliere un disegnatore che per stile meglio si adatta ad essere coperto di colore, ovvero Bruno Brindisi e la sua personale e italianissima interpretazione della linea chiara. Per il resto, Bonelli ha chiesto a Brindisi di lavorare come al solito. Nessun pensiero, nessuna riflessione, su quel benedetto colore. Ce lo dice lo stesso Brindisi in un'intervista per LoSpazioBianco.it realizzata da Davide Occhicone:
Quando sei stato contattato nuovamente dall’editore per tornare a Tex ti era già stato detto che l’albo sarebbe stato colorato, esatto?Una scelta per me incomprensibile. Se non, di nuovo, giustificata dal semplice sono stato costretto di cui già parlavo. Interessante notare che Brindisi accenna al gusto del lettore, quando dice come piace ai lettori. Eppure, mi chiedo, IL lettore di Tex non potrebbe apprezzare, magari anche di più, un lavoro diverso, che non consista solo nel coprire di colore i disegni ma che ne valorizzi appieno il potenziale narrativo?
Sì, sono stato precettato, non mi è stato chiesto se volevo farlo, del resto loro sanno che possono contare su di me.
Che cambia nel tuo approccio lavorativo quando sai che l’albo sarà colorato?
Nel caso di Tex non cambia, non è una storia a colori, ma una storia colorata, all’antica, come piace ai lettori e all’editore. Il mio stile, comunque, non è mai troppo dark, quindi si presta. Ho lasciato il cielo bianco di notte. Stop.
Harry
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